Il fragore dell’inverno, Nicolas Malet
Menzione Premio Energheia Francia 2019
Traduzione a cura di Katia Basile
Il gettone avvia la macchina automatica. Ai suoni rimbombanti della lavanderia si aggiunge un’ulteriore composizione strumentale. Una cacofonia certamente, ma che trascina in sé tutti gli elementi di una melodia: un ritmo più o meno regolare, alcune frequenze che si mescolavano le une alle altre e queste molteplici fonti che procedevano, senza alcun dubbio, mano nella mano. A questo spettacolo sonoro si associa la visione psichedelica di queste spirali di colori che trascinano con sé i flutti, queste masse umide dai visi deformi che annegano nel tamburo della macchina.
Chris aveva un dono, quello di poter percepire la bellezza del ritmo in ogni oggetto e in ogni suono. Era il suo dono divino di cui soltanto lei poteva farne uso. Consacrato da una forza invisibile, il suo udito non conosceva uguali sulla Terra, rendendola unica nel suo genere su questo pianeta. Percepiva, in ogni rumore, tutta la bellezza del mondo. Trasformava lo stridìo di un pneumatico in un’esperienza lirica e rendeva un belato di capra una sinfonia di Mozart. Quando le si confutava che la musica pop non fosse legittima e che mancasse di complessità, pensava che il ticchettìo di un tacco sul selciato della piazza del Municipio di Brest non aveva nulla da invidiare a Schubert. Ma Chris taceva e scomponeva ogni tremolio nell’aria, ogni vibrazione proveniente dalla bocca del suo interlocutore.
Appoggiata alla sua macchina automatica, osserva lo spettro del mondo. Con i palmi delle mani sul pavimento, sperimenta il suolo. Al tatto, avverte la stessa sensazione che si ha davanti al batterista in un concerto di Art Barkley. E un po’ più lontano, nel cassetto del detersivo che trema, vi discerne la stessa melodia della canzone dei Beatles che sua madre ascoltava ininterrottamente quando puliva la cucina al sabato.
Davanti a lei, una figura si ferma davanti all’oblò che le rimane di fronte. Attende che la macchina si fermi avvolta in una giacca di pelle, un po’ troppo corta per la stagione. Attende battendo nervosamente sul pavimento, alla stessa velocità dell’altra macchina in fase di centrifuga, a due file di distanza. Probabilmente non se ne rende conto eppure a Chris non sfugge. Lei, è la giacca che lei non vede.
Un breve istante prima di quella del suo nuovo vicino, la lavatrice di Chris si ferma definitivamente e un lungo suono ne sottolinea l’agonia. È diventata silenziosa, muta, questa macchina. E Chris trova agghiacciante che qualcosa di così potente taccia fino a quando non le si infonda nuovamente vita. Si affretta a caricare la sua biancheria nella borsa perché la melodia che l’aveva coinvolta non esisteva più e non sarebbe mai più esistita. Un’altra l’avrebbe sostituita ben presto, ma occorrerà riappropriarsene nuovamente.
Ad ogni suo passo sul pavimento ghiacciato della lavanderia, con le sue ballerine usate, buone soltanto per attraversare la strada, attesta il cambiamento della melodia del mondo. Avvicinarsi alla porta significa avvicinarsi all’esterno, al magnifico frastuono della strada. Chris non si preoccupa, né si demoralizza. Sa appropriarsi di ogni rumore, perché se tutto è melodia per le sue orecchie, è perché lei lo permette. Il suo udito infonde valore a qualsiasi cosa che altrimenti sarebbe priva di senso. È il suo dovere verso il mondo.
Oltrepassando la porta, il freddo sferza il suo viso e la bocca emette un sospiro leggero e tremolante, solo per assicurarsi che fa sempre così freddo. Le sue orecchie non tardano a confermarle le sue inquietudini, ma niente del suo abbigliamento sembra proteggerla dal freddo del mese di dicembre. Se non fosse per la percezione del ritmo e della linea di basso, a cosa servirebbe sentire, pensava. Avanza senza pietà nella strada con passo insolente sul suolo ghiacciato. Malgrado sia già in direzione di casa, laddove il conforto probabilmente l’attende, si lascia distrarre dalla musica della città, dal battito della strada che l’attira senza sosta e che possiede, probabilmente, tutta la sua ragione o ancor meglio tutto il suo essere. Attratta dal fracasso del metallo del garage di fronte, si ferma all’altro lato del marciapiede. Si imbatte nella penombra di un edificio, senza neanche gettare lo sguardo, senza considerare il suo corpo che è scosso come una foglia dai suoi istinti. È una strana melodia, ma una di quelle melodie che è in grado di rendere sua, di restituirle quel bagliore che avrebbe probabilmente già perduto. Ma questa melodia annega nei latrati volgari di una corsa stridente, di un insieme di suoni ululanti che diventano sempre più forti e fendono l’aria, battendo sul suo orecchio. Avanza di un passo, ma il parassita rifiuta di andar via. Poi un secondo passo, la cacofonia peggiora e domina la scena. Al terzo passo, ha già perduto la sua melodia.
Recupera la vista, quella che in realtà non aveva mai perduto, perde ogni riferimento visivo: il sole è alto, la sinistra è a destra e davanti a lei non ritrova più un’entrata, immersa nella penombra, ma alcune figure che la circondano formando un cerchio poco ordinato. Non riesce più a percepire i suoi occhi appena socchiusi. Poi il suo corpo si risveglia e il dolore è onnipresente. Tutto quello che era è ancora, ma è ormai fonte di dolore, un dolore così forte che nulla risponde. Sente l’aria cercare di insinuarsi verso la gabbia toracica, schiacciata dal proprio peso. Immersa nel proprio dolore, non riceve, infine, più niente.
È proprio un peccato non sapere cosa volesse trasmetterle questa ferraglia nella sua strada mentre usciva dalla lavanderia. Ignorando i terribili suoni che giungevano alla sua destra, ignorava allo stesso tempo l’ambulanza che correva a tutta velocità verso di lei. Che questo stesso veicolo l’avrebbe condotta in ospedale dopo averla investita, lo avrebbe saputo solo risvegliandosi. Perché per lei non c’era nessuna ambulanza nel suo campo visivo. Vi era soltanto una fonte sonora parassita che dimorava attualmente nel suo orecchio destro, in modo permanente. Sapeva che sebbene avesse rincontrato un giorno questa stessa melodia che l’aveva indotta a mettersi in pericolo, non avrebbe mai potuto sentirla come al loro primo incontro. È un vero peccato che, probabilmente, non avrebbe mai più potuto apprezzare la peggiore delle operette, come quella che le ha tolto l’udito.