L’esistenza dello scrittore e l'(assenza di) ispirazione, Agnes Kojc_Jurovksi Dol
Racconto finalista Premio Energheia Slovenia 2020.
Traduzione a cura di Bruno Barraq, Universita degli studi di Trieste, Dipartimento di Scienze Giuridiche, del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione.
Fisso frustrata la pagina di Word mezza piena e, con rabbia, schiaccio ancora una volta il tasto cancella. Mi tengo stancamente la testa con le mani e lascio i pensieri vagare per un istante. L’ispirazione, maledizione inevitabile di chi vuol scrivere qualcosa, mi ha piantato di nuovo in asso. E sarà almeno la trentatreesima volta da quando ho iniziato a scrivere questo romanzo. A volte ce l’ho proprio davanti agli occhi… ma poi scivola via attraverso quella fessura che conduce al collasso del pensiero. È come un coniglio che sfreccia attraverso un bosco pieno di buche. Lo perdo di continuo, si nasconde e faccio una gran fatica a riacciuffarlo. Scuoto la testa e porto alla bocca la tazza di caffè caldo che ho ordinato poco prima. Avevo pensato che sarebbe stata una buona idea prendere il portatile e venire a scrivere in questo bar dove non c’è mai troppa gente. I pochi avventori, quando ci sono, sono per la maggior parte giovani innamorati che ignorano tutti tranne se stessi, o individui anonimi e comuni, intenti a sorseggiare un caffè, bere una grappa e perdersi nell’atto banale della lettura di un giornale. Veramente, se non hai niente di meglio da fare, il giornale è una vera salvezza. È incredibile come puoi sfogliarlo più volte e riuscire sempre a trovare un dettaglio nuovo. Se fai molta attenzione, puoi trovare delle sorprese anche in un articolo che hai già letto e riletto. E puoi farti anche una bella risata di fronte alle discutibili scelte lessicali di certi giornalisti. Per non parlare poi delle banalità di cui sono piene le riviste femminili che si trovano impilate su uno dei tavoli del bar. Come se tutto il mondo femminile girasse attorno a moda, consigli su appuntamenti romantici e diete, e suggerimenti inutili su come migliorare la qualità della propria vita. Beh, forse per qualche donna il mondo gira davvero attorno queste cose. Ma non per me. È già da un po’ che non voglio niente di tutto questo. Io voglio scrivere. Rovescio il caffè sul quaderno degli appunti che tengo sul tavolino accanto al portatile e mi scappa una parolaccia. Oggi non è proprio la mia giornata. Afferro maldestramente un fazzoletto dalla borsa per asciugare la piccola pozzanghera scura cercando di non farmi notare, perché non voglio fare una scenata. Non mi piace l’attenzione degli altri, anche se ho quasi sempre avuto la fortuna di attrarla, in un modo o nell’altro. Apparentemente la solitudine non mi è concessa e, guarda un po’, anche stavolta, pur essendo seduta ad un tavolo dall’altro lato del bar, in un angolino appartato e tranquillo, attiro lo sguardo di un attento cameriere più o meno della mia età che mi corre subito incontro con lo strofinaccio in mano. “È tutto a posto, signorina”, dice velocemente, mentre sto per scusarmi. “Metto a posto io. Lasci stare. Sono cose che succedono, purtroppo.” Balbetto qualcosa e metto la borsa sulla sedia accanto a me. “Le porto un altro caffè?” mi chiede con un sorriso forzato. “Questo qui lo ha rovesciato quasi tutto.” Esito. “Offre la casa”, mi lancia un sorriso e in quel momento mi rendo conto che è carino. Ha i capelli un po’ lunghi, color castano scuro, e gli occhi verde chiaro che brillano. È leggermente abbronzato, ma non troppo. C’è qualcosa in lui che mi spinge letteralmente a parlargli. “Beh… d’accordo, allora.” Lo osservo di nascosto mentre prepara il caffè. Sarà la quarta volta che vengo in questo locale e l’ho visto servire ai tavoli già due volte. Fino a quel momento non ci eravamo mai detti nulla di importante, tranne qualche saluto di cortesia e qualche frase di circostanza al momento di ordinare o di pagare il conto. Prendo sempre un caffè macchiato con il quale di solito mi porta un biscotto fatto in casa, e la cosa finisce lì. La volta scorsa mi ha chiesto se facesse freddo fuori (eravamo a fine settembre) e io gli ho risposto che non si stava poi così male, dopodiché non ci siamo più parlati. Ma quando ero ispirata e scrivevo senza avere problemi, ogni volta che facevo una pausa, notavo che stava guardando nella mia direzione, ma distoglieva subito lo sguardo. Devo ammettere che questo suo comportamento da adolescente non mi dispiaceva. Mi porta il caffè e noto che stavolta ci sono ben due biscotti sul piattino. “È grave il danno?” mi chiede facendo un cenno verso il mio quaderno. “I suoi appunti.” “Ah…” Mi mordo il labbro. L’abbozzo del decimo capitolo è rovinato. “Lo scriverò da capo.” “Una cosa ufficiale?” “No.” “Lavoro?” Faccio una risata e rispondo, “No, non lavoro ancora. Studio.” “Anch’io studio… insomma, quando non sono qui.” Mi rivolge un sorriso smagliante e sono orgogliosa di me stessa per aver azzeccato la sua età. “È una scrittrice, giusto?” La sua domanda mi sorprende. Apparentemente mi ha osservato con più attenzione di quanto pensassi. “Beh, sì.” Arrossisco. “Ci provo. Non mi sono ancora proprio affermata.” “Non deve sentirsi in imbarazzo.” Mi fa l’occhiolino. “Bisogna pur iniziare da qualche parte.” “Questo è vero.” Perde un po’ di tempo ad osservare il vassoio sul quale campeggia il marchio Coca-Cola. “Anch’io scrivevo.” “Ah sì?” esclamo sorpresa. “Che cosa?” “Oh, poesie e racconti brevi. A volte forse anche qualche testo teatrale. Ma non ero abbastanza bravo, e quindi ho mollato.” Che peccato. “Non avrebbe dovuto arrendersi così facilmente,” gli dico mentre bevo un sorso del caffè che mi ha appena portato. Lui si mette a ridere. “Penso che non fosse per me.” “Perché?” Voglio sapere. Riflette per un istante. “Ha mai letto qualche poesia sul portale web Literat.si?” Annuisco. “Le leggo sempre.” “Beh, la poesia intitolata L’esistenza dello scrittore e l’(assenza di)ispirazione che ha suscitato tanto dibattito era mia.” Lo guardo sorpresa. Me la ricordo. La poesia parlava in generale delle miserie dello scrittore, di come abbia dovuto combattere per la propria esistenza e la propria sopravvivenza durante la storia, e di come debba continuare a combattere nonostante gli astri benevoli nel cielo del XXI secolo. “Si ricorda probabilmente che nella penultima strofa avevo scritto che lo scrittore è un bugiardo.” Questo è un fatto assodato. “Sì. E che le parole sono i volti vuoti delle menzogne,” cito, per quanto riesco a ricordare. “Purtroppo non posso essere d’accordo su questo.” Solleva un sopracciglio ben disegnato. “Perché no?” “Perché noi scrittori abbiamo il potere,” spiego in modo disinvolto, “di convincere le persone a credere. Può darsi che scriviamo menzogne, ma queste menzogne sono vere, perché esistono nelle nostre menti. Penso che ciò che scriviamo sia l‘unica menzogna ad essere vera.” “Questa è una contraddizione,” obietta. “Gli scrittori scrivono di utopie e un’utopia è pur sempre un’utopia anche se esiste nella nostra mente”. Riflette per un attimo. “Ha mai pensato,” dice “che dietro le parole si possa nascondere anche il fatto che lo scrittore non crede in ciò che queste parole comunicano? Che le scriva semplicemente perché sente il bisogno di farlo e non perché quella sia la realtà che vuole presentare agli altri?” “Sciocchezza. Ognuno scrive perché ha qualcosa da dire al mondo.” “O perché ha un’ispirazione”. Sorrido con un po’ di amarezza. “Spesso l’ispirazione è pericolosamente effimera. Può svanire in qualsiasi momento.” “Questo è vero. Ecco perché uno deve fare attenzione a non lasciare che si estingua. Bisogna alimentarla affinché continui a tornare… e forse bisogna anche tenerne di riserva qualcuna in più.” Rido divertita. Questa conversazione sta diventando davvero interessante. Chi avrebbe mai pensato che avrei discusso dell’ispirazione con uno sconosciuto! “Ha mai avuto un’ispirazione viva? Cioè, innanzitutto, cos’è per lei l’ispirazione?” Sospiro. Le sue parole toccano un tasto dolente che cercavo di dimenticare. “Certo. Continuo ad averla. Trovo l’ispirazione in tutto ciò che mi circonda. Nel mare, nelle strade affollate o tranquille, di giorno e di notte, nel vento freddo d’autunno intriso dell’odore delle caldarroste, nello splendore delle luci natalizie, nel profumo della pioggia primaverile… persino nella folla dei grandi magazzini!” Questo lo entusiasma, evidentemente. “Lei è veramente speciale! Io di solito cercavo l’ispirazione nelle donne che mi hanno spezzato il cuore.” Schiocco la lingua. “Questo non va bene. Così le parole prima o poi sono destinate a inaridirsi.” “Mmm… Penso di aver smesso di scrivere per questa ragione.” Ci soffermiamo ad osservare le file di gocce che colano sulle finestre e i contorni sfocati dei passanti. Fuori sta cominciando a piovere. “E la musa?” mi chiede dopo un po’. “Cosa vuole sapere?” “A chi appartiene l’onore di essere la sua musa?” Gli rivolgo un sorriso malizioso. “La musa non è simile all’ispirazione?” “Può darsi… però per me è una cosa più intima. Una sorta di amante dell’artista. Una fonte di vita che non appartiene a nessun altro.” Amante. In quel istante, mi assale la nostalgia di una cosa distante, sbiadita, talmente lontana che non aveva più senso pensarci. Però continuava a far ardere il fuoco nelle mie vene. Vengo scossa da un brivido impercettibile. “È la musa quella che porta l’ispirazione.” “Sì. Si potrebbe dire che sono madre e figlia. “Se non c’è la musa non c’è neanche l’ispirazione, è così?” Faccio un cenno, tracciando con le dita forme invisibili sul tavolo. “Allora, qual è la sua musa?” Ho l’impressione che non mi darà pace se non gli rispondo. “Le mie muse sono i Marte, le Veneri, le Afroditi, i Giove. E il cioccolato bianco.” Mi rendo conto che la fine della frase l’ho detta quasi sussurrando. Legge il mio sguardo. “Ah. Le muse sono una cosa molto complicata, quasi più che l’ispirazione. Ed è difficile trovarle, quelle giuste, non è così?” Annuisco. Molto difficile. Per qualcuno è quasi impossibile. E, dopo aver trovato quelle giuste, è estremamente difficile cambiarle, soprattutto se la loro presenza ci ha scombussolato la vita. “Posso confessarle una cosa?” dice con un sorriso. Lo guardo incuriosita. “Se scrivessi ancora… sarebbe di certo lei la mia musa segreta.” So che sta flirtando, ma non mi dispiace. Gli sorrido. “Grazie per il complimento e per la conversazione. È stato davvero interessante.” “Anche per me. Signorina…” Mi guarda con aria interrogativa. “Ines”, mi presento con il mio nome d’arte. Non so dire perché non gli svelo il mio vero nome. Sento che non è ancora il momento giusto. Dovrà portarmi ancora qualche altro caffè. “Piacere, Ines. Io sono Tobija.” Ho il sospetto che anche lui non mi stia confidando il suo vero nome. Non importa, ci saranno altre occasioni. “Buona giornata, Tobija.” Gli rivolgo un sorriso caloroso. A quel punto la conversazione finisce. Lui si dirige verso i clienti appena arrivati e io mi rimetto a lavorare. Sorprendentemente, mi ritrovo a scrivere tre pagine intere e tutto fila liscio. Non voglio dare troppa importanza al fatto che, per tutto il tempo della mia permanenza nel bar, continuiamo a scambiarci occhiate fugaci e a studiarci con lo sguardo. Sorrido a me stessa. Non so cosa accadrà in futuro, ma oggi è lui la mia ispirazione. Se non addirittura la mia musa effimera. In ogni caso, in quell’ambiente tranquillo, immersa in un’atmosfera insignificante, ho trovato qualcosa che mi ha condotto sulla strada verso quel rifugio di parole che preserverà l’esistenza dello scrittore. Ed è ciò che conta di più.