Le parole dei giurati

Un Premio letterario occasione che alimenta un fuoco sopito, Marco Cassini

Giuria ventisettesima edizione_2021

Premio letterario Energheia

Erano passati diversi anni da quando avevo ricevuto da Felice Lisanti il primo invito a partecipare al festival e alla giuria del concorso letterario Energheia, che da un trentennio ormai organizza con grande entusiasmo e successo a Matera.

Un giorno, credo risalga a una mezza dozzina d’anni fa, ero entrato nella libreria All’arco, nella sua vecchia posizione (prima cioè che ai talenti narrativi subentrassero gaudenti aperitivi) e con mia sorpresa ci avevo trovato una situazione che sembrava presa da un film neorealista, talmente realista che più di un produttore avrebbe suggerito di tagliare la scena perché troppo poco verosimile, ossia troppo poco realistica: un circolo di sedie in libreria e tre persone intente a parlare di libri, di politica locale, di arte. Mi attardai più del dovuto, sia per origliare la conversazione sia per il piacere irrinunciabile di uscire dalla libreria non tanto con un libro che avevo già in mente di comprare quanto con uno che non sapevo ancora di voler leggere. Mi ero già lasciato convincere da un’edizione Laterza che riunisce L’uva puttanella e Contadini del Sud – titoli con cui avevo almeno una certa familiarità – quando, credo senza nemmeno bisogno di una mia richiesta in merito, il libraio, che in seguito avrei scoperto rispondere al nome di Nicola Tamburrino, mi propose un altro, meno recente libro di Rocco Scotellaro il cui titolo ha il pregio di poter sempre essere, per me e, ritengo, per chiunque, profetico: Uno si distrae al bivio, uscito, questo, con prefazione di Carlo Levi, e pubblicato da Basilicata editrice (esisterà ancora?) nel 1974, per celebrare i vent’anni della prematura morte del local hero letterario il quale – nelle parole dell’autore del dittico costituito da Cristo si è fermato a Eboli e Lucania 61 – da quella morte però «rimane intatto, e più preciso, nella memoria e nell’amore di chi l’ha conosciuto».

Ebbene quel pomeriggio mi attardai, perché mi piaceva sentir parlare, dentro una libreria per giunta, di cultura. Un vocabolo così abusato, certamente anche da me, da perdere quasi sempre la sua presa sul reale, mentre lì – complice forse l’aleggiante spirito scotellariano – sembrava assai vivo. Inevitabilmente, iniziammo a conversare: dissi che ero lì per il Women’s Fiction Festival e per incontrare Paolo Verri che si stava occupando allora di mettere insieme il dossier per la candidatura di Matera a Capitale Europea della Cultura 2019.

Raccontai la mia deplorevole disavventura ferroviaria – che si sarebbe sorprendentemente conclusa, al termine del mio soggiorno materano, con un inatteso lieto fine – di aver dimenticato sulla retina dei bagagli (il ricordo della retina è vero o indotto dal contesto di ipotizzata, preconcetta atavica arretratezza meridionale, da parte, per giunta, di un meridionale?) del mio vagone delle mitiche FAL (acronimo piuttosto in voga che purtroppo lascia nascosto uno dei toponomastici più soddisfacenti per appassionati meridionalisti e non, ossia Ferrovie Appulo-Lucane) un prezioso involto contenente tre caciocavalli podolici: uno da recare in dono a Verri, uno per me, e uno acquistato con quell’indomabile spirito da caffè sospeso che mi fa comprare sempre uno in più di qualsiasi prodotto alimentare con forte connotazione locale, specie se di origine controllata e/o protetta, da portare con un certo grado di casuale pretenziosità e di malcelato compiacimento alla prima cena utile.

Mi attardai, ricordo, anche a condividere con quel consesso di intellettuali sciasciani la sorpresa testé sperimentata – ero arrivato in treno, appena più di un’ora prima, e mi ero trattenuto in stazione soltanto per implorare il capostazione di fare tutto quanto fosse in suo potere, e credo di aver doviziosamente calcato, in una captatio chissà innecessaria, sul prefisso del nome composto che sta a indicare il suo ruolo nella gerarchia ferroviaria, al fine di recuperare quel tesoro sbadatamente e forse irrimediabilmente smarrito – di veder dedicata la prima via che si presenta ai viaggiatori a un altro encomiabile, non a caso insignito del meritato titolo onorifico, eroe locale ancorché dei due mondi, quel Cavalier Pasquale Vena, che insieme ai figli costituisce un nome mitico per la mia famiglia, evocato ogni qual volta, a casa o al ristorante, si arriva alla fatidica domanda: «un amaro?» (domanda che, di forma quasi meccanica, fa scattare in me una delle tre possibili reazioni calembouristiche, che cerco di alternare in base al consesso e ai commensali: «un amaro lava l’altro»; «ce l’avete l’Amaro Calice?» – brand che, da ormai oltre un quarto di secolo, con Giordano Meacci ci ripromettiamo di brevettare – o la più rischiosa, perché non tutti sono anagraficamente adatti a cogliere la citazione agé, ma verosimilmente la mia preferita: «Amaro significa non dover mai dire limoncello»).

Ebbene tutta questa mise en scene ad altro non serve che a creare un contesto, un antefatto, rispetto al fatto di cui qui debbo dare notizia. Fui edotto seduta stante (perché come sarà facile immaginare di lì a poco fui invitato a occupare la quarta sedia prontamente apparsa da chissà dove) sulla storia del Premio Energheia, e venni invitato, quell’anno e ripetutamente negli anni a seguire, a farne parte nella veste di giurato, ma la sorteria avrebbe tramato acciocché in tutte le estati successive il calendario venisse a creare una irrisolubile sovrapposizione fra la mia auspicata presenza a Matera e la mia necessaria partecipazione al concomitante Festivaletteratura di Mantova, volta a volta accompagnando questa o quella autrice, questo o quell’autore, del catalogo della mia casa editrice SUR. Nell’estate del 2021 però, complice la necessità di far svolgere online gli eventi che avrebbero visto protagoniste due autrici invitate a Mantova, e rendendosi dunque prescindibile la mia presenza fisica nella città che genuit Virgilio, finalmente potei accettare l’ormai vetusto invito di Felice.

Il resto è storia, ma preferirei dire storiella, aneddoto. Fui raggiunto da un messaggio di Maurizio Bettelli, il quale mi informava che avremmo potuto approfittare del premio Energheia per una insperata reunion materana del nostro duo letterario-musical- cazzeggistico (io fornisco un contributo in special modo nella terza parte), che si era esibito – e qui la sorte non può che definirsi fausta – solo una volta, esattamente vent’anni prima, a Modena. E lui e io abbiamo condiviso anche l’onere e l’onore, insieme al resto della giuria, di leggere i testi partecipanti al concorso, sceglierne con le solite difficoltà e patemi alcuni considerati per una ragione o per l’altra più meritevoli di attenzione, che sono poi quelli che qui, nelle pagine successive, vedrete raccolti. Credo che inconsciamente i patemi e le indecisioni venissero alimentati in particolar modo dalla circostanza che le riunioni della giuria si svolgevano al bar, e attardarsi a suon di aglianico non era poi così deplorevole.

A chi ha scritto questi testi va l’augurio di un proseguimento nel percorso di scrittura. A volte un premio come questo può essere la scintilla, l’occasione che alimenti un fuoco sopito, o non ancora del tutto acceso, e aiuti a tener viva la fiamma. Lo auspico per chi riuscirà, grazie a Energheia, a restituire anche ulteriore significato alla forza propulsiva che il nome di questo encomiabile premio vuole sprigionare.

Epilogo della storia dei caciocavalli.

Il capostazione prontamente telefonò al suo omologo nella stazione di Bari, si consultò con lui, si dissero delle cose dialettali che non fui del tutto certo di comprendere appieno, ma che sembravano offrire una considerevole dose di speranza per il recupero dei caciocavalli perduti. Mi disse che di treno ce n’era uno solo, che faceva la spola tra Bari e Matera, quello che custodiva nel suo cuore di metallo e ingranaggi il mio tesoretto caseario era l’ultimo per la giornata, ma l’indomani avrebbe percorso il tragitto inverso. Mi sciorinò l’orario ferroviario, dandomi appuntamento lì nel suo ufficio per il giorno successivo all’arrivo del prezioso convoglio.

Arrivai con una modica quantità di ansia, quasi fossi uno dei figli del non-ancora-cavaliere Avena giunto ad accogliere Pasquale al suo rientro in Lucania dopo essere partito alla volta dell’America e fermatosi ben prima di Ellis Island, per paura d’una futura nostalgia, ma pur sempre emigrato nella perigliosa capitale d’un regno remoto, Napoli. Vidi l’involto passare di mano in mano, riconoscibile dal suo sacchetto azzurro, intonso. Il capostazione me lo passò con l’orgoglio di un pompiere che ha appena salvato un bambino dall’incendo e lo trasferisce cauto nelle mani accoglienti di una madre grata e tremebonda. In quel momento non ebbi dubbi sul da farsi.

Avrei avuto una cena in meno in cui vantarmi della prelibatezza esotica recata in dono, ma fu giusto premiare il solerte dipendente delle FAL con il podolico sospeso. Lui disse “Se incontro Paolo Verri non gli dico niente”, e fece il gesto delle labbra serrate da un’invisbile zip.

Perché si sa che a caciocaval donato…