Luoghi dell’infinito, Davide Rondoni
Lucania. Ma io ti chiamo Luceania, terra di luce. Così pensavo qualche mese fa, non ricordo più in quale mio viaggio in auto in quella terra vasta e ondosa di colline e invasa dalle albe. Luceania, una nostra Oceania di luce, che si incontra in strade che a tratti si perdono nel niente. Se traversi il ventre d’Italia, l’Irpinia, verso Canosa, poi devii giù e trovi la strada per Matera, ecco, lei, Luceania. Come una introduzione, una premessa, o forse meglio una promessa di un prodigio ancora più grande. La luce e la pietra che si sposano e quasi vedi crearsi l’una nell’altra: Matera.
Fino a pochi anni fa ne sapevo poco o niente. Quel che ne sanno tutti. Un posto pieno di fascino, le grotte, la miseria e la riscossa, i set dei film…
Poi in un posto sperduto del Brasile, in una favela, mentre giravano con me in scena un film documentario su quelle realtà misere e illuminate dalla carità di alcuni, ho incontrato un artista, un fine artigiano scultore e creatore di fischietti e figure magiche. Quel ragazzo è di Matera, si chiama Vincenzo Melodia. E tra le baracche di Belo Horizonte ho sentito i racconti sulla grotta nei Sassi dove suo padre aveva il laboratorio di fischietti di terracotta. Lui ha continuato la bottega, ci ha provato. Lo andai a trovare.
Matera è dunque per me iniziata là tra favelados che vivono come si viveva in quelle grotte sessant’anni fa (e purtroppo in molti posti in Italia ancora). E appare, estremo prodigio della Luceania, facendo salire i suoi Sassi nelle grandi faglie, e le sue case sulla tenacia e la industriosità di uomini che inventarono sistemi di raccolta e scorrimento per l’acqua, che dipinsero pareti di grotta dove pregare e ripararsi. Nel grido del cielo terso. O nel freddo tagliente.
“Mi addormentavo sotto gli occhi di San Michele e di San Gabriele” disse il contadino analfabeta raccolto in autostop negli anni ’60 a un giovane studente di giurisprudenza che cercava la grotta con la chiesa rupestre più bella d’Italia e forse del mondo. Ricordava, quel contadino, di quando piccolo pastore con le pecore trovava ricovero la notte in un luogo strano e meraviglioso, dipinto con mille fiori rossi e tante facce di santi. Ora quel luogo, detto “Cripta dei cento santi” o “del peccato originale”, recuperato e custodito proprio da quell’ex studente di giurisprudenza, Raffaello De Ruggeri, e dai suoi amici, è uno dei luoghi più belli del nostro Paese.
Matera, pietra e luce, vive di molte epiche. Quella dei suoi monaci antichissimi e oscuri, quella dei suoi contadini e allevatori, quella dei suoi poveri e del loro riscatto. L’epica delle lotte di riscossa, e dei piani statali. Della vergogna e della trasformazione. E ora ecco l’epica di presentarsi come capitale della cultura. E non solo per le tante presenze culturali rilevanti – dal Circolo La Scaletta al Premio Energheia, da artisti in vari campi al Musma, il Museo della scultura più importante d’Italia dove è in corso la mostra “Scultura lucana contemporanea” – ma per l’idea stessa, per l’incarnazione, se così si può dire, in quel luogo di una idea e di una dinamica della cultura che oggi può voler dire molto, come esempio da additare a seguire.
Infatti la cultura di Matera e in Matera coincide con i suoi Sassi e le sue antiche misere abitazioni, con le grotte delle chiese rupestri, con la cavità del Sasso che diventa luogo di vita, povera ma non priva di dignità e di senso dell’altezza. E con la forza che ha fatto divenire tutto questo non più vergogna ma orgoglio. Qui la cultura è della stessa materia della vita, e del suo dramma di scampo materiale e di salvezza spirituale. Errata è infatti la lettura che il pur intenso e drammatico affresco di Carlo Levi offre, campeggiando nella sala centrale della città in Palazzo Lanfranchi. Una terra dolente, un coloratissimo dipinto dove le epiche del luogo e dei dintorni vengono riassunte (è raffigurato anche il sindaco poeta di Tricarico, Rocco Scotellaro) ma da cui son espunti tutti i possibili segni di pietà religiosa. Non un segno dei monasteri rupestri che invece sono uno dei siti ora patrimonio dell’Unesco che rendono Matera insieme a Petra uno dei luoghi più suggestivi del mondo. In quel dipinto, rappresentazione ideologica di un’epica, non c’è neanche un segno della croce che invece abita questi luoghi e corpi e cuori. Eppure proprio le prime ricche del capolavoro di Levi, Cristo si è fermato a Eboli, iniziano con quelle parole: “Noi non siamo cristiani. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo…”
Parole in cui c’è concentrata tutta la condanna possibile, la malora di queste terre in quell’epoca. E dunque proprio chi dipinse – censurando – queste terre senza croce non poté avere altre parole se non quelle che impastano il destino dell’uomo a quello dell’Homo patiens, del Cristo che i monaci antichi nelle rupi disegnavano insieme ai santi con una dolcezza bambina, piena di affidamento e di consegna. Cristo non s’era fermato a Eboli, risaliva con gli occhi di monaci che venivano dalla Grecia e da Oriente, e con gli occhi di piccoli pastori che si addormentavano sotto San Michele.
Se di capitale culturale, dunque, si può parlare per una città che con la sua festa della Madonna della Bruna mobilita folle e fantasie ogni anno, si deve anche accettare intera la sfida dura e drammatica che Matera porta alla contemporanea idea di cultura. Oggi si ragiona spesso di cultura come se non fosse una cosa di pietra scavata e di cielo, di morte e vita, di dannazione o salute, ma una cosa di libri e di enciclopedie. O di eventi. La capitale della Luceania, culturale anche se non amministrativa, non è una enciclopedia, non è un evento, ma un grido e uno spasimo millenari. Una voce, una rosa di pietra e di aria che sale con tutti i mormorii della disperazione e della preghiera e della speranza. Una città croce, non a caso scelta anche da chi come Pasolini e Gibson ha rappresentato il dramma della Passione sugli schermi di tutto il mondo. Perché la cultura umana deve fare i conti – pena il ridursi a passatempo indolente per svagati intellettuali – con il problema del destino e dunque con lo scandalo e l’evento della croce di Dio e dell’uomo.
Mentre Sali i gradoni e i vicoli, o la strada che costeggia la grande faglia su cui affaccia il Sasso Barisano, su fin verso il duomo e verso alberghi meravigliosamente ricavati dalle rocce e dall’aria, Matera ti guarda come una creatura muta. Un animale mitico, incrocio, incrocio di tigre e di capra forse, di ferocia e mitezza. Incrocio che si ha in drammatica dose perfetta nell’uomo. Matera è infatti ciò di cui è capace l’uomo quando si batte ferocemente per la vita. La strappa dai Sassi. Fa diventare ventre la montagna. Casa il dirupo. E chiesa le aperture lungo le gravine, le faglie. La ferocia di un uomo che abita il mondo anche a dispetto del mondo. Qui non siamo in Paradiso e Matera lo grida e continua a gridarlo addosso a quanti pensano di realizzare il Paradiso con programmi quinquennali, con pianificazioni urbanistiche, con piani pastorali, con ricchezze immateriali, con eventi culturali…
E per quanto opportunamente si provveda a esibire Pasolini come simbolo e quasi marchio a cinquant’anni dal suo Vangelo secondo Matteo, occorrerebbe compiere, a partire da quel suo gesto compiuto sotto il “sole ferocemente antico” di Matera-Gerusalemme, una risalita nel corpo della cosiddetta cultura italiana per afferrarne il cuore malato e asfittico, il cuore lamentoso e vecchio. Intendo dire che andare a Matera, e vederla anche con gli occhi di Pasolini, intellettuale, poeta, polemista, perso dietro ai ragazzi di vita; e con gli occhi di Gibson, regista attore, uomo tormentato, anche dall’alcool, significa accettare di fare i conti con una idea di cultura che per lungo tempo ha rifiutato di porre al centro un problema: la salvezza dell’uomo, il suo male, il suo destino. Un’idea e una pratica di cultura che eluda il problema del destino dell’uomo e non consideri la croce che su questo orizzonte di destino è piantata, non è una cultura ma una divagazione.
Ci hanno provato, ci stanno provando in Italia e in Europa a ridurre la cultura a divagazione. A decorazione. Oppure, con violenza ideologica a render la cultura e la scienza anticipi o sogni di Paradiso (che diventano incubi): quell’autodeterminazione umana che presume di annullare il dato, la pietra, il movimento del reale più grande di noi.
Matera, invece, che risale se stessa in mille apparenti divergenze di pietra, di vicoli, di arcate e pareti, è una rosa umana, tutta ferocia di vivere, supplica il destino buono, di croci e occhi di santi. La cultura non salva. Aiuta, certo, esprime, e talora fortifica. Ma non salva. Non dà luce sul destino e sulla tristezza della carne. Proprio il tanto sbandierato Pasolini lo sapeva. Avrebbe sottolineato anche lui i versi di un poeta francese: “Ahimè la mia carne è triste, eppure ho letto tutti i libri”.
E dunque Matera, festa grave di luce, capitale della Luceania, e – e sarà al di là di ogni assegnazione politica e burocratica – la scandalosa, meravigliosa capitale della nostra più autentica e sofferta cultura.
Luceania e Lei_Davide Rondoni
Disposto a tutto, dice
Di fronte al morire
Della luce
E alla strana scrittura
Della sera o casa era
Che veniva sul tuo viso –
La terra che arriva a questa rosa
Di sasso e cielo
Rinomino con te di fronte: Luceania
Fantastica oceania
Di albe che si apre
Nel ventre violentato d’Italia
Non la solitudine
Del mare,
non archi disperati e protesi
innamorati sulle rive
erano campi sterminati e poi le vive
pietre di Matera desiderose di prima luna
dopo il grido immobile, secco
del sole tigre…
La concentrazione timorosa
Con cui ti ho spostato
I capelli dalle labbra era
La perfezione feroce di qui,
trema nei secoli
dei secoli, dei vicoli,
danza folle e mai vana
che dolcemente ci sbrana
il tuo silenzio è un sì
più grande, un vuoto
che mi brucia e
non mi allontana.
La rosa dei Sassi risale con la pena
Bianca dei millenni
Nessuno innocente, nessuno
Indenne.
Viene la sera su Matera, su di noi
Ancora si accendono le sue grotte
I segnali alla nostra anima
Piena di vento, piena di notte.