Pioveva, Rémi Glenisson_Francia
Racconto vincitore Premio Energheia Francia 2021
Traduzione a cura di Katia Basile
Onde d’acqua nera sbattevano freneticamente sul corpo febbricitante e rachitico di Mule. Malridotto, indebolito, colpito, con la bocca spalancata, il tempo si dilatava al suono assordante della grande devastazione inquinata. Il viale era vuoto, le grandi strisce bianche della strada conducevano lontano verso una barricata nera, affilata di punte e lance, e ancora più lontano la Grande Città, quella dalle tre torri di ferro, le cui vetrate d’argento sgocciolavano di questa pioggia nera ed inquinata e la cui sommità era nascosta dalla nebbia.
Mule era abituato, non si arrendeva.
La nebbia, la pioggia, il vento, la stanchezza. Una certa sensazione di surrealtà lo tormentava, paralizzandolo spesso in uno stato di massima beatitudine. Sentì vagamente un rumore sordo dietro di sé, poi la luce. Ma non si volse indietro, non ne aveva bisogno. Sentiva odore di polvere. Delle figure senza volto tentavano nuovamente di forzare i passaggi, di attraversare la barricata nera. Passarono.
Senza preoccuparsi di Mule, il Sempliciotto della periferia, colui che non diceva né sapeva mai niente. Loro, gli altri vagabondi, i parassiti di carne e sangue in questo mondo d’acciaio, sapevano molte cose, molte cose futili. Oggi, Mule sapeva che la morte li avrebbe raggiunti perché più nessuno rientrava vivo nella Grande Città.
Alla vista degli assalitori, alla carica con maschere, sbarre di ferro e vecchi fumogeni, la barricata nera si mosse, si dilatò e avanzò. Al calpestìo degli stivali, il rango si mosse senza parlare.
Dei poliziotti? Delle statue? Dei robots? Nessuno, nella periferia della Grande Città conosceva la risposta, ma le loro lance affilate non lasciavano mai nessun sopravvissuto.
Mule strinse il suo piccolo taccuino rosso vedendo la morte in faccia. Ricordava la sua vecchia vita da impiegato statale, quando era professore, di cosa non lo ricordava più. Trascorreva il tempo ad annerire questo piccolo taccuino rosso d’inchiostro, di lettere, di parole, di rime che impreziosivano un tempo la sua attività mentale. Oggi non sapeva più leggere. Il tempo, la pioggia nera, la sporcizia avevano assolto il loro compito, avevano annientato il suo spirito, la sua memoria, la sua anima. Era diventato Mule il sempliciotto.
Sempliciotto? No, gli altri si sbagliavano. Sotto la pioggia nera, circondata di morte e di dispiacere, restava in piedi, beato, silenzioso. Il suo animo cancellato e perso, soffocato, era il guardiano di un tesoro inestimabile, l’ultima perla in questa nazione d’acciaio, l’ultimo diamante della propria umanità perduta. Sognava.
La pioggia scomparve in quell’istante come un fumo di fuochi d’artificio trascinato dal vento primaverile. Era realmente esistita? La nebbia era densa come un manto bianco che ricopriva il mondo dei sogni. Il sole blu moriva verso l’orizzonte oscurato, disegnando degli acquerelli nella nebbia.
Mule era ritornato nel giardino segreto della sua giovinezza, nel cuore della Grande Città. I viali, i passaggi, l’erba fresca, gli alberi silenziosi, la solitudine delle statue in pietra. La sua memoria ne aveva offuscato i volti. Avanzò un passo dopo l’altro nel viale deserto di questo Giardino Segreto il cui vero nome era scomparso da lungo tempo.
Il sentiero, dotato di una propria coscienza, gli si presentava davanti e svaniva al suo passaggio. Era terrorizzato e il corpo gli faceva terribilmente male. Si chiedeva cosa avesse fatto per meritare una tale sorte, stringendo sempre più forte il suo piccolo taccuino rosso.
Un respiro, un mormorìo, un rumore giunse alle sue orecchie. La nebbia scomparve lentamente. I sottili fasci di luce, che penetravano nel fogliame opaco e grigio delle querce, dei salici e dei castagneti, apparivano gli uni dopo gli altri. Il giardino segreto si rivelò in tutta la sua solitudine. Un vento dolce, quasi notturno, accarezzò il vestito degli alberi. La vita fragile giungeva dal fondo della sua memoria.
Volgendosi all’indietro, vide allora una fontana prosciugata, il bacino, e nella sua parte centrale una voce, una presenza che sembrava fischiettare allegramente. Mule era assalito dalla paura del pericolo che lo faceva esitare ad ogni suo passo. Riuscì tuttavia a trovare la forza per far oltrepassare alla sua vecchissima carcassa di piombo il piccolo bordo di pietra della vasca e ad immergersi nell’ignoto. Camminando, la voce si dileguò e apparve un tavolo da scacchi. Una persona seduta, uno sguardo nero come il limbo. Si ricordava di questo viso emaciato, di questa figura alta e attraente.
Questa figura nobile, era lui. Gli fece segno di sedersi al tavolo.
– Ti sei irrigidito mio vecchio amico »
Mule non seppe rispondere. Poteva rispondere? Voleva rispondere?
– La vita è così effimera.
Camminiamo, danziamo su un filo sottile e fragile
che un semplice respiro potrebbe scuotere.
E in fondo al filo sottile, una torre, una scala
per farci scendere più serenamente.
Qualunque siano le nostre azioni, il limbo ci attende.
Gli sorrise e il suo sguardo cupo si illuminò. Un sorriso, è tutto ciò che restava di sé stesso. Gli sarebbe piaciuto apprezzare di più questa giovane entità che aveva perso, ma vide da lontano il cielo dileguarsi per far posto alle tenebre della notte dei sogni.
Non appena ritornò in sé, riaprendo gli occhi, non riconobbe immediatamente il luogo in cui si trovava. Inconsapevolmente si era spostato altrove come se tutto ciò gli arrivasse all’improvviso. In lontananza, le tre torri di ferro si erano riavvicinate pericolosamente. Avanzavano come monoliti potenti che irrompevano per sradicare ogni coscienza sulla terra oppure Mule avanzava verso di loro in una follia distruttiva? Il cuore della città gli si apriva davanti. Perché? Intorno a lui il silenzio. I grandi viali erano fiumi prosciugati dove ogni forma di vita era scomparsa tranne lui che avanzava alla men peggio senza alcun rumore. Le facciate bianche lo guardavano camminare senza prestarvi grande attenzione.
Perché camminava?
Stringendo il suo taccuino rosso, voleva ritrovare il Giardino, testimone della sua infanzia perduta. Il sole rosso, nascosto dietro lo stesso manto nero nebbioso, volse verso il cielo fino al margine dell’oscurità. Mule camminava, cercava, ma il suo giardino era scomparso. Cercò ancora, solo, ma non vide nient’altro che i viali bianchi e le torri nere.
All’improvviso un rumore, delle ferraglie in movimento e degli stivali neri. Mule si volse all’indietro e gridò senza voce. Lo avevano ritrovato. Si fermò bruscamente, incapace di muoversi, mentre la massa nera si dimenava per bloccarlo. Fermò i suoi occhi un’ultima volta e il giardino gli riapparve, più rigoglioso che mai. Sorrise e si lasciò portar via.
Il giardino, e il suo padrone segreto, scomparvero allora per sempre.