Anna e il treno_Erica Liffredo, San Michele di Cervasca(CN)
_Racconto finalista diciannovesima edizione Premio Energheia 2013.
Il suono metallico della locomotiva sui binari, l’incessante ripetitività di quel rumore acido e forte, la prese dolcemente per mano e la adagiò in un sonno profondo.
Anna precipitò in una sorta di trance. Vide la sua bianca mano scostare una verde e pesante tenda: un’ondata d’intense sensazioni la colpì con violenza. Fu come tornare bambina, perché provò le stesse identiche emozioni, lo stesso enorme senso di meraviglia e di magia. Il suono attutito dei suoi passi sulla terra battuta e l’odore intenso, nato da una mescolanza di umidità, di fieno, di vita errante e vagabonda, arricchita dalle grida e dal frastuono di chi sta per mettere in scena uno spettacolo, riempivano ogni più remoto angolo. In lontananza risate, barriti, ruggiti facevano da sfondo e, a ogni respiro, il suo senso di stupore e d’incanto diventava più profondo. I suoi passi si fermarono e, con i grandi occhi spalancati, restò in attesa. Si sentiva leggera e il tempo sembrava essersi fermato, tanto che quasi non avvertiva più il battito del cuore: tutto il suo essere era proteso ad accogliere quel fantastico mondo che, di lì a poco, si sarebbe spalancato dinanzi ai suoi occhi.
Si guardò intorno e vide le grezze panche, disposte con cura, in cerchi concentrici, perché tutta l’attenzione potesse concentrarsi sul palcoscenico. Qui, tra breve, clown, acrobati, addestratori, trasformisti, mangiatori di fuoco si sarebbero scatenati in un’affascinante e sfrenata danza, in uno scenario popolato di luci, suoni, colori, tra bizzarri giochi e rocambolesche acrobazie.
Poi alzò lo sguardo e si sentì quasi schiacciata dalla grandezza e dal prodigio di quel luogo: corde, funi, pedane e reti riempivano lo spazio in ogni direzione.
Sentì di nuovo il palpito del cuore riempirle il petto: le lancette dell’orologio, prima immobili, iniziarono rapide a ruotare su se stesse. Con l’animo in subbuglio si sedette su una panca, in prima fila. Quand’era piccola adorava andare al circo, perché lì tutto era diverso, i limiti e le regole che governavano il mondo comune sembravano non esistere: ora stava rivivendo quella stessa, identica, gioia. D’improvviso si fece buio e un fascio di luce abbagliante la colpì in pieno. L’attenzione di tutti era su di lei. Spaventata e disorientata, era combattuta tra il desiderio di fuggire e la curiosità di sapere cosa sarebbe accaduto, ma non ebbe il tempo di scegliere. Un buffo ometto, forse un folletto, dalla folta barba rossa e dai lunghi capelli scompigliati, con un solo gesto della mano la sollevò e la portò al centro della scena. Un nutrito gruppo di danzatrici e alcuni contorsionisti si lanciarono in uno strano ballo, mentre lei, ormai pietrificata dallo stupore, rimase nel mezzo. Le loro mani le si avvicinarono e, disegnando magici arabeschi nell’aria, la vestirono d’argento, mentre uno splendido destriero nero, dall’elegante portamento e dalla potente muscolatura, si inchinò dinnanzi a lei. Sentì dentro di sé un’energia nuova: con coraggio e tremante di emozione, salì sulla sua groppa. Da lassù ebbe coscienza che avrebbe potuto combattere mille battaglie, che sarebbe potuta volare nei posti più lontani, galoppare in riva al mare… ed ecco che, come per incanto, spruzzi d’acqua salata le bagnarono le vesti e un senso di infinita libertà si impossessò di lei: si sentiva felice, come non era più da tanto tempo. Lo scalpiccio degli zoccoli sulla sabbia andava a ritmo con l’infrangersi delle onde sulla battigia… quando un rumore estraneo, ma allo stesso tempo familiare, costrinse Anna ad aprire gli occhi.
Con fatica le sue palpebre accettarono di far entrare la luce, prima attraverso una stretta fessura, poi, sempre riluttanti, ma rassegnate al giungere di un nuovo giorno, lentamente cedettero. L’infermiera, come ogni mattina, stava tirando su le tapparelle. Come ogni mattina, quel rumore la riportava alla realtà. Come ogni mattina, quel mondo fantastico scompariva dileguandosi in un accecante raggio di sole. Sentiva ancora il sapore della salsedine sulle labbra e le vesti, bagnate dall’acqua del mare, incollate ai nudi contorni del suo corpo.
Anna, lentamente, voltò lo sguardo al di là di quella finestra: i binari del treno erano lì, immobili e silenziosi. Chissà dov’era ora quel treno, che ogni notte passava di lì e la portava in luoghi incantati, dove tutta la tristezza che riempiva il suo cuore riusciva a dissolversi nel nulla.
Adesso doveva fare un profondo respiro, racimolare le poche forze, per affrontare quell’ennesima giornata, nell’attesa di coricarsi ancora, di sentire ancora la musica di quelle rotaie magiche e fuggire da quel posto, almeno per qualche ora.
Da quando aveva smesso, di nascosto naturalmente, di prendere quelle pillole che la costringevano ad un sonno senza sogni, si sentiva meglio. Oddio, per la verità nulla era cambiato, in senso concreto, lei era sempre chiusa in quell’ospedale, in quella stanza, ed era sempre sola. Dal momento però in cui, per la prima volta, era riuscita a udire il rumore di quel treno, un universo nuovo aveva preso vita, le porte di uno straordinario mondo si erano spalancate. Era un mondo molto particolare, popolato da gente alquanto originale: c’erano stravaganti artisti, maghi incompresi, pagliacci che non sapevano più ridere, acrobati che sognavano di volare, musicisti intrappolati sempre nello stesso ingarbugliato intrico di note, dal quale non riuscivano a scappare, animali che sapevano parlare con gli uomini e uomini che sapevano parlare con le cose. Qui, con la sola forza del pensiero, era possibile diventare chi si desiderava essere, raggiungere i posti più impensabili: una notte aveva nuotato nelle profondità dell’oceano con delle bellissime sirene; un’altra volta si era intrufolata nella linfa di un olivo millenario e aveva, per un attimo, respirato la lunga storia dei suoi anni; un’altra volta ancora si era arrampicata su per un’altissima montagna e un’aquila reale l’aveva poi riaccompagnata a terra…
Accadeva così che Anna, ogni mattina, cercava di ricordare ogni istante vissuto nella notte, perché questi sogni erano delicati, come un miraggio e nelle nebbie del primo risveglio, se uno non era più che attento, rischiava di lasciarli scomparire, quasi senza accorgersi.
Quel giorno, comunque, Anna decise di alzarsi e di andare a fare la colazione, giù in mensa. Da quando era chiusa lì dentro, ormai non si ricordava più di preciso quanto tempo fosse, magari due, tre o anche quattro anni, si era sempre fatta portare i pasti in camera. In primo luogo perché non aveva mai voglia di vedere nessuno e poi perché lì era pieno zeppo di gente davvero strana. Anche lei era strana, ovviamente, altrimenti non l’avrebbero messa lì, ma si sentiva diversa.
La vita non era stata clemente con Anna, ogni giorno era stato una battaglia: per non farsi picchiare da un padre troppe volte ubriaco, per sopravvivere al pensiero di una mamma a cui aveva preso la vita nel preciso istante in cui era venuta al mondo, per riuscire a studiare e crearsi una possibilità. Aveva lottato per andar via da quel paesino in cui era cresciuta, aveva lottato per avere il suo uomo, aveva lottato per non precipitare nella disperazione quando lui se n’era andato, semplicemente, chiudendosi la porta alle spalle. E avrebbe voluto lottare per quel bimbo che teneva in grembo, ma la nera signora, insidiosa come la tela di un ragno, era in agguato e, come per un crudele scherzo del destino, le aveva tolto ogni possibilità di riscatto: quella vita, che aveva rubato a sua madre, ora la rubava anche a suo figlio.
Fu così che Anna decise che non aveva più la forza di combattere, che voleva solo dormire e dimenticare tutto quel dolore: quella sua vita, che altre due esistenze aveva involontariamente spezzato, doveva cessare. Si era seduta sul bordo del letto e, con cura meticolosa, aveva inghiottito, una dopo l’altra, tutte le pillole che aveva in casa, e ne aveva tante, accumulate negli anni: aveva l’abitudine di conservare tutto e quella sera si sentì contenta di avere tutta quella scelta. Poi si era coricata e aveva aspettato che il sonno eterno giungesse, ma il destino, ancora una volta, aveva per lei altri piani. La mattina seguente, infatti, la sua titolare, un’avvocatessa alquanto impicciona, preoccupata da quel, davvero insolito, ritardo per una segretaria impeccabile come lei e stupita per la sua irreperibilità, chiamò la polizia. La trovarono a letto, mal ridotta, ma ancora viva. Si risvegliò in quello stesso ospedale in cui, tuttora, si trovava.
La realtà del momento era comunque molto diversa. Ogni giorno era uguale a quello prima e lei era sempre sola, non aveva più nessuno che andasse a trovarla: se n’erano andati tutti via, a vivere altre esistenze, lontane da lì.
Quella mattina però, Anna aveva eroicamente deciso di voler far colazione con gli altri. L’infermiera la guardò sbalordita e con occhio interrogativo la accompagnò giù.
Scese adagio le scale, intimorita da quel nuovo viaggio. Entrò nella sala e si sedette subito sulla prima sedia libera. Nell’attesa che le portassero la colazione, timidamente cominciò a guardarsi intorno e, a ogni istante, il suo sguardo si fece più attento e indagatore. Osservò con cura l’uomo che le stava di fronte: piccolo piccolo di statura, quasi sembrava un nano, rosso di capelli… aveva la sensazione di conoscerlo di già. Continuò ad osservarlo finché questi non alzò la testa e la fissò dritto negli occhi: che incredibile stupore quando Anna si accorse che si trattava proprio di quel folletto che, quella stessa notte, l’aveva portata al centro del palcoscenico! Incredula non riusciva più a muoversi, né a parlare. Un gesto dell’ometto, che rapidamente avvicinò il dito indice alle labbra, facendole segno di non dire nulla, la risvegliò da quel torpore. Come un automa, iniziò ad osservare attentamente le persone che erano lì: in un angolo c’era una ragazza molto giovane e bella, che canticchiando tra sé e sé, faceva finta di ballare… o di nuotare… sembrava una sirena; poco più in là un uomo, alto e magro, suonava con concitazione un immaginario violino, chissà quali note affollavano la sua mente, magari le stesse che una notte avevano accompagnato i suoi incerti passi in un elegante ballo; e poi quella buffa signora, presa in un’animata discussione con un ficus, sembrava proprio la stessa che le aveva presentato l’olivo millenario!
Anna non credeva ai suoi occhi! Era pazza anche lei? Poteva pensare che tutto ciò che sognava da un po’ di tempo non fosse in realtà una semplice illusione, per quanto affascinante? Poteva essere autosuggestione? Eppure lo sguardo, e quel gesto, del nano… magari era solo una bizzarra coincidenza… com’era confusa!
Arrivò la cameriera con una tazza di tè, ma Anna, senza neanche guardarla, si alzò e corse in camera, il solo nido in cui si sentisse ancora protetta. Alzò le coperte e si nascose lì sotto. Mentre stava abbracciando il cuscino, però, qualcosa le capitò fra le mani: un piccolo foglietto di carta ripiegato con millimetrica cura.
Senza aprirlo lo posò sul comodino. Continuò a fissarlo per un po’, prima di decidersi ad aprirlo. Era fittamente scritto, con una calligrafia strana, ma splendida da vedere, tutta un ricciolo e una curva! Cercò di riabituare gli occhi e la mente alla lettura, alla quale si era ormai disabituata. Lesse queste parole: «Finalmente sei arrivata, ti stavamo aspettando! Prima di partire volevamo che il treno fosse pieno e mancavi solo tu! Ora non posso rispondere alle mille domande che affollano la tua testa, non c’è tempo! Vieni alla stanza numero 7, alle 11 di questa notte».
Era proprio così: un’infinità di punti interrogativi si alternavano nei suoi pensieri, ma i più ricorrenti erano: sono impazzita davvero, dopo tanti anni rinchiusa in questa prigione dell’anima? Soffro di allucinazioni? Mi hanno rifilato delle pastiglie senza che me ne accorgessi?
Popolata da tutte queste domande, la giornata passò, più veloce di ogni altra trascorsa lì dentro. In un attimo arrivarono le 22 e 50. Non sapeva proprio che decisione prendere: andare, non andare, se chiedere consiglio a un medico o un sonnifero più forte all’infermiera di turno (il suo l’aveva già buttato nello sciacquone!). Fatto sta che, alle 22 e 57, decise di affrontare la questione. Con affanno corse lungo il corridoio, finché non si trovò davanti la porta numero 7: tutto era silenzioso, di un silenzio quasi innaturale. Provò a bussare, pianissimo. La porta si aprì lentamente. Non si sentiva volare una mosca. Il nano la afferrò vigorosamente per la mano e la trascinò dentro. C’erano tutti, ma proprio tutti, quelli che aveva incontrato in quelle notti. Tutti insieme si strinsero forte in un abbraccio e si presero per mano.
Alle 23 in punto si sentì giungere quel familiare rumore di rotaie, rese vive dal passare di una locomotiva. Il rumore divenne sempre più forte, fino a essere assordante.
Poi scomparve e fu silenzio.
Il mattino seguente, quando gli infermieri iniziarono il solito giro per portare il giorno in ogni stanza, non trovarono alcuno. L’ospedale era deserto.