Occhi azzurri, occhi neri, Maria Isabella Piana_Acireale(CT)
Racconto finalista Premio Energheia 2021_XXVII edizione – sezione adulti
Non aveva dormito. Forse per colpa della calura di quelle notti che lo soffocava come se si trovasse sotto il corpo senza vita di una bestia immensa in quella capanna dove viveva con la madre e i fratelli. Forse perché aveva paura quando il sonno lasciava nella mente uno spazio vuoto nel quale entravano gli incubi, la stessa paura innata nella sua gente, di qualcosa che c’era, sicuramente, non sapevano dove, ma c’era, qualcosa che faceva venire il sangue alle donne e i vermi ai bambini e toglieva ai vecchi la memoria e la saggezza. Forse perché la fame, che non poteva essere saziata dalle erbe pur rese commestibili da mani sapienti, gonfiava il suo stomaco con un alito freddo di morte. Non aveva dormito e stava male. Quando la madre all’alba gli aveva passato sugli occhi appiccicosi di sonno la mano bagnata per togliere le ragnatele del sopore mattutino, il suo corpo non aveva saputo reagire con la prontezza e l’agilità dei suoi giovani anni. La mente sembrava staccata dalle gambe pesanti e dalle mani inerti, percorse da formiche affamate. Ma non voleva dire niente a sua madre. Aveva già abbastanza problemi e per sfamare lui e i suoi fratelli stava sveglia gran parte della notte a tessere le stoffe colorate da vendere al mercato del paese. Mise in bocca una di quelle foglie che gli annerivano i denti ma gli coloravano l’anima e masticandola lentamente cercò di ritrovare quella sensazione di straniamento e di sospensione che per secoli aveva permesso al suo popolo di sopravvivere alla fame al freddo alle malattie e impedito ai bambini di soccombere alla paura di vivere. Per un attimo gli sembrò che un sangue più caldo e forte gli nutrisse i muscoli e gli appannasse la vista nascondendogli la sporcizia e la miseria che aveva intorno, ma le gambe gli cedettero ugualmente quando caricò sulle spalle il gran sacco colorato. Tante volte aveva portato quel sacco camminando dietro sua madre da quando il padre era andato a cercare lavoro oltre le montagne e lui, che era il più grande, aveva capito che gli toccavano compiti nuovi. I semplici passatempi della sua infanzia, che usava come giochi i pezzi di legno che si trovavano sul terreno o le foglie fibrose e robuste delle palme, si erano trasformati, sotto il pungolo continuo della necessità, in mezzi di sostentamento. Le sue dita brune ed agili sapevano trovarvi dentro animali fantastici e divinità inquietanti. Le venature del legno sembravano riprodurre le grosse vene rossastre che si gonfiavano sotto la pelle degli animali feroci nel momento dell’attacco, mentre le fibre filamentose delle foglie, intrecciate fittamente, formavano un tessuto simile alla pelle scabra e squamosa dei serpenti e delle iguane che popolavano il sottobosco. Non riproduceva soltanto ciò che i suoi occhi vedevano, ma creava un mondo immaginario, tutto suo, con esseri alati dagli artigli primordiali e insetti mostruosi del colore della terra. Cominciava a credere di essere bravo, se i turisti svuotavano il suo banchetto senza tirare neanche sul prezzo. Se oggi fossero riusciti ad arrivare presto avrebbero potuto trovare un buon posto per stendere la tela e disporvi sopra le borse, gli scialli tessuti dalla madre e i nastri che da poco anche sua sorella aveva cominciato a fare. Avrebbero forse potuto comprare le scarpe per i suoi fratelli, necessarie per andare a scuola, dove i maestri non permettevano di entrare scalzi, anche se all’ingresso, stranamente, c’era un gran quadro con un uomo tutto biondo e vestito di bianco, anche lui a piedi nudi, e tutti gli si inchinavano davanti.
Quando i turisti lo vedevano con la testa e le spalle che quasi scomparivano sotto quel gran sacco ricamato con i colori del grano e del sole, dell’acqua e del fuoco, gli scattavano una sequela di foto fra gridolini e sorrisi, senza pensare un attimo a quanto pesassero quei colori.
Arrivati nella piazza già piena di voci e di rumori pensò per un attimo di non farcela a salire su per la scalinata fino alla chiesa tutta bianca nel sole. Ma non si poteva iniziare una giornata di lavoro senza fare un’offerta a quegli dei che incutevano paura più che ispirare fiducia. I volti inespressivi intagliati rozzamente nel legno sembravano trarre vita dalla massa di capelli veri che ne avvolgevano disordinatamente il capo e che sembravano continuare a crescere come avviene ai cadaveri. Erano lontani dagli uomini che si rivolgevano a loro attraverso rituali ben definiti, volti non tanto ad ottenere una protezione quanto ad allontanarne le minacce. Non erano amati, ma temuti, e questo bastava perché gli uomini fossero a loro sottomessi. Una volta l’anno veniva uno sciamano vestito di nero, che i bianchi chiamavano prete, a festeggiare la nascita di un bambino nudo e povero anche lui. Non si capiva cosa avesse di diverso dagli altri bambini del paese, perché meritasse onori particolari, ma forse per questo tutti avevano imparato ad amarlo come uno di loro. Che quel bambino sorridente fosse lo stesso uomo ferito e sanguinante che moriva inchiodato sulla croce non riuscivano a capirlo fino in fondo anche perché il cristo morto faceva paura e nel buio della chiesa i drappi viola stesi alle finestre facevano filtrare soltanto fasci di luce obliqua e polverosa. Quella croce, tanto simile alla loro come forma, era per quel prete simbolo di sofferenza e di sacrificio, mentre per gli indigeni la croce fiorita si levava trionfante dinanzi la chiesa come un inno alla vita.
Juan e sua madre non avevano granché da offrire, a stento un mango o una pannocchia di granoturco, sottratti al pasto quotidiano.
Al centro della chiesa il majordomo, eletto dal popolo per entrare in contatto con le divinità, accoccolato fra candele accese, bottigliette di coca cola offerte per il loro sacrale colore scuro, e galline nere vive legate e tremanti, salmodiava un canto tutto suo. La madre inginocchiandosi si unì a lui dondolando ritmicamente il busto con i pugni e gli occhi chiusi. Il suo canto, iniziato in un ritmo lento e cadenzato, incalzava insensibilmente culminando in un’unica nota acuta e lancinante che trascinò Juan lontano dal fumo e dalle fiammelle delle candele colorate, un colore per ogni dolore, bianco per la malattia, giallo per la fame, rosso per la paura. Le candele formavano un’isola di luce al centro della chiesa scura e spoglia, e il calore che da esse emanava rendeva ancora più pungente l’aroma forte e selvaggio degli aghi di pino che coprivano il pavimento con uno strato lucido e scivoloso. Il fumo dell’incenso che si spandeva greve ad altezza d’uomo si univa a quel sentore di foresta pungendo le narici e facendo lacrimare gli occhi. Negli angoli bui, fra quelli che sembravano mucchi di stracci ammucchiati per terra, spiccavano occhi neri e fondi come la notte, occhi di bambini che si nascondevano dietro le gonne delle madri, occhi che non sapevano piangere perché non sapevano nemmeno ciò che si poteva desiderare. Spesso per la strada le madri li coprivano con un cappuccio temendo che lo sguardo di un estraneo potesse rubare loro l’anima, l’unico bene che possedevano.
Juan si accovacciò anche lui in un angolo, cullato dalla nenia della madre, e piombò in una sorta di sopore benefico, scandito dai battiti del suo cuore. Ma ad un tratto quei battiti crebbero, si incupirono ed uscirono dal suo petto rimbombando sotto la volta e facendo vibrare le fiamme delle candele. Socchiudendo gli occhi Juan vide due scarponi militari che disegnavano impronte geometriche sulla sottile patina di cera, due lunghissime gambe e, sotto un cranio rasato ricoperto da una peluria biondissima, due occhi gelidi che vagavano sperduti nel buio. Ad un tratto quegli occhi incredibilmente azzurri incrociarono quelli neri di Juan, come se un ordine muto costringesse la strana creatura a cambiare direzione e a dirigersi come un automa verso il ragazzo, piegandosi sulle ginocchia per poterne cogliere lo sguardo. Capì che era femmina dall’odore che emanava, dallo sguardo che sapeva di vita, lo capì con l’intuito del bambino e dell’uomo, anche se non aveva mai visto nulla di simile.
Il ragazzino indio e la strana ragazza del nord comunicarono in una lingua che niente aveva di terreno. Lui la guardò e la vide. Vide la sua sofferenza, il suo passato, la sua mente confusa. Rivide con gli occhi dell’anima l’arrivo di lei nella piazza, in mezzo al gruppo di stranieri con cui aveva intrapreso un viaggio di vendetta e di paura, sola fra loro. Sola e confusa, non sapeva nemmeno dove si trovasse esattamente in quel momento, i nomi strani di quei paesi stranieri si somigliavano tutti, e poi non le importava, non era preparata al calore di questo sole che le bruciava la pelle indifesa, ai colori violenti, alle grida, agli aromi pungenti che le colpivano lo stomaco. Aveva bevuto molto la sera precedente e si trovò ad avanzare a tentoni ferendosi agli spigoli delle bancarelle ammassate, scostando dalla testa teli che le si aggrovigliavano addosso, tentando di liberarsi dai bambini che le correvano fra le gambe toccandola con le mani sporche. Perse il contatto con il gruppo, cominciò a girare a vuoto, un’arsura in gola le fece venire le lacrime agli occhi e scorgendo da lontano la sagoma di una chiesa bianca su un’altura le sembrò qualcosa di noto dove poter trovare un riparo. I gradini bianchi , alti e sbrecciati, rendevano penosa la salita sotto un sole cattivo, fra gente accovacciata e neonati addormentati nelle ceste. La penombra e la frescura dell’interno le calmarono i sensi sconvolti. Avanzò come in trance verso le luci tremolanti delle candele e le nenie incomprensibili, quando sentì sulla nuca la pressione di uno sguardo che la chiamava. Negli occhi neri che si trovò di fronte sentì una forza e una innocenza a cui comprese di doversi abbandonare. Juan le prese la mano, come per sincerarsi che fosse vera, stampando il nero ruvido delle sue dita sul bianco diafano di quelle di lei. Il contatto con la sua pelle acuì la capacità di Juan di vedere dentro di lei e gli procurò una fitta di dolore che non sapeva localizzare in nessuna parte del suo corpo. Ebbe la netta sensazione di una sofferenza antica e la certezza di doverla condurre fuori, lontano da lì, verso la fonte nascosta nel bosco, dove la luce violenta dell’estate veniva smorzata dalle chiome degli alberi e i rumori degli esseri umani attutiti dal tappeto di foglie. L’acqua corrente avrebbe calmato la sua sete, il suo fruscio avrebbe placato la sua ansia, la sua frescura le avrebbe disteso i muscoli indolenziti.
I due andarono senza che nessuno li notasse, senza rendersi conto del cammino percorso, senza vedere nulla al di fuori dei loro occhi, legati insieme come le loro mani. Il ritmo dissonante dei sandali di paglia e degli scarponi di cuoio segnava il loro passo che trovava un accordo strano ma armonico.
Arrivarono e Juan la immerse nella conca fresca e limpida, le bagnò le palpebre arrossate, le passò le palme umide sulla pelle nuda, e si distese accanto a lei.
Con gli occhi chiusi sotto il sole, fra i lampi azzurri e dorati della temporanea cecità, vide un cielo lontano e sconosciuto oscurato dal cemento, i bagliori del metallo alla luce gelida dei fari, il fumo avvelenato e fetido di una città, sentì su di sé, attraverso il corpo di lei, la violenza subita, il dolore, la paura, lo stomaco compresso dai conati di vomito, i muscoli che si rifiutavano di obbedire, la mente distrutta dal veleno. Nello sforzo di squarciare il suo corpo e la sua anima per accogliere dolorosamente l’altra perse il controllo di sé e si assopì in un lucido dormiveglia, consapevole dell’acqua che scivolando sui corpi formava misteriose figure evanescenti, del sole che forava le foglie mandando messaggi intermittenti ed incomprensibili, del vento che cantava melodie note e familiari. Come se l’acqua, scorrendo, avesse la capacità di permeare i loro corpi, di sciogliere il sangue e gli umori, di mescolarli e purificarli, vide con gli occhi della mente che i lineamenti di lei si distendevano, i muscoli della bocca si ammorbidivano in una linea di sorriso, le pupille dietro le palpebre chiuse non correvano più come rondini impazzite. Come se avesse consegnato a lui il dolore subìto e fosse ritornata innocente e incorrotta. Tutto scomparve intorno a loro, anche i pensieri, e rimasero solo i loro corpi nudi e innocenti, materia pura come l’acqua e la terra. Lentamente si girarono su un fianco cercandosi con gli occhi e stringendo le ginocchia con le mani intrecciate. Le due figure, una chiara e una scura, androgine, come se non fossero ancora mature per l’amore, erano come inscritte in un cerchio, alimentate ugualmente da un invisibile cordone ombelicale, sospese nel ventre amico della terra. La comunicazione avveniva tra loro in un mondo estraneo alle parole, privo di logica e di pensieri razionali, dove bastava il tocco delle dita per fondere sprazzi di immagini e di sensazioni, per mescolare in un’unica entità il loro patrimonio di esperienze vissute. Dormirono o volarono o si fusero alla terra, immemori del passato, ignari del domani, vivi solo nel momento magico della loro unione.
Una risata lacerante, un urlo animalesco in una lingua sconosciuta li colpì come un pugno in pieno petto. Incapaci di difendersi, di reagire, potevano solo aprire gli occhi, senza che le immagini giungessero al cervello con un qualsiasi significato. Circondati da mani malvagie, violente, da bocche spalancate in smorfie oscene, si guardarono intorno incapaci di comprendere cosa stesse accadendo. Era scomparso il bosco misericordioso e silente, era scomparsa l’acqua purificatrice e in un angolo buio della chiesa, dietro una colonna unta di sporcizia, degli sconosciuti li malmenavano senza che nessuno intervenisse.
I compagni di lei la cercavano da qualche tempo, non preoccupati, ma solo incuriositi ed avidi di male e di morte. La chiesa, violata da quel branco di stranieri incapaci di vedere, di capire, ammutolì spegnendosi nel buio. Le litanie, la luce tremolante delle candele, il canto salmodiante della madre sembravano appartenere ad una realtà che solo apparentemente era uguale a quella di poco prima. Non un attimo, ma un secolo era trascorso da quando i loro occhi e i loro corpi si erano incontrati.
La afferrarono con violenza, spingendola fuori verso il sole, sostenendola quando incespicava nei gradini sconnessi della chiesa, strattonandola quando tentava di girarsi indietro. Le dita che affondavano nella pelle candida delle braccia lasciavano segni infetti, rossastri.
Juan, spossato da una fatica che non sapeva di aver compiuto, tentò inutilmente di sollevarsi, ma il pavimento freddo lo attirò a sé con un alito di morte. Sollevando la testa una luce violenta colpì i suoi occhi ormai assuefatti alla penombra e scorse la sagoma di lei, scura sull’oro della porta, ferma nel riquadro dell’apertura. Lentamente, molto lentamente, senza sforzo, si liberava dalle braccia che la trattenevano e si volgeva, maestosa, verso di lui. Qualcosa nel volto della bionda creatura era cambiato, qualcosa che, Juan lo sentì subito, come un pugno nello stomaco, apparteneva a lui. Premette le mani sulle palpebre e un dolore lancinante, di ferita, lo colpì. Non erano più i suoi occhi, non gli appartenevano più, li aveva donati a lei perché da quel momento potesse guardare la vita con la semplicità e l’innocenza di un ragazzo. Nuovo e innocente, lo sguardo nero e fondo di lei incontrò per l’ultima volta due occhi azzurrissimi, luminosi sulla pelle scura, che ormai potevano vedere solo il vuoto, e su cui rimase impressa per sempre una sagoma bianca sullo sfondo scuro della porta.