17 Giugno, Ester Annetta_Roma
Finalista Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione adulti
Ad attrarre subito la sua attenzione era stato l’acquaio del piccolo cucinino: la vasca di metallo col gocciolatoio accanto ed il rubinetto con le due manopole, acqua calda/acqua fredda.
«Guarda Robert» – aveva sussurrato a suo fratello, chinandosi appena perché potesse sentirlo – «c’è l’acqua corrente!».
Al centro della stanza, sua madre era rimasta immobile, in braccio la piccola di pochi mesi e, nascosto tra le pieghe della sua lunga gonna, l’altro bimbo di pochi anni. I suoi occhi avevano perlustrato stupiti lo spazio intorno – un piccolo soggiorno con un angolo ritagliato per una modesta cucina – incrociando infine quelli di suo marito, che, un passo più avanti a lei, scrutava quell’ambiente altrettanto disorientato. Per la prima volta da che ne avevano memoria avrebbero vissuto in una casa vera; minuscola, si, ma fatta di mattoni e cemento, e con un tetto compatto, che avrebbe mantenuto il pavimento asciutto, senza bisogno di bacinelle e catini, anche nei giorni di pioggia.
Alex aveva fatto appena un cenno a Robert, indicando la porta sulla parete di fondo e, silenziosamente, approfittando dello stupore che ancora immobilizzava i loro genitori, l’avevano raggiunta, scoprendo così un’altra piccola stanza con accanto un bagno. Vero.
«Robert, ma ci pensi? Non dobbiamo più andare al Centro Commerciale per usare il bagno e la carta igienica. E c’è pure la doccia, con l’acqua calda!»
A quattordici anni, Alex non aveva mai goduto di quelle semplici comodità.
Era nato in una baracca, ed in altre era cresciuto, spostandosi con la sua famiglia di campo in campo, nelle periferie della città, al seguito della sua gente: una grande comunità in cui i legami di parentela spesso si confondevano si sovrapponevano; con i suoi capi, le sue regole, ed un ben preciso codice d’onore.
Ed era stato proprio quando la sua famiglia aveva infranto quel codice che le cose si erano messe male per loro: Bianca, la sorella maggiore – vent’anni e tre bambini – aveva osato ribellarsi ad un marito violento che gli eccessi d’alcool e droga stavano rendendo sempre più pericoloso. Le regole della sua comunità le avrebbero imposto di tacere e sopportare; invece aveva disobbedito e, all’ennesima aggressione, aveva chiesto l’intervento della polizia, che aveva portato via l’uomo e affidato lei ed i bambini ad una struttura protetta.
Si era trattato di un enorme sgarro per la comunità, che aveva perciò lavato l’onta col fuoco: quello che era stato appiccato alla baracca dove viveva la sua famiglia, che era stata quindi bandita dal campo.
Qualche mese prima, quel campo, presidio di gente senz’opera e senza terra, aveva cominciato a ricevere le visite periodiche di un gruppo di volontari della vicina parrocchia; uomini e donne che, desiderosi di dare sostanza ad una spiritualità che aveva aperto il loro sguardo e il loro cuore sugli ultimi, avevano vinto le naturali resistenze degli abitanti delle baracche, diventando, anzi, validi e fidati interlocutori ai quali manifestare bisogni, disagi, emergenze. Poco alla volta le famiglie del campo avevano cominciato a fidarsi di quegli estranei, che non mostravano alcun segno della repulsa, della diffidenza o del pregiudizio che invece solitamente incontravano ovunque andassero. Parlavano con loro e, soprattutto, sapevano ascoltare.
A loro dunque la famiglia di Alex si era rivolta dopo essere stata scacciata dal campo, e la rete di solidarietà della comunità parrocchiale si era immediatamente attivata, riuscendo infine a procurarle la disponibilità del piccolo alloggio che, durante quella prima visita, aveva lasciato tutti increduli e sbalorditi.
Per un anno, quei cinquanta metri quadrati sarebbero stati “casa”. Alex e Robert non sarebbero andati a mendicare all’uscita dei supermercati o davanti alle chiese; avrebbero potuto invece continuare ad andare a scuola: l’uno in terza, l’altro in seconda media, e i volontari li avrebbero anche seguiti e aiutati nello studio.
Il più grande desiderio dei loro genitori – totalmente analfabeti – era che ciascuno di quei sei figli avesse un’istruzione minima. Sarebbe stato il passaporto per arrivare a conquistare un lavoro: uno qualunque, dignitoso, com’era stato per Recardo – il maggiore, ma non ancora maggiorenne – che lavorava come aiuto cuoco in un ristorante e col suo stipendio manteneva tutti.
Solo così si sarebbero strappati di dosso l’etichetta di reietti, il marchio del discrimine che aveva invece condannato loro a vivere di elemosina e a rovistare nei cassonetti dell’indifferenziata, alla ricerca di cose che, scartate da alcuni, potessero avere ancora una vita ed una utilità per altri, finendo barattati o venduti per pochi spiccioli in bancarelle arrangiate.
Quanto c’era voluto prima che la sua fosse considerata una madre alla stregua di tutte le altre! Alex se lo ricordava bene che, all’inizio delle medie, le mamme dei suoi compagni si erano rifiutate di inserirla nella chat di classe. Conservavano nei suoi confronti il pregiudizio dell’appartenenza ad un’etnia considerata sinonimo di ladroneria, furfantaggine e sudiceria. Eppure lui e Robert andavano a scuola sempre in ordine, con i capelli ben pettinati, la scriminatura dritta e marcata, i vestiti dismessi da altri, ma puliti ed appiattiti con le mani tanto energicamente da sembrare perfettamente stirati. E non avevano mai rubato.
“E se poi dai nostri numeri di telefono risalgono agli indirizzi e vengono a rubare nelle nostre case?”: era questo il commento più frequente appreso in casa e riportato in classe dai suoi compagni, che pure più di una volta avevano sottratto ad Alex penne e matite; e anche la piccola calcolatrice, il prezioso strumento che gli era consentito di utilizzare durante le verifiche, quando il telefono non era ammesso.
***
Alex ripercorreva nella memoria questo suo recente passato, mentre sul display del suo pc portatile – quello che gli aveva regalato Marco, il dottore volontario della parrocchia che lo aveva seguito per scienze e matematica – scorrevano le slides della sua tesina: l’esame di terza media sarebbe stato tre giorni dopo, il 17 giugno, e continuava a ripassarla, cronometrando ogni volta il tempo impiegato ad esporla. “Dieci, dodici minuti al massimo” – si riproponeva – “altrimenti i prof si annoiano!”
Ricordava perfettamente il giorno in cui Marco gli aveva chiesto quale argomento intendesse affrontare per il suo esame e come raccordarlo con tutte le discipline.
Aveva confessato di non averne assolutamente idea ed era stato lì che, immediato, era arrivato quel suggerimento, tenuto forse da conto, in attesa dell’occasione giusta per venir fuori, esplodere, invadere ogni riflesso ed ogni senso. Prima impetuoso, poi sempre più sottile e penetrante. Quasi un microorganismo – come quelli che costituivano la specialità di Marco – che subdolamente si sarebbe insinuato nei pensieri di Alex, scuotendone ragione e anima. Perché certo era che quella non sarebbe stata soltanto la prova di un esame scolastico, ma di un esame di vita; una presa di coscienza; un atto d’orgoglio; una straordinaria prova di coraggio.
«Potresti scrivere la storia del tuo popolo!», aveva detto di getto Marco.
Alex era di colpo avvampato: dal collo alle guance, fino alla punta delle orecchie, il suo volto si era acceso d’un rosso intenso, come se la lingua d’un fuoco tenuto celato, compresso tra viscere e cuore, avesse improvvisamente trovato una via di fuga.
«Assolutamente no!», aveva risposto categorico.
«Perché?» – aveva incalzato Marco.
E la risposta era stata la più disarmante e, al tempo stesso, la più incoraggiante e provocatoria. Una sfida.
«Perché mi vergogno.»
Racchiuse in quelle tre parole c’erano tutta la rabbia, la tristezza e la rassegnazione di un adolescente cui nessuno, fino ad allora, aveva mai offerto gli strumenti per poter scoprire le radici della sua identità. C’era il dolore antico di un giovane cresciuto con la sola certezza di un destino di invisibilità; il lamento di un senza terra e senza nome che i flutti di un futuro fatto di espedienti e privazioni avrebbero ineluttabilmente travolto; la mossa di una pedina abbandonata sullo scacchiere del caso, che, al termine di una partita – un ciclo di studi imposto e tutelato da un obbligo di legge – non avrebbe conosciuto alcun’altra occasione di vittoria o di rivincita. Nessun’altra tutela. La buona o la mala sorte sarebbero dipese soltanto dall’onestà, dalla rettitudine, dalla volontà. E da un po’ di fortuna.
Membro del suo popolo, figlio della sua gente, Alex avrebbe finito per condividerne tutta l’eredità: quella delle tradizioni e quella dei pregiudizi, indossati ormai con la stessa naturalezza d’ogni altro abito o segno distintivo.
Ladri. Borseggiatori. Spacciatori. Ubriaconi.
Zingari.
«E di cosa devi vergognarti? Lo sai che il tuo popolo ha origini lontanissime? Che la sua lingua è un miscuglio di tutte quelle dei territori che ha attraversato, partendo dall’India e diffondendosi in gran parte d’Europa? Che le sue tradizioni sono uno scrigno prezioso di storia e costumi? Che è stato schiavo, ma ha saputo attendere con dignità di vedersi restituita la libertà? Che persone molto importanti – artisti, scienziati, musicisti, attori – hanno le tue stesse origini?»
Alex aveva ascoltato incredulo, sollevando lo sguardo man mano che Marco inondava il suo amor proprio con l’elenco di tante meraviglie che mai avrebbe creduto potessero appartenere alla sua gente, immaginata fino ad allora secondo i canoni imposti dai luoghi comuni, che l’identificavano soltanto con un esercito di derelitti ed accattoni.
Perciò aveva infine esclamato: «Mi piace. Proviamoci.»
***
La schermata del suo pc era ora ferma sull’immagine della bandiera: due bande orizzontali sovrapposte: una verde, in basso, ad indicare la terra; l’altra azzurra, in alto, ad indicare il cielo. Al centro una ruota rossa, raggiata, simbolo del continuo andare. L’eterno cammino di un popolo attraverso i colori del creato.
Elvis Presley; Rita Hayworth, Yul Brinner, il pittore Antonio Solaro detto “Lo Zingaro”, il letterato e musicista Santino Spinelli…: Alex non li aveva mai sentiti nominare prima, ed aveva invece imparato che erano persone importanti e famose. Col suo stesso sangue.
Sangue Rom.
“Il popolo Rom è sempre stato discriminato. Siamo sempre stati bersaglio si sospetti e pregiudizi, mentre poco si sa della nostra storia. Siamo un popolo antico, a lungo perseguitato e per questo motivo costretto a vagare. Abbiamo tradizioni e valori millenari, che si sono tramandati fino alla nostra quotidianità e che hanno coinvolto cultura, lingua, arte e politica. Ma tutto questo è perlopiù ignorato. Siamo degli invisibili e, più spesso, siamo anzi dei “capri espiatori”, quelli su cui far ricadere colpe e responsabilità di altri.
Perciò, con questa mia ricerca, voglio farvi conoscere il volto nascosto del mio popolo, quello che nessuno è capace o si interessa di vedere, nella speranza di riuscire – almeno con voi che oggi, qui, mi ascoltate – a infrangere quell’idea che ci vuole tutti ladri o persone inaffidabili. Forse così, voi che siete insegnanti e manipolate gli strumenti della conoscenza, potrete domani raccontare ai vostri alunni una storia diversa.”
Questa sarebbe stata la sua presentazione.
Avrebbe poi recitato la poesia di un poeta Rom, un inno alla libertà e alla bellezza della vita e della natura, la cui essenza meglio sa cogliere chi ha come giaciglio la terra e come coperta un manto di stelle. Avrebbe infine concluso con un ringraziamento, che aveva scritto sull’ultima slide, traslitterando con l’alfabeto italiano la corrispondente frase pronunciata nella sua lingua.
Con un gesto rapido aveva fermato il cronometro del suo telefono.
Undici minuti e trentotto secondi.
Tanto era durata la sua arringa.
Quello sarebbe stato il tempo della sua rivincita su quei suoi compagni che avrebbero dissertato sulla Seconda Guerra mondiale e deplorato gli orrori dei nazisti, ma fuori dall’aula avrebbero continuato a chiamarlo spregiativamente “zingaro”.
Un tempo minimo, calcolato “per non annoiare”, ma talmente carico di valore da pesare quanto un proclama d’indipendenza.
Un intervallo di profonda consapevolezza, in cui ancorare l’orgoglio del riscatto e lasciar annegare la vergogna.
La più efficace ed innamorata delle dichiarazioni d’appartenenza.
E chissà, magari l’avrebbero anche applaudito.
Aveva quindi spento il pc, gettato uno sguardo lontano, oltre la finestra di fronte, e l’aveva sentito salire dal petto, potente e liberatorio: quell’urlo – quel verbo – che, squarciando il silenzio, gli aveva restituito, assolta e purificata, la coscienza di una identità e la fierezza delle sue radici.
“IO SONO!”