I brevissimi 2021. Il bianco che mi resta, Alberto Albanese_Messina
Anno 2021 (Bianco)
Sto lat, sto lat, niech zyja zyja nam,
sto lat, sto lat, niech zyja zyja nam.
Jeszcze ras, jeszcze vras, niech zyja zyja nam,
niech zyja nam!
Cucio parole con un filo di voce. Non è la canzoncina più adatta a fare la nanna, ma a Vitold piace e ho bisogno che dorma velocemente, anche se so bene che forse è l’ultima volta che ho il privilegio infinito di cullare mio figlio di pochi mesi appena. Karol dorme già, non è stata la canzoncina a farli addormentare, ma le gocce di non so che intruglio, spero non dannoso, versato con molta abbondanza nel poco latte. Non do neanche un bacio, non accarezzo la guancetta morbida mentre adagio Vitold sopra una copertina sul fondo della borsa di cuoio logora, potrei scoppiare a piangere e non trovare più il coraggio. Stessa cosa con Karol, il mio amore grande, il mio giovane uomo di appena due anni. Un momento ancora davanti allo specchio: provo a sorridere e lo specchio mi rimanda l’immagine di una giovane donna che in altri momenti molti hanno definito bella, con pelle candida, denti perfetti, ed un volo di capelli biondi e ali di ciglia sul mare azzurro degli occhi. Un mare freddo, il Baltico. Ma adesso mi sento bruciare addosso tutti gli anni del mondo, la testa confusa tra alcuni dubbi, infinite paure e nessuna certezza. Non doveva andare così, poteva essere semplice la felicità: Piotr, io, i nostri bei bambini, da guardare crescere come miracolosi papaveri rossi sotto il poco sole della nostra terra. L’immagine si appanna, maledette lacrime! Mi pettino a memoria, una coda attorcigliata, fermata in uno chignon. Metto lo scialle, guardo i bambini pesantemente addormentati, non si sente quasi il respiro. Tremo. Chiudo le due borse, l’aria entrerà dai buchi e dagli strappi. Adam e Lucja, i miei amici da sempre, sono pronti, andremo via insieme. Ora che Piotr non può più aiutarmi, sono loro a sostenermi. Adam prende delicatamente le borse con i bambini, corriamo verso la stazione, qualsiasi posto, se riusciremo ad arrivarci, sarà migliore di questo. È diventata sempre più buia la città, le strade odorano della pioggia degli ultimi giorni di questo autunno del 1939. Un angolo di treno fumoso, un angolo di cigolante speranza in fuga. Vorrei aprire le borse, prendere in braccio i bambini, vedere come stanno, cullarli, ma gli sguardi di Lucja e Adam mi frenano. Bisogna far finta di niente, solo pregare in silenzio che le ore passino e nulla succeda, che i chilometri scivolino lungo i binari. La prima, la seconda, la terza fermata, una stazione dopo l’altra, gente nervosa che sale, occhi incerti che scrutano, fili di luce dai finestrini. Ho contato ogni secondo di questa notte senza quasi respirare; la paura fa percepire tutto con i sensi acuiti, con i nervi tesi come corde di violino che stridono sotto l’archetto di un violinista talentuoso e matto. Il rumore sordo degli scambi del treno entra nei miei pensieri, si incontrano e fondono, non li differenzio più. Altra fermata, stavolta purtroppo sono loro: salgono. Non so quanti siano, non ho il coraggio di alzare lo sguardo, vedo solo gli stivali, sento le parole dure e minacciose di chi non parla, ma ordina. Obbligano alcuni a scendere, picchiano altri, prendono a calci i bagagli. Tento di sollevare la testa in cerca delle mie preziose borse, ma la paura è più veloce. La vista mi si appanna, suoni e rumori si fanno lontani, mi manca il respiro, la gola si stringe, una vertigine ingoia tutto; l’ultima sensazione è quella di un braccio che mi sostiene.
Credo che il cuore mi si sia fermato, anzi si è fermato di sicuro. Batteva come un tamburo nello stomaco e poi di colpo si è spento. Intorno a me il nulla. Galleggio sospesa nel tempo immobile. Quando riapro gli occhi, un attimo o pochi giorni dopo, sono in un letto con le lenzuola pulite. Vitold è in braccio a Lucja, Adam è sulla porta, Karol sul letto accanto a me, mi accarezza i capelli sciolti e lunghi. Sono bianchi. Tutti bianchi in poche ore. Il bianco che mi resta.