I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2012 – Ora vivo di Claudio Straulino_Milano

Anno 2012 (I sette peccati capitali – L’accidia)

1 – SOGNO

 

Attraversavo quella età in cui si inizia a padroneggiare i propri pensieri, non ancora a controllare la propria vita.

 

Stava finendo – l’adolescenza – o forse solo così mi pareva, perché in realtà non finisce mai.

 

Ero un ragazzo come tanti:la Vliceo, lo scooter, la ragazza, tanti amici, alcuni ottimi, la musica,la PSP, il calcio,la TV, l’oratorio…

 

Quando mamma morì io ero in giro per negozi, a cercare i regali per Natale, come al solito all’ultimo momento: era il 24 Dicembre.

 

Capii che qualcosa non andava dal suo tono serio al telefono “TORNA SUBITO A CASA PER FAVORE. SUBITO” mi disse mio padre al telefono senza attendere repliche o risposte. E poi non mi chiamava mai sul cellulare.

 

Parcheggiando lo scooter davanti a casa vidi l’ambulanza. E le persone.

 

Avvicinandomi al portone con giubbotto, guanti e casco – quasi a cercare protezione – venni accolto da sguardi carichi di angoscia e pietà. Non più persone ma solo sguardi intorno a me.

 

Poi mi trovai di fronte mio padre con gli occhi lucidi e i capelli spettinati. Allora il sogno finì.

 

“Chi muore giace, chi vive si da pace” ma io non mi sono ancora dato pace.

 

Rivedo – ogni volta che chiudo gli occhi – tutto ciò che è poi successo nei giorni seguenti: le condoglianze di parenti, amici, conoscenti. Mio padre che piange e mi dice di piangere, che fa bene. La chiesa piena al funerale e le frasi banali dette dal parroco. La mia fidanzata che prova a dire ciò che io non so ascoltare.

 

Tutto inutile: mamma non c’era più ed io dovevo fare qualcosa.

 

 

2 – VITA

 

Decisi di punirLo, di punire Dio per avermi così risvegliato dal mio sogno, punirLo peccando.

 

Ma non mi bastava peccare, con volontà e determinazione peccare. Volevo essere certo di offenderLo, sfidarLo, ferirLo, delurderLo nella maniera più totale, dura e irrevocabile di cui fossi capace…distruggere tutto ciò che era stato sino ad allora.

 

L’inizio fu facile con i compagni e in oratorio, con gli amici e persino con la ragazza.

 

Dicevo una cosa per un’altra, non facevo nulla di quanto mi venisse richiesto, non rispondevo al telefono, non mi presentavo agli appuntamenti: non era ancora giunta l’estate che già attorno a me era il vuoto.

 

Più difficile a scuola: nonostante le assenze non giustificate, i continui ritardi, le scene mute alle interrogazioni, i compiti consegnati in bianco, nonostante tutto questo i docenti si ostinavano a dire che dopo oltre 4 anni di ottimi risultati questo improvviso cambiamento fosse dovuto al recente lutto e che presto o tardi mi sarei sbloccato.

 

Ma invece non mi sbloccai: agli esami di maturità mi presentavo senza penne e dizionari, agli orali arrivai tardi e vomitai davanti alla commissione.

 

La bocciatura ferì mio padre, più di quando disfai la fiancata della macchina entrando distrattamente in box, più di quando dimenticai di chiudere lo scooter che così mi venne rubato, più ancora di quando lasciai traboccare la vasca da bagno allagando casa con danni irreversibili a tappeti e parquet.

 

Si fece sentire mio padre, ah se si fece sentire. Ma Dio no, Lui taceva ancora e sempre.

 

Tutto mi era noia e indifferenza, dapprima cercate e volute e forse un po’ recitate, poi spontanee e spietate.

 

Dopo meno di un anno non c’era più nulla intorno a me che potesse cadere vittima della mia accidia ed allora essa si rivolse verso – contro – me stesso.

 

La sveglia della mattina non era più una sveglia – semmai un rassegnato bussare di mio padre alla porta della mia camera – e nemmeno era più mattutina. Talvolta solo al suo rientro dal lavoro alla sera verificava la mia presenza su quel letto che ormai abbandonavo solo per soddisfare i bisogni fisiologici.

 

Il cibo non più un piacere né una ricerca, piuttosto una corvè da compiere senza cura.

 

L’igiene ormai dimenticata sotto a jeans e polo che indossavo giorno e notte ormai da mesi.

 

La camera una cloaca di avanzi e spazzatura, la tapparella rotta e i vetri sporchi, miasmi indecifrabili, visitata più da fantasmi che da cristiani.

 

Barba e capelli lunghi la avevano ormai avuta vinta sul mio bel viso da ragazzo sano e la psoriasi mi dava il doppio dei miei anni.

 

In un angolo vecchie riviste e libri ammucchiati: le mie antiche passioni sulle quali sporadicamente facevo pipì quando il bagno mi pareva irraggiungibile.

 

Ma pregavo, pregavo tanto Dio che mi desse un segno del Suo disappunto o della Sua disapprovazione o almeno della Sua esistenza.

 

Più e più volte mio padre venne da me, con crescente rassegnazione per cercare di scuotermi, per cercare di capire. Mai otteneva altra risposta che un sommesso russare, un sonoro peto o un ostinato silenzio. Tanto che infine anche le sue pietose visite si diradarono sino a terminare.

 

E io non potevo fare altro che attendere, attendere ancora. E già questo mi sembrava un agire troppo ardito se pensavo alla fatica che mi costava restare in vita.