L’erede di Orfeo, Irene Coldani_Rozzano(MI)
Racconto finalista Premio Energheia 2021_XXVII edizione – sezione giovani
“Bene, signor Martinelli”, attaccò Melissa, intrecciando le dita in grembo, “le andrebbe di cominciare parlandomi del perché ha deciso di venire qui?”
Era il suo sesto colloquio quella mattina e ormai non era più sicura se a visitare la mostra di Gauguin il giorno prima fosse stata lei o la signora Benasso, la prima paziente che aveva ricevuto.
Il signor Martinelli incrociò lo sguardo della psicologa giusto il tempo necessario per non sembrare villano. “Le dispiacerebbe chiamarmi Luca?”
Aveva accavallato le gambe e faceva oscillare il piede sospeso in modo compulsivo. I suoi occhi sfioravano tutto ciò che aveva intorno, senza mai soffermarsi su nulla: prima la finestra, il quadro con i fiori gialli e azzurri lì accanto, poi il soffitto, la laurea incorniciata, i libri sulle mensole. Di tanto in tanto rimbalzavano sulla psicologa, forse tradendo la sua curiosità o forse perché, semplicemente, aveva già esaurito tutti gli altri oggetti a disposizione.
“Per me va bene”, acconsentì Melissa, “se lei preferisce.”
Tacque e rivolse al signor… a Luca la sua espressione da ascolto: attenta, aperta e leggermente distaccata. Dato che la guardava a intermittenza, lui ci impiegò diversi secondi per accorgersi che era il momento di parlare.
“Ehm, sì,” borbottò. Mentre raccontava, la psicologa si accorse molto presto che erano parole ripetute molte volte allo stesso modo e con diversi interlocutori, probabilmente ogni volta che si trattava di quell’argomento.
“Quando avevo undici anni il mio fratello gemello morì in un incidente. Da quel giorno in poi, ogni notte, lui veniva a trovarmi in sogno per accompagnarmi nell’aldilà. Mi portava in giro, mi presentava persone e parlava di quello che si faceva lì.” Fece una pausa, come aspettando una domanda che gli altri gli facevano sempre a questo punto, ma Melissa era ancora ferma alla parola aldilà e rimase in silenzio. Allora lui riprese: “A volte parlavamo dei ricordi vissuti insieme o di quello che facevo io o di come stavano mamma e papà”. Si fermò, ci ripensò e disse ancora: “Mio fratello non mi chiedeva mai di portare messaggi e io non dicevo a nessuno che veniva a trovarmi.”
La psicologa avrebbe liquidato questi sogni come una normalissima elaborazione del lutto, se non fosse stato per quella parola, aldilà, che riecheggiava ostinatamente nella sua testa. E il modo in cui lui aveva detto veniva a trovarmi…
Stava per intervenire, quando Luca parlò di nuovo. “Allora”, si schiarì la voce, “cinque mesi fa sono andato a vivere con la mia compagna Vera e da quel giorno non ho più visto mio fratello. Sono qui perché vorrei che lei mi aiutasse a rivederlo.”
Ecco, l’aveva fatto di nuovo: rivederlo, aveva detto, non sognarlo. A questo punto, la psicologa avrebbe dovuto chiedergli di parlare della compagna, o del perché voleva rivedere il fratello, ma la sua mente era rimasta incagliata nella parola aldilà. “Potrebbe spiegarmi meglio?”, chiese garbatamente. “Ha detto che suo fratello veniva a trovarla tutti i giorni?”
Luca parve sorpreso dal comportamento di Melissa – chissà quante reazioni di specialisti doveva aver visto di fronte al suo racconto. Dopo alcuni secondi, tuttavia, parve decidere che la cosa gli piaceva. “Tutte le notti”, precisò. “Dovunque fossi o qualunque cosa mi fosse successa durante il giorno”.
Melissa, vedendo che persino lui se n’era accorto, si vergognò profondamente di essersi lasciata trasportare dalla curiosità e decise di rimettersi in riga. Si raddrizzò sulla poltrona – prima si era sporta verso Luca senza rendersene conto – accavallò le gambe e cercò di riprodurre la sua iniziale espressione da ascolto. “Mi parli della sua compagna, Vera. Le vuole molto bene, immagino.”
Luca rimase disorientato da questo secondo, brusco cambiamento nella psicologa, peraltro del tutto contrario al primo, e distolse di nuovo lo sguardo. “Sì, è la persona che amo di più al mondo e tra l’altro adesso aspetta un bambino, quindi nel giro di qualche mese dovremo trasferirci in un appartamento più grande, mi sa”, sorrise. “Vera è l’unica persona a cui ho parlato dei sogni.”
Melissa non poté trattenersi: “Non l’ha mai detto a nessun altro?”, chiese, sollevando le sopracciglia.
Luca si accigliò a sua volta: evidentemente gli pareva di averlo già detto nel suo breve monologo iniziale. “Be’- a parte gli analisti che ho incontrato ultimamente – no, mai.”
“Le posso chiedere per quale motivo, secondo lei?”, domandò ancora la psicologa, fissandolo intensamente.
“Mmh, non saprei”, rispose lui, con gli occhi che fuggivano in tutte le direzioni, “tu – lei”, si corresse in fretta, “se la sarebbe sentita di raccontarlo a qualcuno?”
La psicologa sorrise in maniera condiscendente e si compiacque del suo ritrovato autocontrollo. “E’ la domanda che faccio a lei, Luca”.
“Giusto”. Luca fece una smorfia imbarazzata e questa volta i suoi occhi spazzavano il pavimento, mentre rifletteva. “Be’, credo che avessi paura di sembrare pazzo. Sa, i bambini che subiscono una disgrazia sono spesso in rilievo rispetto agli altri. Non so se mi spiego: gli altri bambini cercano di essere gentili con loro e non li disturbano, gli insegnanti li tengono d’occhio più degli altri e li sgridano il meno possibile, ma in sostanza nessuno sa bene come comportarsi con loro. Si immagini se oltre ad essere il fratello del bambino morto fossi diventato il bambino che sogna tutti i giorni il bambino morto e va con lui nell’aldilà.”
Melissa fremette nell’udire di nuovo la parola e questa volta fu lei a distogliere lo sguardo. Per sua fortuna, la prima domanda che le venne in mente per mascherare la sua distrazione non fu troppo fuori luogo. “Come si chiamava suo fratello?”
In effetti, Luca aveva evitato di dirlo fino a quel momento, si disse a posteriori.
Lui parve afflosciarsi come un fiore e i suoi occhi rimasero dov’erano, sul parquet chiaro. “Antonio”, rispose. Melissa si aspettava di doverlo incoraggiare, però lui continuò da sé: “Era il mio fratello gemello ed eravamo solo noi due; insieme ai nostri genitori, ovvio. Non so se lei ha fratelli o sorelle, ma con i gemelli è diverso, soprattutto se si è identici… si è quasi una cosa sola.”
La psicologa cominciava ad avere l’impressione che, nonostante tutti gli specialisti che Luca aveva incontrato, i suoi colloqui non fossero mai durati così a lungo. Notò anche che lui era sempre più a suo agio: non aveva smesso di far oscillare il piede, ma distoglieva lo sguardo da lei solo per cercare lì attorno le risposte alle sue domande.
Fece una lunga pausa, dopodiché, cercando allo stesso tempo di mostrare tatto e non sembrare uno degli insegnanti maldestri, che Luca aveva descritto prima, domandò: “Ricorda il periodo in cui è morto?”
“Solo vagamente”, ammise Luca. “Era inverno, ma in quei giorni faceva sorprendentemente caldo. Ricordo che Antonio aveva fatto i capricci perché non voleva mettere la sciarpa e quindi alla fine non l’avevo messa neanch’io.” Sorrise, gli occhi persi nello spazio di un ricordo. “Ha presente quei gemelli che mettono tutti i vestiti uguali? Ecco, noi facevamo di tutto per vestirci in modo diverso, anche se avevamo lo stesso taglio di capelli a scodella.” Si rabbuiò di colpo. “Per fortuna quel giorno non c’ero. Antonio andava sempre in giro in bici, io invece avevo paura e preferivo il monopattino. Quel pomeriggio ero a casa di un nostro amico e, onestamente, non ricordo come mai Antonio non ci fosse. Comunque, era in bici lungo una strada poco trafficata e un camion l’ha investito facendo retromarcia.” La voce gli si spezzò, tuttavia Luca volle concludere: “Ha fatto in tempo ad arrivare in ospedale.”
Melissa si portò una mano alla guancia, come se le avessero appena dato uno schiaffo. I suoi occhi erano velati di lacrime e riflettevano la luce del lampadario in modo quasi inquietante.
“Mi hanno detto che era in un posto migliore”, disse Luca dopo un po’. Si girò dall’altra parte, ma la psicologa notò una sorta di sorriso mesto, che non riusciva a trattenere. “So esattamente com’è quel posto.”
Melissa rimase in ascolto, come se il silenzio del paziente potesse rivelarle qualcosa in più di quanto lui non avesse detto a parole su quel posto. Riuscì a intercettare al volo il suo sguardo, per una volta. “Mi dispiace tanto, Luca. E’ una disgrazia tremenda.” Le era sembrato il momento giusto per dirlo. “Ci pensa spesso?”
“In realtà”, rifletté il paziente, “non molto. Con tutte le notti che ho passato insieme a mio fratello, quel giorno mi sembra quasi meno reale.”
La psicologa annuì con aria comprensiva: stava guardando l’orologio alle spalle del paziente e passava le dita nei lunghi ricci biondi, senza accorgersi che così facendo li attorcigliava sempre più attorno alla collana. Erano passati solo venti minuti dall’inizio del colloquio e aveva già esaurito le domande che non riguardassero l’aldilà. Sarebbe suonato strano chiedere a Luca se volesse riprendere la conversazione un’altra volta, perciò la sua mente vagava alla disperata ricerca di argomenti che non riguardassero quel posto. Non è difficile immaginare che non riuscì a trovarne nessun altro.
Alla fine, quando Luca le rivolse uno sguardo interrogativo, quasi preoccupato, fu costretta a cominciare con le domande che le premevano fin dall’inizio. “Le andrebbe di parlarmi dei suoi sogni? Magari potrebbe descrivermene uno che ricorda particolarmente bene”, propose.
Il paziente strinse gli occhi, non perché la domanda lo infastidisse o lo stupisse, ma come se stesse cercando di scorgere qualcosa di molto lontano. “Mmmmh”, mormorò. “Forse quello che mi ricordo meglio è quello in cui Antonio mi ha fatto vedere il posto in cui sarei andato io dopo la morte. Era una casetta vicino all’acqua, non so se il mare o un lago, e dietro c’erano un bosco e le montagne. Era vuota, ma sembrava come… abitata, accogliente. Antonio mi ha detto che era lì che stava lui quando non era con me. Io allora gli ho chiesto cosa facesse lì dentro, però lui ha riso e ha detto che ci abitava, non era costretto a starci tutto il tempo. Ha detto che andava in bici lungo la riva, per lo più.” Luca si mosse sul divano, lottando forse per ammansire le emozioni. “Poi ricordo che mi ha fatto anche entrare,” proseguì con difficoltà, come se avesse l’acqua alla gola, “e mi ha fatto vedere la sua bici, che era ancora quella minuscola che usava prima di… quando…”
La psicologa venne in suo soccorso con un’altra domanda: “Ricorda come iniziavano e finivano i sogni?” Luca non fece per rispondere, si limitò semplicemente a fissarla, aggrottando le sopracciglia. Lei cercò allora di spiegarsi meglio: “Ad esempio, ogni notte lei andava nell’aldilà; ma quando il sogno cominciava, lei si trovava già lì oppure Antonio veniva a prenderla e ce la accompagnava?”
Le sopracciglia del paziente, invece di distendersi, si sollevarono. Evidentemente, cominciava a chiedersi l’utilità di certe questioni marginali per il suo scopo. “Non saprei. Sinceramente non ricordo di aver fatto nessun viaggio o varcato nessuna soglia, perciò probabilmente il sogno cominciava già all’interno dell’aldilà. Lei ricorda di preciso come iniziano e finiscono i suoi sogni?”
L’occhiata penetrante, che le rivolse, fece sentire la psicologa come un ladro colto con le mani in cassaforte. Invece di rispondere, si alzò quasi di scatto e gli volse le spalle. “E, mi dica, suo fratello cresceva insieme a lei, nei sogni?”, chiese ancora, mentre apriva la finestra in fondo allo studio e prendeva una lunga boccata d’aria.
Luca rimase, se è possibile, ancor più spiazzato da quelle parole. Tuttavia, non appena Melissa si voltò verso di lui e tornò a sedersi, aveva già mascherato lo stupore e si studiava le scarpe da tennis con incredibile interesse.
“Veramente, non ci ho mai fatto caso”, rispose, con il suo tono schietto. “Trattandosi del mio gemello, suppongo sia sempre rimasto uguale a me e, visto che io sono cresciuto, credo sia cresciuto anche lui. Quel che è certo è che non aveva un aspetto abbastanza strano da attirare la mia attenzione, non so se mi spiego.” Guardò la psicologa, per la prima volta curioso della sua reazione.
“Capisco”, disse lei, in tono distaccato: era già proiettata nella prossima domanda. “Ma mi parli ancora di suo fratello. Come si comportava con lei? Le sembrava… in pace?”
Questa volta, Luca la osservò con palese sospetto, forse intuendo che non era esattamente quello, ciò che Melissa voleva sapere. “Mio fratello era sempre tranquillo e non parlava troppo spesso. Di solito quando parlava era per spiegarmi qualcosa. Non saprei dire se fosse in pace, ma sicuramente era una presenza… solida, come di quegli anziani che hanno visto così tante cose, che non si stupiscono più di nulla.”
Alla psicologa non era sfuggita la diffidenza nella voce del paziente, perciò lasciò cadere il silenzio, prima di continuare la sua indagine. Nel frattempo, si risistemò per l’ennesima volta sulla poltrona, accavallò le gambe, intrecciò le dita in grembo e scostò i capelli all’indietro.
“Ha incontrato altre… persone nell’aldilà, a parte Antonio?”
Luca cominciava seriamente a sentirsi come un sospettato al tavolo degli interrogatori. Ma la verità era che la psicologa gli stava rivelando molto più di quanto intendesse. “Ne ho incontrate moltissime”, rispose lentamente. “Alcune assomigliavano persino a persone che avevo incontrato durante il giorno, però nel giro di un attimo la somiglianza svaniva.” Aveva aspettato fino all’ultimo per contrattaccare, voleva vedere come Melissa pendesse dalle sue labbra. Quindi chiese: “Lei ha perso qualcuno, vero?”
La psicologa distolse lo sguardo di colpo, come se avesse visto qualcosa di disgustoso. Pian piano, però, si rese conto che questa era la conseguenza del suo atteggiamento e, se lei aveva oltrepassato i confini per prima, non poteva biasimare il paziente se alla fine l’aveva fatto a sua volta. “Ho perso mia zia, poco più di un anno fa. Era una delle persone a me più care, avevamo un legame davvero speciale. Il cancro l’ha portata via piuttosto in fretta.” Tacque, e per alcuni secondi i suoi occhi vagarono sulle pareti dello studio, come se non le avesse mai viste prima. “Mia zia non credeva ci fosse qualcosa dopo la morte, sa?”
Di fronte al sorriso mesto che Melissa gli rivolse, Luca non seppe far altro che continuare ad osservarla in silenzio. Si vergognò molto presto e si voltò dall’altra parte. Non si sentiva poi così migliore delle persone che non sapevano come trattarlo dopo la morte di Antonio.
“Neanche io ci credo”, ammise alla fine, gli occhi fissi sul quadro coi fiori gialli e azzurri. “Mi importa solo di rivedere mio fratello.” Avrebbe voluto aggiungere: “La prego, mi dica che sa come fare”, ma si trattenne.
La psicologa annuiva e si sentiva sciocca, la più sciocca di tutti. “Le dispiacerebbe rispondere a qualche altra domanda? Non è obbligato.” Lanciò un’occhiata all’orologio: ormai era passata più di un’ora e, in tutta onestà, in quel momento avrebbe dovuto essere alla scrivania, a preparare il colloquio successivo. “Non ho mai sentito di un caso come il suo.”
Il paziente non sapeva se dovesse compiacersi o preoccuparsi, quindi mantenne la sua espressione impassibile e annuì soltanto. “Mi chieda quello che vuole sapere.”
Erano istruzioni molto precise e Melissa si sorprese ad osservare Luca con occhi nuovi, apprezzando per la prima volta tutta l’intelligenza che illuminava il suo viso. “Potrebbe descrivermi questo posto? Non le chiedo di raccontarmi tutto quello che ha visto, ma a grandi linee. Magari potrebbe dirmi, ad esempio, se era un luogo sotterraneo o no; se l’ha esplorato tutto; che cosa facevano le persone che ha incontrato.” Ormai aveva imparato che le domande troppo generiche lo mettevano in difficoltà.
“Allora…” Luca si piegò in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e il mento sui palmi delle mani. “Sicuramente non era un luogo sotterraneo, o almeno non sempre. Nei sogni di solito perdo di vista il contesto, è come se fossero figure che si muovono su un fondo nero. Però ricordo le volte in cui Antonio mi ha indicato il cielo per spiegarmi cosa vedevo e anche volte in cui c’era il sole ed era caldo. Il cielo che mi faceva vedere era bellissimo. Ha presente il cielo notturno in montagna? Ecco, era molto più definito. C’era anche una sorta di luce, quindi oltre a tutte le stelle si vedevano pianeti, lune, asteroidi. E cambiava ogni volta, girava intorno a noi lentamente, come i modellini che si appendono sopra le culle dei neonati. Penso che l’aldilà, o qualunque cosa sia il sogno, si trovi nel buco nero che sta al centro della galassia. E’ così che dicono gli scienziati, no?”
La psicologa trasformò in fretta la sua espressione da meravigliata a vuota, priva di risposte. Non si era mai interessata di astronomia, neanche a tempo perso. Sperava solo che Luca continuasse la sua descrizione e, per sua fortuna, lo fece.
“Comunque, a parte il cielo, il resto cambiava ogni volta. Un giorno – cioè una notte”, si corresse, “mi ha fatto scendere una lunghissima scala e mi ha portato in un sotterraneo gelido con una fila infinita di celle, da cui si protendevano braccia e gambe per toccarci. Poi un’altra volta siamo andati a nuoto fino a un’isola, che era protetta da uno strano mostro marino, e abbiamo trovato un bar caraibico con cocktail colorati pieni di fiori. C’erano ragazzi che giocavano a pallavolo sulla spiaggia e coppiette di anziani che ballavano sulla pista accanto al bar, le gonne che si sollevavano durante le giravolte.” A questo punto Luca si distrasse. “Sa, credo di non aver mai parlato di Vera a mio fratello…”
Si interruppe e la psicologa capì che non avrebbe saputo altro sulla geografia dell’aldilà; non che non fosse già abbastanza complesso da immaginare così.
“Lei quindi non ha mai sognato altro, da quando suo fratello ha avuto l’incidente?”
Luca scosse la testa. “Non che io ricordi.” Forse, per essere sincero, avrebbe dovuto dirle che quello che lei chiamava aldilà era un insieme di sogni diversi, che avevano in comune solo suo fratello. Però Melissa aveva il genere di sguardo di chi è più disposto a credere a una fantasia, piuttosto che a chi la smentisce.
La psicologa aveva un’ultima domanda: si concesse di porla solo perché sapeva che poi avrebbe ricambiato il favore al paziente. “E adesso che non sogna più l’aldilà, cosa sogna?”
“Nulla”, disse Luca di getto, ma si corresse, perché qualcun altro l’aveva già corretto prima. “Cioè, non ricordo nulla di quello che sogno.”
Lei si portò una mano al viso, sfiorandosi il mento con i polpastrelli mentre guardava verso Luca. “Come mai vuole ritornare a sognare suo fratello?”
Il viso del paziente si oscurò. “Perché era sempre stato così, da quando è morto. Era come se non l’avessi mai perso. E il fatto che sia finito tutto di colpo mi ricorda…” deglutì, “mi ricorda quando ha avuto l’incidente. Non ho potuto dirgli addio allora e non ho potuto farlo adesso. E non ricordo l’ultima volta che l’ho visto o le ultime parole che ci siamo detti, così come non ricordo l’ultima volta che l’ho sognato.”
Melissa annuì in maniera comprensiva, ma non come avevano fatto tutti gli altri analisti che Luca aveva incontrato: lei capiva, semplicemente perché sapeva quello che lui provava.
“Non ho una diagnosi da darle e neanche un’analisi scientifica della sua situazione”, gli disse limpidamente. “Le posso solo dire la mia ipotesi personale.” S’interruppe con un’altra domanda: “Non ha detto alla sua compagna che suo fratello è sparito da quando dorme con lei, vero?”
Il paziente abbassò lo sguardo e scosse la testa. “Non vorrei… che si sentisse in colpa”. Dal modo in cui aveva esitato, la psicologa dedusse che non sapeva effettivamente se dare la colpa a lei o no. Ancora una volta, Luca rifuggì il suo sguardo indagatore. “Non voglio dover scegliere tra mio fratello e la donna che amo.”
Melissa sorrise. “Ma lei ha già scelto. Oppure è stato suo fratello a scegliere per lei”, gli disse. “Non può più essere reclamato metà dai vivi e metà dai morti: il suo mondo è più improntato alla vita, ora. Avrà un figlio, una famiglia.” Il viso della psicologa era illuminato da una sorta di commozione gioiosa, che Luca faticava a capire. “Suo fratello l’ha lasciata andare, perché lei non era mai riuscito a lasciar andare lui. Il vostro addio è durato tutti questi anni, ma adesso è il momento di guardare avanti, Luca.”
Il paziente rimase a fissarla, ammutolito. Le parole di lei continuavano a riverberare nelle sue orecchie come in una eco infinita, forse nella speranza che così potesse elaborarle più in fretta.
“Oh, un’ultima cosa”, disse Melissa. “Suo figlio, se sarà un maschietto, non lo chiami Antonio: mettere il peso della perdita sulle spalle di un bimbo appena nato non è mai un bene.”