Aiuto, che fatica
– Un libro recente denuncia il sistema degli aiuti. Accuse che non sono una novità. E che devono aiutarci a fare bene il bene.
_di Pier Maria Mazzola_
Il dibattito sugli aiuti umanitari non è nuovo, ma si è ringalluzzito all’inizio dell’anno con una novità editoriale, L’Industria della carità (Chiarelettere). Il libro di Valentino Furlanetto, lungi dall’affrontare tutte le pieghe della problematica, riapre soprattutto un fronte italiano: quello della trasparenza. Benché le Ong non vi siano tenute per legge, la giornalista di Radio 24 le sferza perché rendano comunque di facile accesso i bilanci, anche sui loro siti web. Affinchè si capisca, tra l’altro, la reale suddivisione dei capitoli di spesa: stipendi, funzionamento interno, comunicazione e progetti sul campo. In apertura di volume, inoltre, alcune testimonianza di operatori umanitari rivelano stili di vita di volontari e cooperanti davvero scandalosi per lusso e atteggiamenti, fotografati in isole felici, a due passi dai dannati della terra che sono lì a soccorrere.
L’autrice si difende da chi l’accusa di fare di ogni erba un fascio, sostenendo che il suo intento non è gettare fango sul mondo della solidarietà (compresa quella italiana, vedi terremoto in Abruzzo), ma luce. Permane, comunque, qualche impressione di confusione, per esempio quando imputa a organizzazioni come Amnesty International o Greenpeace di spendere troppo in comunicazione, quando è questa la loro mission. O quando denunzia l’esistenza di un organismo di autocontrollo, espressione degli stessi controllati. “Può essere colpa nostra? – ha reagito in un dibattito una voce autorevole come Gianni Rufini -. Che si costituisca una istituzione pubblica di verifica dell’operato delle Ong. E si faccia presto. Siamo i primi a volerlo”.
Il discorso, in ogni caso, non è per niente nuovo. In Italia è vivo nel mondo missionario e del volontariato internazionale fin dagli anni Settanta, quando ben più di oggi, ribolliva la diatriba fra una visione degli aiuti assistenziale e un’altra politica (la storia del dare il pesce o la canna per pescare, insomma). Era il 1981 quando la Nigrizia di Alex Zanotelli (che oggi firma la prefazione a Furlanetto), dava una copertina all’Arma del grano. Una giornalista tunisina di Jeune Afrique condensava il suo libro L’arme alimentaire (Maspero), per mostrare come gli aiuti agli affamati fossero uno strumento in mano a gruppi di potere, che permetteva il controllo di intere nazioni e con pesanti conseguenze: accrescimento della dipendenza strutturale dai paesi del Nord, soffocamento dei mercati locali, garanzia di manodopera a buon mercato nei paesi verso cui si iniziava a de localizzare, esodo rurale e altro ancora. Eppure, perfino buona parte delle sinistre europee continua a credere nelle virtù di questi aiuti, lamentava Sophie Bessis, l’autrice. Nei primi anni Ottanta in Italia si sta montando la macchina della cooperazione internazionale governativa, con stanziamenti di non poco conto. Ma già a fine 1983, padre Alex comincia a denunciare che è solo un carrozzone per far campare grandi imprese italiane, perfino nel giro delle armi, tra sprechi e progetti di sviluppo assurdi, con i loro sedicenti esperti e poi Dc, Pci e Psi a spartirsi i pezzi d’Africa da aiutare. E per i poveri? Sì e no le briciole. Anni Novanta. Di cooperazione internazionale si parla, nella pratica, sempre di meno, anche se le Ong aumentano di numero (diventando sempre meno non governative). Si approfondisce la riflessione sul senso dello sviluppo, ma ci si impegna di più nell’emergenza. Nell’umanitario. Fronti di guerra e aree di crisi si moltiplicano, dopo il muro di Berlino. Servono equipe mediche pronte a scattare da un meridiano all’altro, pende per i profughi, alimenti, specialisti nell’assistenza alle vittime traumatizzate… Si moltiplicano anche le tivù e i media globali: lo spettatore vede, s’indigna, si commuove, partecipa. Come può, spesso mettendo mano al portafoglio. Molti si fidelizzano all’una o all’altra associazione. L’umanitario si professionalizza sempre più, o almeno questa è l’impressione.
Chi rifletteva continua a farlo, e a maggior ragione da quando umanitaria è diventato aggettivo anche di ingerenza (eufemismo per guerra). Nel 2000, Nigrizia riunisce attorno a un tavolo un piccolo e qualificato gruppo di operatori e osservatori. Ne verrà fuori un dossier dal titolo: “Vivere di emergenze”, un tema che ritroveremo presto anche in nuovi libri e articoli di riviste. Che cos’è, davvero, l’emergenza? Sono ancora tali le situazioni croniche di indigenza, enfatizzate come apocalissi dai mass media, ma che andrebbero affrontate per quello che sono, quindi con interventi di lungo respiro e non con un cerotto dopo l’altro?
Un’altra questione davvero scottante è quella dell’umanitario che, partito per soccorrere le vittime, deve scendere a patti con i carnefici, i quali continueranno con mezzi rinnovati (sì, quelli forniti, pur a malincuore, dalle Ong), a mietere nuove vittime. È di quel periodo la decisione di Medici senza frontiere ed altre dieci agenzie di lasciare il Sud Sudan per non sottomettersi a un imbarazzante accordo imposto dal locale esercito di liberazione. “Qui il rimedio è divenuto – diceva Nicoletta Dentico, all’epoca direttrice di Msf Italia – parte del problema: gli aiuti di emergenza sono oggi un’autistica componente di perpetuazione di una guerra infinita”.
A ruota usciva quello che è forse il primo libro tutto italiano sull’argomento: L’illusione umanitaria (Emi, 2001), scritto da Marco Deriu e compagni. Riletto oggi, appare ancora attuale, e con il vantaggio di portare uno sguardo sul problema a 360 gradi. Nel 1999 era stato tradotto dal francese il durissimo L’ideologia umanitaria di un antropologo, Bernard Hours (L’Harmattan Italia); Giulio Marcon nel 2002 porterà un nuovo contributo italiano con Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli); l’anno seguente, Il paradosso umanitario è il sottotitolo dell’amaro Un giaciglio per la notte (Carocci) dell’inviato di guerra David Rieff.
Saltiamo al 2007. I disastri dell’uomo bianco. Perché gli aiuti dell’Occidente al resto del mondo hanno fatto più male che bene (si noti la drasticità dei titoli di questo scaffale), è uno studio fondamentale. La grande domanda è: c’è correlazione tra la quantità di aiuti – a conti fatti ingenti – riversati nel Sud del mondo, Africa in particolare, e la loro crescita? No William Easterly è addirittura tentato di leggere il mancato sviluppo come conseguenza degli aiuti; si ferma però un passo prima. Certo rimane, oltre alla cura con cui analizza le cifre, la chiarezza con cui presenta la complessità della lotta alla povertà rispetto alla vulgata del “basta un euro per salvare un bambino”.
Ancora libri tradotti. Paul Collier si dedica con l’ultimo miliardo (Laterza, 2008) a sondare perché i paesi più poveri diventano sempre più poveri e cosa si può fare per aiutarli. La sua è una prospettiva eminentemente economica ed è più moderato di altri autori: gli aiuti “direi che formano parte della soluzione più che del problema. La sfida sta nell’associarli ad altre azioni”.
Nel 2009 L’industria della solidarietà (per Bruno Mondadori, come il titolo di Easterly), si concentra sugli aiuti umanitari nelle zone di guerra. Linda Polman, giornalista di guerra, nonché esperta di missioni di pace Onu, punta sulle sue personali testimonianze. Anche il direttore scientifico di una grande agenzia come Oxfam esce, quasi simultaneamente, con un suo studio. In Dalla povertà al potere, Duncan Green consacra al sistema degli aiuti internazionali, solo una parte del volume, ma lo fa con un’ampiezza critica se possibile maggiore di Polman, anche se con toni più pacati.
Umanizzare l’umanitarismo? (Utet, 2009) è un nuovo titolo italiano a più mani, a cura di Marina Calloni, che si caratterizza per l’interdisciplinarietà. Fra gli interventi si segnalano quelli dei missionari. Padre Kizito sottolinea come sia paradossalmente facile dimenticare proprio le persone cui gli aiuti si rivolgono; altri comboniani, Suor Maria Teresa Ratti e Padre Francesco Pierli, avvertono come l’umanitarismo si sia andato trasformando in un modo di vivere e di governo per tenere stagnanti e immobili problemi che esigerebbero un cambio politico e commerciale radicale, di governance e di management. L’umanitarismo è quindi profondamente antiumano; è un’invenzione cinica del neoliberismo.
Ed eccoci, nel 2010, al titolo che ha forse fatto più rumore. Per la prima volta è un africano a esprimersi autonomamente. Anzi, una donna africana, una brillante economista quarantenne dello Zambia, che dichiara che “gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo”, come recita il sottotitolo di La carità che uccide (Rizzoli). Un libro che ha tra i suoi pregi la chiarezza – tra cui la delimitazione del campo: gli aiuti di cui parla sono essenzialmente quelli da governo a governo – anche se non è sempre necessariamente condivisibile. Dambisa Moyo, che ha lavorato nella Banca Mondiale e nella Goldman Sachs, nell’ultima pagina ha elogi per donatori e organizzazioni internazionali che hanno spostato l’ideologia dello sviluppo dalle cattive politiche economiche degli anni Settanta (soprattutto stataliste), alle buone politiche di mercato in agenda oggi (introdotte sulla scorta del Washington Consensus)…
Arriviamo così all’Industria della carità, un’inchiesta che, inquadrata in questa storia di attenzione critica, è, a conti fatti, anche meno cattiva. In conclusione: aiuti sì?… aiuti no? La risposta forse è: aiuti come. E per determinare il come, tutto questo filone più che trentennale di studi e di interrogativi dettati dall’esperienza, andrebbe preso sul serio.