Biglietto, prego, Nikolaj Horvat_Murska Sobota
Menzione Premio Energheia Slovenia 2022
Traduzione a cura di Marco Jakovljević (Università degli Studi di Padova)
“Sciù! Sciù!”
Quando la guardo negli occhi mi sembra che tra noi due ci sia tutto un infinito a scorrere. Il suo sorriso è così innocente che potrebbe semplicemente volare in aria e non cadermi più in braccio. Si fonderebbe con il cielo e sostituirebbe il sole.
“’Ncola, sciù!” grida impertinente e delle signore annuiscono e mi sorridono come per dirmi che sto facendo la cosa giusta. Sorride di nuovo con gioia e mi cade in braccio come una goccia che cade in acqua. La stringo forte a me e la cullo, mi si spalanca il cuore e non smetto di sorridere nemmeno quando la tengo davanti a me tendendo le mani mentre la guardo profondamente negli occhi.
“Oh, piccola Mia,” dico piano, come se parlassi a me stesso, mentre lei in silenzio mi mangia con gli occhi tondi di sua madre. Vedo che è felice. “Ti manca ancora un mese per compiere un anno e sei già una birbante, come se stessi già finendo l’asilo.” Mi fissa ancora, ma vedo che non può più fare a meno di sorridere. Inclina leggermente la testa all’indietro e piega il collo, trilla contenta e indica lo zaino.
“Hai ragione, dobbiamo prendere il treno. Non so nemmeno che ora sia.”
Guardo a destra e leggo l’ora da un grande orologio di vetro. Il sole di Lubiana picchia con prepotenza e i treni fermi sui binari ne riflettono con forza i raggi. Solo il caldo trafigge più di questa luce. Perciò lascio Mia a terra e la porto come un burattino all’ombra di una colonna. La folla nella stazione si allontana lentamente, ma le macchine in sottofondo continuano a rombare. Sono certo che torneremo presto a casa, sicuro Kristina ci sta già aspettando.
“Su, dai, la gambetta sinistra, brava, così,” aiuto Mia ad entrare nel marsupio, “e poi la destra, perfetto.” Siamo abituati, quando lei è ancora per terra, a farla entrare gattonando nel marsupio, per poi sollevarla e mettermela addosso. E anche stavolta me la metto in spalla, stringo per bene gli spallacci e lei china subito il capo sul mio petto e sento la sua testolina calda. È stanca, il che non mi sorprende. Abbiamo giocato per dieci minuti sotto il sole, probabilmente le gira la testa dopo tutto quel lanciarsi in aria. Spero che si addormenti subito. Le quattro e mezza passate.
Vado verso l’edificio della stazione anche se abbiamo già i biglietti. Devo solo andare in bagno, perché quelli sui treni non sono un granché e, oltretutto, non potrei lasciare Mia da sola nello scompartimento. I bagni sono quasi vuoti. Al bagno delle donne si affrettano solo poche studentesse con le valigie, mentre in quello degli uomini non c’è nessuno. Mi guardo allo specchio al di sopra dei lavandini e mi aggiusto i capelli. Noto anche i bordi insopportabilmente lerci dei lavandini e Mia, che si è già addormentata. Sorrido tra me e me e chiudo la porta del gabinetto. Tolgo il marsupio e lo appendo al gancio sulla parete del gabinetto, poi appendo lo zaino con l’acqua, i fazzoletti e un po’ di latte alla maniglia della porta. A volte mi sembra di riuscire a pensare in pace solo quando mi trovo seduto sul water. Dalla tasca dei pantaloni abbassati tiro fuori il cellulare.
“Cosa?!” dico in un sussurro perché perdo il fiato al pensiero. “Sono già le 16:40?!” mi chiedo a bassa voce incredulo e alzo gli occhi verso l’alto, giusto per concedermi un momento per pensare alla situazione. Alle 16.43 parte il treno per Pragersko, e non possiamo perderlo.
Alla fine, non ho cacciato fuori nulla. Infilo il telefono in tasca mentre mi tiro sù i pantaloni, afferro la roba dal gancio e la indosso mentre mi allontano correndo. Spero che riusciremo a prendere il treno e che Mia non si svegli. Corro più veloce che posso, non mi sfiora il pensiero di lavarmi le mani. Sono già le 16.41.
La gente mi guarda sconcertata, mi lanciano occhiate spaventate e penso che mi stiano ingiuriando. Mi pare di sentire le loro voci nella mia testa: “Che pessimo padre! Scansafatiche! Non c’è più disciplina!” Di loro però non me ne frega niente. So che adesso devo sbrigarmi, e perciò mi sbrigo. I lacci slegati delle mie Converse dovranno resistere ancora un po’.
Tutto sudato e senza fiato arrivo fino al sottopasso con le sue fredde scalette di cemento con gli occhi fissi sull’orologio della stazione. 16.42! Ce la faremo. Dobbiamo farcela. Schizzo su per gli scalini come un razzo, ne salto tre in una volta e strillo come una vecchietta impazzita: “Scusa!” Mentre correvo ho colpito un signore facendogli cadere il burek che stava mangiando. Adesso, dietro di me, mi sta ricoprendo di insulti. “Non adesso, signore,” penso, “aspetta!” e faccio un ultimo, profondo respiro per cercare di prendere il treno.
Nel sottopasso fa caldo ed è buio, i cartelloni pubblicitari per un attimo mi accecano. Ci sono, binario 7, partenza per Hodoš 16.43. Sono le 16.43. “Ommioddio”, dico tutto d’un fiato e supero quegli ultimi venti scalini che mi separano dal binario. La sagoma del treno internazionale mi si delinea già davanti, ma non sento più le gambe e c’è qualcosa che mi punge la schiena. Lo prenderò!
“Si sbrighi” dice con calma il cupo capotreno e mi apre la porta. Infine, riprendo di nuovo il fiato e dalla banchina metto il piede dentro il treno. Prima ancora che io sbatta la porta, il treno parte. Mi appoggio coi palmi delle mani al finestrino, curvo la schiena e totalmente sfinito provo a calmarmi un po’. “Ce-l’abbiamo-fatta” dico facendo delle pause per respirare, la mia stessa voce mi suona orribile. Con impazienza già pregusto i morbidi sedili e il lieve venticello sulla fronte. Grazie a Dio sono riuscito ad attraversare tutta la stazione senza svegliare mia figlia.
La maggior parte degli scompartimenti è vuota. Al terzo mi fermo, tossisco con voce roca, apro la porta e butto a terra le mie cose. Spingo lo zaino all’angolo della finestra, io invece mi siedo molto lentamente, sospiro, mi asciugo il sudore e dopodiché arriva il capotreno. “Biglietto, prego.”
“Prego,” gli mostro la carta, “andiamo a Pragersko”. Prende i biglietti, ne timbra uno, dopodiché mi squadra in silenzio. Alza poi di nuovo la testa. “Perché ne ha due?”
Sorrido, mi fermo a pensare e gli dico che la signora alla stazione mi ha consigliato di prendere comunque un titolo di viaggio per Mia, anche se ancora non ha bisogno del biglietto. “Non ha ancora tre anni, ma ho preso il biglietto per ogni evenienza, signore.”
“Sì, ma per chi?” A quel punto mi sento come scaraventato verso il sedile, anche se in senso fisico non mi muovo per nulla. Il peso del mio corpo si fa enorme. La lingua mi si intorpidisce. Nella mia testa cadono gli ultimi pilastri della ragione.
“Ommioddio, ommioddio, ommioddio,” sbatto con la testa sul vetro della porta, mentre il capotreno, stupito, si allontana e mi lascia alla mia pazzia. Nessun pensiero sembra valere la pena di essere pensato. Nessuna consolazione potrebbe calmare il mio cuore impazzito. Nessuna preghiera può allontanare la mia anima dalla disperazione. Apro con calma la porta dello scompartimento e mi metto davanti al finestrino. Apro il finestrino, offro la faccia al sole e grido. Sono convinto che non smetterò di gridare. Le case si muovono disordinatamente davanti al mio viso. Una dopo l’altra. E io grido, assorbo i raggi di sole e mi sento un po’ morire dentro.
L’ho abbandonata. L’ho abbandonata lì sul gancio del gabinetto, ho abbandonato mia figlia in un bagno fetido e puzzolente. Nessun pensiero concreto attraversa il mio cervello, in testa non mi viene nessuna idea che sia normale. La cosa peggiore è che non mi preoccupo affatto per Mia. Non ho paura per lei, tutto andrà bene, ma provo una vergogna terribile.
Mi rimetto a sedere e aspetto la prossima stazione per scendere e tornare a Lubiana. Guardo davanti a me e fisso i mucchietti di polvere che si alzano dal sedile davanti a me. Ho smesso di gridare. La speranza sta tornando. I capelli svolazzano al vento, nello scompartimento c’è puzza di morte. Sto seduto immobile. Me la sono fatta addosso dalla paura di quello che dirà Kristina.