Silhouette, Amadeja Juhart_Lubiana
Racconto finalista Premio Energheia Slovenia 2021
Traduzione a cura di Giulia Rorato, Dipartimento di Scienze Giuridiche, del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione dell’Università degli Studi di Trieste
I
“Mi sento al sicuro”, pensò mentre osservava con sguardo stanco i monti orlati di sole e pensava a casa. Con un lieve movimento fece cadere dalle dita lunghe ed esili ciò che rimaneva di una delle tante sigarette che la stavano uccidendo. La spense con cura sul pavimento sotto la panchina sulla quale era seduta a gambe incrociate ed appoggiate ad una ringhiera che già da parecchio tempo le oscurava la visuale sulle cime dei monti. Da un po’ osservava il fumo della sigaretta che con la sua raffinatezza riempiva l’aria intorno a lei e si innalzava verso il cielo vorticosamente. Rimise il mozzicone nel pacchetto di L&M blu, la sua marca preferita, poiché non aveva con sé un posacenere. “La natura è più importante del mio ego”, pensò. Raccolse le forze e con le sue deboli mani sui fianchi si alzò e diede un’occhiata all’enorme e antico campanile di una chiesa barocca, situata sul rilievo più alto. Le venne in mente un’immagine di quando era piccola, le parole e il rapporto con i suoi bisnonni che erano sepolti lì. “Chissà se mi guardano da lassù? Le mie azioni, la mia sconsideratezza e il mio peccato? Chissà se mi giudicano – me e la mia figura stanca ed esausta che si spegne ogni giorno di più?”
Nelle tombe abbandonate e coperte dalle ombre e dai morti, con la siccità ogni fiore deposto lì è appassito e si è decomposto in polvere celeste. Questo luogo, questa vetta, era l’unico posto dove si sentiva veramente felice come una bambina pura ed innocente.
“Cos’è la felicità?”, si chiedeva sempre quando era da sola. Non l’aveva mai provata. Non le era mai stata concessa. Non le era mai stata amica. Da sola si era creata un’illusione di felicità. I suoi pensieri, insieme al fumo delle sigarette che le riempiva i polmoni, si tranquillizzavano alla vista della natura, una meravigliosa creazione di Dio, e quest’inebriamento mandava in estasi il suo corpo come una droga. Questo pezzettino di Terra risvegliava nella sua anima una felicità angosciante e una velata sicurezza e questa per lei era felicità. Gli occhi le diventarono lucidi, poiché sapeva che era tempo di lasciare questo piccolo lembo di paradiso terreno.
II
Prese in mano una torcia vecchia e malfunzionante che emanava una luce rossa e bianca. Riusciva a malapena a sorreggerla, la sua forma a scatola e il suo enorme peso erano decisamente troppo per lei. Con entrambe le mani la mise in spalla come una videocamera e si incamminò. Questo ancora riusciva a farlo. Il sole scomparve dietro le Alpi e il buio si avvicinò velocemente in quella fredda sera. Non tornò sulla strada dalla quale era arrivata, ma con lunghi passi decise di deviare per una strada abbandonata, che non veniva percorsa spesso. Ad ogni passo la torcia le faceva perdere l’equilibrio, però senza si sarebbe sicuramente smarrita. Sotto i piedi le frusciavano le foglie secche autunnali e su questo sentiero erto e terroso ogni passo era incerto. Calò il buio e la luce della torcia irradiò timidamente tra gli alberi immersi in una fitta nebbia bianca. Non curante di tutti i pericoli ai quali poteva andare incontro, si sentiva al sicuro. Si ripeteva: “Papà, a te affido tutto” e “Mio Dio, mi fido di te.”
Pensava a ciò che l’aspettava a casa. Più di qualsiasi altra cosa avrebbe voluto trascorrere la notte sotto il cielo aperto, osservando milioni di stelle, riflettendo sull’arte, la tranquillità e la felicità e disegnando nei suoi pensieri delle melodie, ispiratale dalla natura. Era una romantica. La natura era la sua passione, la sua ispirazione, la sua casa e il suo rifugio. Pensando all’estetica raggiunse senza cadute o scivoloni la strada sassosa sotto il monte. Davanti a lei non poteva vedere né i suoi palmi né i suoi passi. Il buio non ricoprì solo la natura, ma anche i suoi pensieri.
Di sera la sua testa era piena di demoni. Non sapeva perché e non se lo chiedeva neppure, ma alla fine di ogni giornata aveva la sensazione che qualcosa la stesse seguendo. Un’ombra oscura, che rendeva la sua anima inquieta. Già da anni combatteva con l’idea e la sensazione di non essere degna d’amore. Non si sentiva abbastanza bene, abbastanza all’altezza e abbastanza colta. Si paragonava ai migliori compositori del classicismo, del romanticismo e del barocco, ai più famosi scrittori di romanzi autobiografici e di guerra, a persone di cultura e desiderava sapere proprio tutto ciò che è noto all’umanità, ma non aveva né tempo né risorse. Era sfinita da tutti gli impegni, dall’abbandono e la noncuranza della sua famiglia, dalle sigarette, dall’alimentazione irregolare e dalle chilometriche passeggiate giornaliere che faceva per controllare e dominare il suo corpo. In questa serata autunnale, dopo il tramonto, per la prima volta conobbe la sua parte oscura. Qualcosa la stava seguendo e si stava impadronendo dei suoi pensieri, dove echeggiava la sua impotenza. Penetrò negli angoli più bui della sua mente.
Arrivò nel paese, dove le strade erano timidamente illuminate da lampioni in stile medievale. Li osservò e pensò ai tempi in cui veniva apprezzata la vera arte. Aveva sempre desiderato vivere in un appartamento arredato in vecchio stile con una vecchia macchina da scrivere sulla scrivania dell’ufficio, con degli antichi libri impolverati sugli scaffali di tutte e quattro le pareti, con una mostra di dipinti in soggiorno e un lampadario, di cui solo lei poteva ammirare il riflesso dei cristalli. Aveva sempre saputo notare i piccoli dettagli e la sua immaginazione al contatto con l’antichità le permetteva di perdersi nelle proprie fantasie. Quella sera si rese conto per la prima volta che non sognava più il suo futuro. Non fantasticava più di avere una famiglia, una buona paga con la quale avrebbe potuto permettersi un appartamento con un arredamento alla moda, una camera dove poter scrivere e una nella quale, oltre ad un sofà color vinaccia, ci sarebbe stato solo un pianino. Il suo pianino in ebano nero che adora da quando ne aveva memoria. Le sue dita lunghe e affusolate potevano raggiungere un’apertura più ampia di una decima e questo era uno dei suoi punti di forza. Nella musica riversava tutte le sue emozioni, tutti i suoi problemi, tutta la sua tristezza e il suo sconforto, ma già da qualche anno al piano si sentiva inutile. Le armonie in bemolle di Chopin e le composizioni romantiche di Debussy non le disegnavano più un sorriso sul viso e pace nell’animo. Si sentiva senza talento, incapace ed impaurita dai suoi stessi pensieri. Suonava le composizioni più buie, più macabre e più tristi e la paura di sé stessa iniziò a temprarsi. Come se ogni tasto nero fosse una goccia di pioggia autunnale che alimentava l’inquietudine in lei. Non trovava felicità nelle cose che un tempo, nella sua miserabile vita, la rendevano felice e la tenevano in piedi. Non si sentiva più al sicuro quando era da sola, poiché sapeva che in lei c’era qualcosa di sconosciuto. Non si sentiva più al sicuro quando pregava e non si sentiva più completa dopo una Santa messa. Era come se un pezzettino di sé mancasse, ma sapeva anche che nella sua testa non era da sola.
Questi pensieri profondi la condussero a casa. Entrò, si diresse verso il corridoio buio e si tolse silenziosamente le scarpe vicino al tappeto. Conosceva il posto nei minimi dettagli, perciò non accese la luce. Sapeva bene quanto era lontana dall’armadio di legno per i giubbotti e dall’armadietto con l’elenco telefonico e sapeva quanti passi doveva ancora fare per raggiungere le scale. Scalza, corse in camera e chiuse la porta a chiave. “Mi laverò domani così non disturbo la mia famiglia”, pensò fra sé e si mise la camicia da notte che pendeva da lei come da un fine appendino. Nonostante la misura troppo grande, la seta sulla pelle le dava una sensazione di piacere. Era esausta per la serata trascorsa sulla cima del monte e sebbene sentisse l’inquietudine crescere dentro di sé, distese le lenzuola di raso, aggiustò il cuscino e sul suo fianco ossuto, cadde in un sonno profondo.
III
Arrivò il momento di tornare a studiare. La rasserenava il fatto di allontanarsi nuovamente da casa nonostante avvertisse ancora un’ombra dietro di sé che non le dava pace. Nella sua borsa da viaggio rossa e nera mise vestiti, la sua giacca e i pantaloni di pelle, dei giubbotti decisamente troppo grandi e la biancheria intima. Prese un vasetto di caffè nero aromatico e corse in treno. Amava i viaggi in treno. Sedeva sempre da sola, si toglieva le scarpe e incrociava le sue gambe esili sui sedili davanti a lei. La musica la accompagnava nelle cuffiette, nelle mani invece sfogliava i libri più meravigliosi. Rimembrava i viaggi in treno a Zagabria e Firenze, la pace e le bellezze della natura lungo il percorso. Sapeva che il treno attraversava i paesaggi più belli. Ammirava i boschi e i sentieri ricoperti di polline ed illuminati dal sole che penetrava attraverso le foglie. Guardava i pedoni, i ciclisti e le famiglie che trascorrevano i pomeriggi insieme. Ormai raramente notava la bellezza del creato e si concentrava su tutto ciò che le era stato dato. Apprezzava sempre meno ciò che la circondava e si perdeva sempre più nelle proprie riflessioni e preoccupazioni.
Leggendo una rivista guardò inconsciamente fuori dalla finestra. Era mattina, il sole ancora non era sorto e regnava il buio. Le si fermò il respiro. Nel riflesso della finestra vide una figura deturpata. Era una donna dal viso rovinato e pallido, dalla fronte aggrottata, dagli occhi profondi e stanchi e dai capelli scompigliati. Questa sagoma vuota la fissava. Guardò nella finestra dietro di sé, ma non la vide più. La donna ricomparve poco dopo provocandole un brivido lungo tutto il corpo. La paura la pervase e le venne la pelle d’oca. La salutò e contraccambiò. Si rese conto di essere lei. Vide la propria interiorità e la propria sofferenza. Vide la sua anima persa nell’inquietudine e quasi svenne. Chiuse il libro e alzò il volume della musica. L’inverno di Vivaldi svegliò in lei tutt’altre emozioni. Scese dal treno come un’altra persona, assalita da sensazioni di tristezza, confusione, sofferenza eterna e infelicità. Un’ombra alta in un giubbotto scuro e in pantaloni decisamente troppo grandi si diresse verso il suo appartamento.
Nel mazzo di chiavi cercò quella giusta e aprì l’uscio. La porta in legno nero, ormai vecchia di sessant’anni, emise un suono stridulo come in un film horror e sbatté con violenza quando lei era già al secondo piano. Prima di tutto appoggiò la sua valigia pesante e la borsa del computer vicino al tavolo grigio di quercia in camera e decise di prepararsi ancora un caffè, che era una delle sue ossessioni. Adorava il suo profumo che la trasportava nelle piantagioni e nei continenti più lontani, amava il retrogusto al caramello, cioccolato, vaniglia e nocciola. Quando con le sue dita esili sorreggeva l’enorme scodella e lo assaporava a piccoli sorsi aveva come la sensazione che il calore penetrasse nelle vene verdi e blu e dai polsi corresse attraverso il braccio fino al petto per poi scaldarle il cuore. Quando beveva il caffè tutto si tranquillizzava. Il mondo si fermava ed esisteva solo il piacere. Bevendo entrava in un circolo vizioso e si accendeva una sigaretta dopo l’altra. Non iniziò a fumare per diletto, ma bensì con l’intenzione di uccidersi lentamente. Voleva farsi del male, ma era una vigliacca. Ad ogni respiro profondo la sua mente le ordinava di abbattersi e di abbandonarsi al suo triste destino.
IV
»Fuori ti aspettano, guarda!«, le gridò la collega da dietro la macchinetta del caffè. »Cos’ha la gente oggi? Cosa sono tutte queste persone?«. Le mancava il fiato, il viso era di un colore rosso intenso, il corpo affaticato e mal nutrito portava a stento i vassoi pesanti e pieni di piatti fuori sul terrazzo. I clienti le ronzavano attorno e la chiamavano da tutte le parti e, nonostante la offendessero spesso, era sempre disponibile nei loro confronti. Non poteva sapere cosa stesse passando ognuno di loro. »Mettiti nei panni di una persona, che magari a casa ha un partner alcolizzato e al lavoro è responsabile di tutto il reparto. Viene qui per merenda, ma ha poco tempo, perciò se la prende con il cameriere e riversa su di lui tutte le sue frustrazioni. Sarebbe forse corretto giudicare una persona dall’apparenza quando è sommersa dalle sue preccupazioni? Sarebbe giusto pensare solo ai propri interessi ed essere critici verso una persona che non si conosce?« pensava fra sé e sé. A volte condannava le proprie colleghe, perché trattavano i clienti in malo modo. Le conosceva, ma non aveva detto loro mai niente, perchè non voleva che se la prendessero anche con lei. La sua bassa autostima le impediva di iniziare qualsiasi discussione, ma le impediva anche di farsi valere.
Da quando cominciò a lavorare al bistrò iniziò a crescere anche la sua parte oscura. I clienti la elogiavano, le facevano la corte e la seducevano. Sapeva di non poter cadere in tentazione, tuttavia non poteva evitare che le parole dolci e le battute pronte da parte dei clienti provocassero un’accelerazione dei battiti nel suo cuore. Le piaceva fare la cameriera. Questo lavoro le calzava a pennello. Con il vassoio pieno andava di tavolo in tavolo come una trottola o una ballerina. La sua fragilità era, se non consideriamo il danno che le causava, attraente. Dentro di sé sapeva che questo piaceva agli uomini e rispondeva ambiguamente alle loro viscide parole e ai loro sguardi vogliosi, lasciandoli nell’incertezza. A volte rimaneva interdetta dai propri atteggiamenti e dalle proprie parole non riconoscendosi più. “Perché li attiro proprio io? Perché prendono in cosiderazione proprio me e perché mai vorrebbero una storia con me? Forse le persone rotte manifestano la propria debolezza cosicché gli altri se ne possano accorgere? Se ne possano approfittare? L’impotenza è davvero così attraente?” si domandava dopo i mille ed instancabili commenti. A volte nei suoi pensieri si imponeva dei divieti, ma l’ombra inghiottiva con forza tutte le virtù e le buone intenzioni. Si sentiva impura, si abbandonava alle tentazioni con le quali perdeva anche gli ultimi pezzettini dell’ormai vecchia personalità. Si era allontanata da Dio, dalla famiglia, dalle cose che una volta le davano la forza per impegnarsi e le davano una sensazione di appagamento. Si era persa nel presagio della fine.
V
Nella sua impotenza perse ogni speranza. “Devo andare via, devo stare da sola”, pensava. “Ho bisogno della musica, quella vecchia, che in passato aveva cancellato ogni insicurezza dai miei pensieri. È possibile che una sola melodia mi riporti la speranza nel cuore? No, non è sufficiente. Devo andarmene e sparire nell’ignoto. Devo scappare dalla mia famiglia, da tutte le persone, ma soprattutto devo scappare da me stessa. Ne ho abbastanza. Ne ho abbastanza delle delusioni e dei fallimenti. Ne ho abbastanza di decine di sigarette fumate, che mi fermano lentamente il cuore. Ne ho abbastanza dell’inedia e della sensazione di colpa dopo ogni boccone mangiato. Ne ho abbastanza di trattenere e limitare me stessa. Ne ho abbastanza di questa sensazione di miserabilità. A nessuno interessa. Non sono degna di amore e così sia. Hai vinto silhouette, me ne vado!”
Camminava con passi insicuri e leggeri sulle piastrelle rosse della piazza e oscillava nel vento. Aveva i cappelli scompigliati e pieni di foglie secche rosse e gialle. La sua figura pallida, che ora anche i passanti vedevano come deturpata, si muoveva con paura. Era sicura: “Questo è tutto ciò che ho raggiunto.”, pensava. Era pronta all’ultimo colpo. Non c’era più un senso nella sofferenza e nelle costanti delusioni. “Che l’acqua porti via il mio corpo decaduto”, pensò mentre guardava la corrente impetuosa del fiume sotto di sé e desiderava solo lasciarsi andare.
Stava per fare un passo avanti e svanire quando sentì in lontananza le campane della chiesa. Non poté non farci caso, perché il suo cuore sussultò al ricordo delle preghiere alle quali una volta dedicava ore e ore. “Ancora un’ultima volta”, pensò e con il cuore pesante e spezzato decise di andare alla Santa messa. Ad ogni passo c’era qualcosa che la tirava indietro. Parte di lei non voleva salvarsi, anzi la voleva inghiottire nelle profondità oscure. Si ribellò all’ombra, trovò ancora l’ultima briciola di forza e giunse alla chiesa in mezzo alla piazza. Era determinata ad aprire, con le sue deboli mani e con tutta la forza del corpo, la porta della chiesa.
Le mancò il fiato.
“Ogni volta che Dio guarda il palmo della sua mano, io sono là.”
Questa era la scritta sopra l’altare, la prima cosa che osservò all’entrata. Contemporaneamente sentì che il peso del peccato e della paura si espandevano nel suo petto. Percepì la luce. La sommerse un indescrivibile senso di felicità. Il calore le scorreva nelle vene dal cuore in ogni angolo del suo corpo impotente. Le venne la pelle d’oca. Era scossa. Si immobilizzò, perché non sapeva cosa stesse succedendo. Dopo pochi instanti di pace totale scoprì di aver conosciuto l’amore di Dio. Dio versò su di lei la sua misericordia e fece svanire il buio. Si sentì rinata.
“Dio mi ama ancora”, furono le parole che la salvarono da lì in avanti.
VI
“Mi sento al sicuro” disse tra sé e sé, quando guardando le meravigliose tessere dei colori del cielo pensava al Paradiso. Con le gambe incrociate era seduta sulla panchina rotta in cima al monte. Guardava le vette imponenti sopra la dolina abitata e si sentiva amata. Su di lei non c’era più alcun odore di fumo di sigaretta. Le sue mani non erano più deboli. I suoi pensieri erano chiari e pieni di speranza. Guardava il campanile barocco e ricordava il momento in cui il suono dal cielo la salvò dalle tenebre. Pensava alla famiglia che le voleva bene e al futuro che voleva costruirsi. La musica, i libri ed i viaggi serali con il treno la riempivano di coraggio. Il piacere nell’osservare il cielo, ogni respiro, ogni risveglio, la preghiera e l’amore di Dio…questa era per lei la felicità.
Traduzione:
Giulia Rorato
Dipartimento di Scienze Giuridiche, del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione
dell’Università degli Studi di Trieste