Bugie pietose, Celia de Aldama_Madrid
Racconto vincitore Premio Energheia Spagna 2022
Traduzione a cura di Laura Durando
Irrompesti nella nostra vita un pomeriggio chiaro e ventoso come questo. Io tornavo da scuola avvolta nella mia giacca a vento azzurra, con la cartella piena di libri appesa alla spalla, e tu aspettavi davanti al portone con una valigia grigia ai piedi. O almeno è così che me lo ricordo adesso. Non ti prestai attenzione finché non ti chinasti alla mia altezza di bambina di undici anni per chiedermi con un filo di voce: “Ciao, Carmencita, sai chi sono?”. Ti guardai di sfuggita tra indifferenza e diffidenza, sbrigandomi a tirar fuori le chiavi dalla tasca. No, non avevo la più pallida idea di chi fossi. Ciò che sapevo per certo era quel che non dovevo fare per nulla al mondo; a noi bambine era rigorosamente proibito parlare con gli estranei, specialmente se ci abbordavano per strada ed eravamo da sole.
“Sono Curro, tuo nonno” dicesti con calma, ma senza guardarmi negli occhi.
Sebbene grazie alla delicatezza dei gesti non sembrassi l’uomo nero, intuivo che non dovevo fidarmi delle apparenze, così rimasi in silenzio, obbediente. Forse, mentre giravo con impazienza e invano la chiave nella serratura pensavo alla nonna Evelina, che atterrava a Madrid ogni mese di giugno puntuale e spumeggiante; quando finiva la scuola, noi nipotini aspettavamo con ansia il ritorno della nonna perché con lei arrivavano i pici al ragù, la briscola e le parole nuove della sua lingua canterina. Diamine, perdinci e bubbolare erano le mie preferite. Siccome di anno in anno diventava più bassina e pienotta, papà la chiamava gnocchetta – per la somiglianza con quelle palline di patata che preparava in cucina da noi – e le sue risate rimbombavano allegramente per tutta la casa. La nonna Evelina non assomigliava per niente a te, che eri alto e magro, avevi una voce grave e parlavi castigliano. Allora, dopo aver scartato qualunque possibile parentela tra voi e senza darti l’opportunità di aggiungere altra parola, girai la chiave con forza, spinsi l’inferriata e riuscii a lasciarmela alle spalle svignandomela come una lucertola nel suo nascondiglio. “Mi hai sbattuto la porta in faccia, Carmencita”, mi avresti rimproverata tra il serio e il faceto molti anni dopo.
Dopo un po’, delle avvisaglie di passi sul pianerottolo. Io affacciata dalla fessura della mia stanza socchiusa: la testa inclinata, il corpo in tensione, lo stomaco in un nodo. Eravate lì tutti e tre; mamma con una sigaretta spenta in bocca, papà con la sua solita aria assorta e tu – mio nonno? – con gli occhi inchiodati a terra e le mani incrociate dietro la schiena. Stavate in silenzio. Il ricordo disegna quel silenzio come una corda in tensione, scorticata e sul punto di spezzarsi. Senza nemmeno passare per la mia stanza, vi dirigeste in salone e chiudeste la porta dietro di voi. Di colpo, sentii il caldo sulla nuca e la rabbia avvolgermi tutto il corpo. Sempre la stessa storia: inclusa o esclusa da ciò che succedeva attorno a me in funzione di un criterio che cadeva da molto in alto fino a schiacciarmi con il suo peso insopportabile. Ero abbastanza grande da studiare e fare i compiti da sola, abbastanza grande da apparecchiare la tavola e mettere in ordine la camera, abbastanza grande per prendermi cura dei cugini quando papà e mamma uscivano la sera, ma troppo piccola per scoprire ciò che tramavano gli adulti.
In punta di piedi, camminai fino alla stanza contigua e mi appoggiai su un fianco alla parete: un freddo solletichio dentro l’orecchio, alcune singole parole, frasi che distinguevo solo a metà per quanto schiacciassi la testa contro il muro rugoso. A casa no, impossibile, non può essere, ripeteva mamma; capisco figlia mia, cercherò qualcosa, non ti preoccupare, rispondevi tu a voce bassa. E nel frattempo, rendendo difficile l’ascolto, papà che si schiariva la gola, una specie di tic gutturale con cui sottoscriveva ogni ramanzina famigliare. Molti anni dopo, lo schema avrebbe continuato ad essere lo stesso: le strigliate di mamma accompagnate dalla sinfonia flemmatica di mio padre. Dopo un bel po’, tornaste al silenzio; era il momento di scivolare fino alla mia camera e porre fine allo spionaggio. Da un momento all’altro, le regole di casa arano andate gambe all’aria; se mamma era tua figlia, perché ti sgridava? E su eri mio nonno e non eri morto, perché nessuno finora mi aveva parlato di te? A quei tempi, avevo già imparato a riconoscere i segnali color giallo fluorescente che lampeggiavano negli occhi di papà quando qualcuno si avvicinava troppo ad un argomento spinoso. A casa mia, la morte era uno di quelli, forse il più intoccabile. Bisogna lasciarli tranquilli i defunti perché possano riposare in pace. Io non capivo cosa c’entrava la pace in tutto ciò, ma ero una bambina parecchio obbediente e me ne stavo zitta. Non lo chiesi mai apertamente, ma per anni fui convinta che eri morto e che, pertanto, non dovevo nominarti né in casa né fuori. Quella notte, papà entrò in camera mia e con lo sguardo schivo mi raccontò che eri appena tornato da un lungo viaggio in Oriente e che saresti rimasto per un periodo con noi. Fu tutto. Non ci fu spazio per le domande dopo il suo esotico e scarno racconto. Avrei dovuto attendere molti anni per capire che quella fu la prima delle tante volte in cui mi spaccai la testa contro il muro altissimo, scuro e impenetrabile che separava i due universi. Quello degli adulti. E quello dei bambini.
La mattina dopo, al mio risveglio, ti trovai a far colazione in cucina. Immergevi un pezzo di pane raffermo cosparso d’olio in un bicchiere di latte mentre davi un’occhiata al giornale, sfogliando le pagine partendo dal fondo. Devono essermi sembrate entrambe idee nefaste. Ti chiesi se si trattava di una colazione orientale, mi guardasti un po’ sorpreso e tornasti a concentrarti sulle tue immersioni. Da un giorno all’altro, e senza che la mia opinione meritasse alcuna attenzione, passammo da essere tre a essere quattro. Quattro piatti a tavola, quattro spazzolini da denti, quattro paia di pantofole, quattro mazzi di chiavi. Quattro corpi maldestri dentro una casa minuscola. Ti sistemasti nella stanza sul retro tra un mucchio di cianfrusaglie che impilasti man mano in un angolo. Con il tempo, papà ti aprì un varco nel suo armadio, ti mise a posto il comodino e – sicuramente all’insaputa di mamma – mise da parte la tua valigia nel ripostiglio. I dieci giorni divennero dieci anni durante i quali i miei privilegi di nipote aumentarono notevolmente. Da un giorno all’altro, passai da avere un nonno ad averne due, una versione estiva e un’altra invernale. Poco prima della visita annuale della nonna, prendevi i tuoi scarsi effetti personali per sparire di soppiatto finché il caldo non scemava e lasciava posto all’autunno. Quando qualcuno mi chiedeva com’erano i miei nonni, ero solita rispondere stagionali. Quegli anni con noi non ti bastarono per ricucire i rapporti con la nonna che continuava ad arrivare con la puntualità dell’estate e con una sola ma innegoziabile condizione: non incontrare te. Nonostante il fuoco incrociato, tu ed io andammo d’accordo. Con il tempo, nacque un’inaspettata forma di complicità, modellata in quegli intervalli di tempo in cui papà e mamma ci lasciavano da soli e facevamo della loro casa il nostro regno.
“Carmencita, smetti di studiare e vieni qui a parlare col nonno”.
“Bimba, copriti che andiamo a fare una passeggiata. Bisogna comprare dei gerani per il balcone. I tuoi lo tengono da schifo”.
“Bimba, ti va della cioccolata per merenda? E un pomeriggio di carboncini e acquerelli?”.
Ogni tanto, comparivi in camera mia con delle fotografie tra le mani. Ti sedevi sul bordo del letto, accendevi la lampada e le estraevi una ad una dal fitto mazzo. Con il braccio in tensione le muovevi per aria dall’alto in basso, da sinistra a destra, e sistemandole ad altezze diverse, stringevi gli occhi e cercavi di mettere a fuoco le ombre che si delineavano sulla carta. Tra quelle sagome in bianco e nero apparivano diverse versioni di te. Te appena nato con i tuoi genitori, te mano nella mano con la balia che ti allattò, te in mezzo a sette fratelli, te sulla riva di una spiaggia abbracciato a un calamaro gigante, te con un’uniforme da soldato, te con i tuoi pennelli sotto una tenda militare, te e la nonna appena sposati, te e la nonna in una decapottabile, mamma in una culla avvolta da nastri rosa, voi tre insieme alla torre di Pisa. Te, di nuovo, circondato da uomini che fumavano, te con un completo di lino a La Havana, te che scendi le scale di un aereo ad elica. Te ad Amburgo. Te a Roma. Te a Parigi. “La nonna veniva con te in tutti questi viaggi?” ti chiesi una volta. “No, non veniva” mi rispondesti serio.
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Perché nonno?
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Erano altri tempi, prima le cose erano diverse.
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Diverse come?
Spesso ricordo l’interminabile e bianco silenzio che aprivano in te le mie domande. Allora, la curiosità mi trascinava – sì, devo ammettere che lo feci più di una volta – fino alla cartella sul tuo comodino dove tenevi da parte un altro mazzetto di foto. Ficcanasare tra le tue cose produceva in me un piacere colpevole. A sedici anni non ero più una bambina obbediente e ingenua ma un’adolescente disposta a trasgredire tutte le norme. Durante quelle incursioni, il cuore mi batteva così veloce e con tanta forza che sembrava aumentare di dimensioni, arrampicarmisi su per la gola e affacciarsi con i suoi ventricoli alla bocca. Con le mani tremanti scorrevo una ad una quelle fotografie a colori dove si perdevano i volti della mamma e della nonna. Al loro posto, c’era sempre lo stesso uomo alto, dai lineamenti fini e con i baffi ben rifiniti. Quando chiesi alla mamma di lui, abbassò lo sguardo e mi rispose che non ne aveva la più pallida idea, che doveva trattarsi di un buon amico di Curro. Le sue parole, certo, non dovettero suonare molto convincenti perché da allora cessarono le mie domande e, con loro, tutto il lavoro investigativo in camera tua.
Pochi anni dopo, te ne andasti. A papà e mamma non restò altra alternativa che seppellirti qui, insieme alla nonna. Sì, lo so, forse non è stata la migliore delle idee, ma nell’aldilà i prezzi devono essere alle stelle. Mi viene da ridere a pensare all’urlo della povera nonna sentendo la terra agitarsi sotto i colpi sordi della pala, nel vederti scendere curvo e vecchio verso quelle profondità. Quando vengo in visita vi immagino lì sotto, spalla a spalla, le ginocchia piegate e il muso lungo. Due corpi senza via di fuga. Talvolta, e con l’intenzione di aiutarvi a sotterrare l’ascia di guerra, vi porto dei fiori – margherite per Evelina e garofani per te – e nel lasciarli sulla lapide approfitto per chinarmi fino a poggiare l’orecchio sulla pietra fredda. Quando il vento cessa, riesco a distinguere alcuni dei vostri mormorii e, a volte, anche qualche ostinata bugia pietosa.