Un Premio come preziosa occasione di incontro e scambio, Federico Greco
Presidente Giuria Premio Energheia 2019_XXV edizione.
Non sono uno scrittore, diversamente dai due miei colleghi giurati Valentina Farinaccio e Luigi Scarangella. E nonostante io abbia partecipato a diverse giurie non mi era mai capitato di essere chiamato a giudicare racconti letterari. Ovviamente anche io scrivo, ma di cinema, e ovviamente anche nella scrittura cinematografica c’è una fase della filiera che consiste nello scrivere il soggetto del film. Ma si tratta, appunto, di una sintesi della storia più ampia, la sceneggiatura del lungometraggio. Quando invece mi capita di scrivere il trattamento di un film si arriva alla lunghezza del romanzo breve. Quindi non ho mai scritto racconti. E quando dicevo che non sono uno scrittore intendevo dire che la letteratura, o la canzone, sono scritture completamente diverse da quella cinematografica, che deve sempre avere l’occhio puntato sulla trasposizione audiovisiva in movimento delle proprie storie.
Eppure so bene cosa significa scrivere cose brevi, e so quanto sia difficile confrontarsi con la sintesi. Perché in realtà scrivere la sceneggiatura di un film di circa cento minuti è come cercare di scrivere Guerra e Pace in cento pagine. Una vera e propria trappola. La sensazione di avere tutto il tempo del mondo per dire tutte quelle cose che hai sempre voluto dire, per andare a fondo nei personaggi e descrivere tutto questo con lo stile adeguato è fortissima. Ma alla fine devi scontrarti con il fatto che cento pagine sono pochissime, che tutto quello che vuoi dire significherebbe un film di almeno tre ore, e con la consapevolezza che nessun produttore, in Italia, ti finanzierebbe mai un film con scene di massa (se le hai previste), esplosioni atomiche (se le hai previste), trenta ambientazioni diverse (se le hai previste), astronavi… Perciò scrivere cinema alla fine è come scrivere un racconto breve: devi lavorare per ellissi e se scrivi da tanto tempo scopri che è proprio nelle ellissi che vivono i tuoi personaggi. È nelle pieghe del non espresso esplicitamente, e dunque nel detto più fortemente, che la tua storia acquista senso. È il cosiddetto “fuori campo”, ciò che non mostri, la grande prateria dove il racconto si dipana con maggiore efficacia.
Quando scrissi il mio primo film, un horror, mi resi conto che solo se avessi tenuto fuori campo il soprannaturale, i mostri, gli omicidi, sarei riuscito a spaventare davvero lo spettatore. Chiaramente non è così semplice: bisogna saperlo coccolare, il fuori campo, bisogna saper fare la corte all’ellissi perché il meccanismo funzioni.
In un racconto breve è essenziale avere e saper maneggiare questa consapevolezza, perché anche in una pagina si può raccontare una storia epica. Penso, ad esempio, a Ray Bradbury e ad alcuni suoi racconti brevi (non solo in “Cronache marziane”).
Questa è, più approfondita di quella ufficiale, la motivazione che ci ha spinto a dare una menzione speciale a “Storie liquide”, di Paola Fabris. Che con l’ellissi, la suggestione, il fuori campo convola a nozze. In effetti lo dichiara già dal titolo. In poche pagine Paola riesce a raccontare l’intera storia della vita di una donna. Non contenta, lo fa per tre volte, ogni volta da una prospettiva diversa. Nonostante lo stile e la scritttura siano già di per sé adeguate, emozionanti, nella loro asciuttezza imbevuta, il senso profondo della storia di Isabella è in tutti quei momenti che la scrittura volutamente salta. E nel “montaggio” (un vero e proprio montaggio cinematografico) tra i tre punti di vista. Il montaggio non consiste nel giustapporre immagine a immagine per recuperare un filo narrativo logico ma nel far parlare, risuonare, tra loro le immagini, le scene, i “quadri”. In questo, riesce, “Storie liquide”.
Ma il motivo per cui devo ringraziare Felice per avermi offerto l’opportunità di venire a Matera con un così nobile obiettivo, e un tale raffinato piacere – cioè leggere il frutto della fantasia e del talento di alcuni giovanissimi e meno giovanissimi scrittori italiani – è anche dovuto alla scoperta del racconto vincitore, quello di Angelo Guida: “Luce”.
Qui è la capacità di maneggiare l’ironia come un giocoliere maneggia i suoi birilli volteggianti ad averci convinto. Un’ironia che non stempera il significato drammatico della storia, anzi permette di entrare in maggiore empatia con i personaggi. Aiutandomi con il titolo di un (ormai abusato) manuale di sceneggiatura hollywoodiano, direi che Angelo è molto bravo a “far salvare il gatto” al suo protagonista. Che magari è il nipote, o magari è la nonna. Non fa niente, la storia galoppa senza inutili pause, si ride e si riflette. No, aspetta. Sono entrambi i protagonsiti, perché entrambi prendono qualcosa dall’altro, durante la folle avventura che vivono.
Sono davvero importanti i concorsi come quello di Energheia. So per esperienza personale che chi vi partecipa ci tiene molto. Ma so anche che sono preziose occasioni di incontro e scambio. Infatti, durante la meravigliosa serata di premiazione, ho avuto l’opportunità di conoscere Rodolfo Andrei, che non abbiamo premiato, ma con il quale stiamo pensando seriamente di trasporre un suo racconto in un piccolo film. Anzi, abbiamo già iniziato a lavorarci. Seriamente.
Vedete come funziona la vita? Oltre alle immagini dei racconti vincitori, e di molti altri, porto a casa un’amicizia con chi, durante la premiazione, era fuori campo.