L'angolo dello scrittore

La festa della Madonna della Bruna e le trasformazioni della città di Matera negli ultimi cinquant’anni, Leonardo Cotrufo

La città del tufo e della pietra che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso era concentrata tra i Sassi
e in una porzione del Piano[1], oggi è la città che ha bisogno di un viaggio di più di trenta minuti in
automobile per essere attraversata da nord a sud lungo il costone occidentale del torrente Gravina.
L’economia agro-pastorale con caratteri di latifondo attenuati rispetto ad aree vicine, come ad esempio quelle dell’Alta Murgia barese, si è modificata attraverso un processo di trasformazione legato sia alla
meccanizzazione dell’agricoltura, sia alla nuova vocazione di centro amministrativo che la città ha assunto.

Il momento centrale per comprendere i cambiamenti succedutisi negli ultimi decenni, è l’esodo dai rioni Sassi, in seguito ai provvedimenti legislativi dei primi anni Cinquanta. Tali provvedimenti nascono in quel clima suscitato in primo luogo dal Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, ma anche in seguito alla ricerca svoltanel 1949 dall’antropologo dell’università dell’Arkansas, Frederick G. Friedman. A indirizzarlo era stato Adriano Olivetti, presidente dell’INU[2] e vice presidente dell’UNRRA-Casas[3], punto di riferimento della cultura progressista.


La costruzione dei nuovi quartieri popolari che accolsero gli abitanti dei Sassi, o i deportati, come li
definisce l’architetto Tommaso Giura Longo[4] , a cominciare dal borgo rurale La Martella, costruito in
campagna per accogliere i contadini coltivatori sottratti al latifondo in base a una parziale legge di riforma agraria, mise in moto un processo di decentramento che continuerà nei decenni successivi. Questo processo è attivo ancora oggi, favorito anche dalla morfologia del territorio che obbliga a uno sviluppo urbanistico essenzialmente nella direttrice nord-sud. A partire dagli anni Sessanta intanto, una volta entrato in crisi il vecchio assetto produttivo legato alla prevalenza dell’agricoltura, si tarda a trovare un orientamento preciso per lo sviluppo della città, alimentando una terziarizzazione figlia di un assistenzialismo che porta crescita senza sviluppo. In quegli anni, ha però inizio anche una parziale riflessione collettiva circa i caratteri della propria identità culturale in relazione a una possibile trasformazione produttiva della comunità. Subentra, seppur faticosamente, un’opinione diversa, legata al lavoro, alla produzione, alla cultura materiale[5]. Al mito della città-progresso che doveva far dimenticare la città troglodita, viene contrapposto il desiderio di una città alternativa che vede nei Sassi non più solo la testimonianza fossile di un passato atroce, ma un luogo di riuso e di riappropriazione consapevole. Al veloce decentramento urbanistico e al rischio di una città senza legami con il suo passato, seppure doloroso, si risponde faticosamente ricollegandosi operativamente e simbolicamente al suo nucleo storico centrale, cercando faticosamente un’identità nuova. Nel contesto dell’idea di città alternativa si inserisce a Matera, negli anni Settanta, anche l’eco più generale di un revival nazionale delle tradizioni popolari che porta a indagare e osservare anche le feste, considerate soprattutto come veicolo di trasmissione di una cultura, di una storia. L’interesse è rivolto in particolare a quelle feste che meglio si prestano a un uso di “folklorizzazione”, se non di spettacolarizzazione. L’attenzione posta anche dai media verso la festa della Bruna, oggettivamente una festa di per sé spettacolare, nemmeno sfiora, infatti, altre feste, non ultima quella dell’altro patrono della città, Sant’Eustachio, oramai residuale dal punto
di vista della partecipazione.

Quest’ultima sembra risentire insieme ad altre, di una carica simbolica più arcaica, riflesso di un legame stretto con un contesto socioeconomico e culturale assai mutato negli ultimi decenni. Il declino considerevole dei culti e dei riti agrari, prevalentemente caratterizzati dalla riproduzione della società contadina e incorporati in uno specifico modello economico e di valori, non ha influito invece sul seguito, l’attesa e la mobilitazione intorno alla festa della Bruna. Questa infatti ha avuto fino a tutto l’800 un’importanza relativamente minore rispetto alla festa di Sant’Eustachio, un Santo guerriero, “specializzato” nella protezione dalle guerre e dalle carestie che in una società dalle precarie condizioni di esistenza, come quella contadina tradizionale, costituiva probabilmente uno strumento più efficace di stabilità nella interpretazione di un mondo colmo di rischi rispetto alle concrete possibilità di vita. Oltre l’intrinseca spettacolarità rituale di cui la festa della Bruna è indubbiamente portatrice, grazie anche alla maggiore articolazione del racconto mitico che ne è alla base, questa sembra possedere, in rapporto ad altre, un legame più labile con simboli e significati relativi alla protezione contro i nemici esterni, contro le guerre e contro la precarietà legata al lavoro dei campi. Forse proprio questa minore e paradossale caratterizzazione in senso apotropaico della Madonna, insieme a un apparato festivo molto articolato dal punto di vista scenografico, ha naturalmente favorito il consolidarsi della festa della Bruna come luogo di pratiche identitarie plurali e meno rigide in confronto ad altri contesti festivi. Da non trascurare è anche la maggiore presenza di spazi che nella festa della Bruna si aprono dal punto di vista dei processi di scambio e in cui trovano ruolo diversi attori sociali: intellettuali, politici, associazioni. Sono questi i soggetti in grado di dare supporto ideologico a strategie identitarie e a interessi locali. Una comunità con tradizioni ben elaborate e comunicate, inoltre, è meglio in grado di attrarre risorse, a partire da quelle turistiche, e di presentare ai centri di potere esterni un’immagine, un marchio, che avvantaggia l’attività produttiva e anche l’iniziativa culturale locale.

La festa contadina nella società complessa contemporanea, già a partire dagli anni Settanta, non è più il ripetersi della tradizione ma l’esito della modernità che si caratterizza con la crescente dialettica dei suoi attori con l’esterno e che modifica le interpretazioni del rito per piegarle a nuovi significati più consoni a un universo comunitario sempre meno ristretto. [6] Un processo in cui prendono corpo rivendicazioni di identità locali e politiche del patrimonio in funzione di negoziazione con i livelli amministrativi a cui si è subordinati e da cui si tenta di intercettare risorse economiche. La festa della Bruna è conosciuta all’esterno della città anche come una cerimonia in costume, e questo nel contesto italiano caratterizzato da un crescente proliferare di cerimonie a carattere di ricostruzione storica “reinventata” in abiti “tradizionali”, ne accresce il valore di marketing turistico in una collocazione calendariale peraltro molto felice, all’inizio dell’estate, che le permette l’afflusso sempre più numeroso di forestieri e di stranieri. A significati che riportano, sul piano locale, a esigenze di risocializzazione di alcuni gruppi, si aggiungono quindi ragioni “più contemporanee” spiegate con il protagonismo politico-economico di elite che si propongono, almeno ufficialmente, la promozione culturale ed economica della città. Un tempo collocata nel tradizionale concatenarsi dei riti legati al susseguirsi delle stagioni agrarie, la festa della Madonna della Bruna è oggi uno degli “oggetti” utilizzati nella retorica del discorso sulle ricchezze tradizionali locali da valorizzare, come da decenni si fa per i rioni Sassi.

Il suo fascino, che è naturalmente connesso a quello drammatico dei vecchi quartieri contadini, al loro
sviluppo storico e alle stratificazioni sociali che seppur lentamente vi hanno preso corpo nei secoli, è anche però il presupposto su cui si fondano posizioni nostalgiche che assumono la cultura locale come un mito fuori dalla continuità storica che invece ne è alla base. Un bene culturale immateriale come una festa, può essere manipolato alla stessa stregua di un bene tangibile dal punto di vista materiale. È auspicabile che la festa della Bruna venga sottratta a dubbie operazioni di “patrimonializzazione” giustificate da una generica esigenza di “sviluppo locale”, sinonimo normalmente di solo sviluppo economico che al minimo richiede di “oggettivizzare” il più possibile il prodotto da mettere sul mercato così come avvenuto per gli storici quartieri dei Sassi. Il rischio è che come l’inclusione dei Sassi di Matera nella “World Heritage List” dell’UNESCO avvenuta nel 1992, abbia prodotto, oltre che alcuni pur indubbi benefici, anche una dinamica di valorizzazione essenzialmente legata al consumo di un prodotto, anche la promozione della ricorrenza del 2 luglio alimenti un’immagine della festa fuori da ogni tempo, in funzione di un uso che, nella nostra società di mercato, consiste nella riduzione di natura, denaro, lavoro e cultura, a merce[7].

Note

[1] La città costruita fuori dalle antiche mura della Civita.
[2] Istituto Nazionale Urbanistica.
[3] United Nations Relief and Rehabilitation Administration-Comitato Amministrativo Soccorso ai Senzatetto.
[4] d’A Rivista Italiana d’Architettura, N. 1 / Inserto Sperimentale, anno 1999, p. 12.
[5] Cfr. R. Giura Longo, Breve storia della città di Matera, Matera, BMG, 1981, p. 156.
[6] Cfr. G.L. Bravo, Festa contadina e società complessa cit.
[7] Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974.