La mia Mecca. Frammenti di Vita, Abdelwahab Ibrahim Sharab_Il Cairo
Menzione Premio Energheia Egitto 2022
Sembra un cubo nero decorato con delle strisce di scrittura colore oro, circondato da una massa di persone vestite di bianco che girano tutt’intorno. Ciò che sembra dall’alto un cubo nero è la Ka’ab, il simbolo sacro della Mecca. Città e terra santa per alcune persone, come lo è la Città del Vaticano e Gerusalemme. E come è sacra la statua di Buddha, Taj Mahal e la Cattedra di San Pietro.
I ferventi innamorati di Dio trovano una certa somiglianza tra questo sacro simbolo, conservato sotto un tessuto di seta nera, e la Donna, che spesso secondo alcune tradizioni, viene nascosta nello stesso modo, come se fosse un prezioso tesoro, a quanto pare. Oppure, tale somiglianza o metafora deriva dalla natura dei tessuti di colore nero che mostrano e nascondono; una bellezza affascinante o qualche chilo di troppo.
Lui è Mahmoud, un ragazzo arabo che per la prima volta viaggia all’estero, in Italia, in Europa. Senza una metà o una compagnia tranne quella del destino che l’ha sempre guidato. In cerca di un futuro migliore ha preso la strada del viaggio e del cammino. Il suo primo lavoro è stato quello di distribuire i volantini. Ha tanti sogni nel cassetto, come tutti i giovani sognatori, ma il destino è sempre stato il motore che controlla i suoi passi nella vita, come dice lui stesso nel suo diario, o almeno come crede:
Io sono un ragazzo tranquillo, secchione e preciso come virgolette, faccio ciò che devo fare sul momento. Se devo studiare, studio senza la voglia di diventare il primo della classe, e lo sono stato. Se devo lavorare, lavoro col cuore e cerco sempre di fare il mio lavoro alla perfezione, senza il desiderio di essere il capo.
Le persone che non mi conoscono mi descrivono come “arrogante” “timido e forse autistico”, ma infine ognuno ha il suo parere.
Sono in Italia, ho fatto il mio primo viaggio in aereo con destinazione Roma. Da lì, è iniziato il mio viaggio in treno. Ma questa volta è stato molto diverso. Il biglietto si deve timbrare prima di salire a bordo: è la prima regola che ho imparato.
Dal finestrino di una carrozza, Mahmoud guarda l’Italia, il bel paese, da giù, dopo averla vista in aereo da su. Ammira i prati, le casette e i paesini che passano a lampo come un flash. Con ogni fermata gode un po’ del paesaggio, e mette insieme le scene viste da terra e quelle viste dal cielo; le colline, le valli e il mare azzurro ‘immobile’ per costruire nella mente un bel quadro.
Ho preso l’autobus, senza sapere la fermata alla quale dovevo scendere, scrive Mahmoud; perciò, avevo chiesto all’autista di farmi scendere alla fermata dell’Università, ma se ne è dimenticato. Non è abituato a una richiesta simile, perché, come regola, chi vuole scendere, deve suonare il campanello. E così, siamo arrivati al capolinea ed era già notte, e l’unica soluzione era aspettare in autobus la nuova partenza.
Ho passato le mie prime tre notti in ostello. Vorrei chiedere di nuovo scusa a Ezechiele, il ragazzo che dormiva nella camera con quattro letti singoli. Ero in viaggio da tutta la giornata e non avevo eseguito le mie preghiere giornaliere; ho iniziato, subito dopo che mi ero sistemato in camera, a fare la preghiera che comprende alcuni movimenti del corpo. Ezechiele, guardandomi da sotto le coperte, aveva avuto paura. Ma la mattina dopo ci siamo conosciuti e gli ho spiegato tutto. Ho scoperto che anche lui seguiva un corso di lingua italiana. Ho anche trovata una camera singola da affittare, proprio a due passi dal capolinea dove l’autobus mi aveva portato.
Tra le pagine del diario, Mahmoud parla del suo lavoro di distributore di volantini:
In una giornata di sole e con lo zainetto in schiena pieno zeppo di volantini. Sudato e assetato, un cane mi abbaiava contro mentre un altro dormiva in santa pace. E mentre camminavo tra le vie e i veicoli, girando da una casetta all’altra come un’ape, Lei era lì, all’ultimo piano. Una signora anziana, sessantenne, appariva dalla finestra, con il volto verso il cielo e con una voce chiara, ripeteva, ai passanti in ascolto: “Oh Dio!.”
Mi aveva subito colpito la scena, la preghiera, anche se è composta da una semplice parola. Ciò che avevo visto era tipico di quello che ha descritto Marco Vannini: “Preghiera è soprattutto l’elevarsi dell’anima a Dio e, dimenticando sé stesso, essere con Lui un solo spirito.” La fede dei semplici.
In quel momento, avevo quasi buttato via tutto ciò che avevo imparato nei miei studi religiosi o sentito dire. Ho riflettuto su Dio, il mio o il Suo, o qualunque esso Sia! E di una cosa ero certo, che Dio in assoluto non rimanderà indietro la preghiera della signora, la avvolgerà con la sua immensa misericordia. Il poeta persiano Rumi dice: “Nella morte c’è la vita eterna/ per coloro che sono/ giusti e credenti.”
Il diario colorato di Mahmoud contiene alcune regole. I bei fatti di vita vengono scritti in colore verde. Quelli di azione e di fatica con il colore rosso. Invece quelli di angoscia con il colore nero lasciando tre righe in bianco all’inizio e alla fine del testo.
Una volta Nina, una ragazza straniere anche lei e compagna di Mahmoud all’università di Siena, gli chiedeva: Perché hai lasciato vuote queste righe?
– Una saggezza c’è in tutto ciò che ci capita. Giacché i nostri occhi nel momento dell’angoscia vedono soltanto un solo lato della realtà, ho lasciato queste righe in bianco per riscrivere la realtà con un occhio cosciente, vedendo le cose dalla giusta angolazione. Le aveva risposto. C’era, tra quelle pagine, la sciagurata notizia della morte del padre di Mahmoud, mentre lui era ancora all’estero, una scomparsa dolorosa senza addio.
In quell’atmosfera di angoscia ed emozioni, Nina sfogliava il diario, le sue dite si erano incollate alla pagina che prendeva come titolo il suo nome “Nina”. Nonostante ne fosse contenta, il viso radioso e sorridente, non credeva ai suoi occhi, e per togliersi questo dubbio aveva cominciato a toccare con le punte delle dita le righe e le parole che raccontavano una sua giornata passata a casa di Mahmoud, studiando insieme informatica. In una giornata di domenica in cui le nuvole grigie avevano dominato il cielo, Mahmoud aveva scritto:
Oggi Nina è arrivata a casa mia per darmi una mano con lo studio. All’ora di pranzo abbiamo messo in forno una pizza congelata che avevo in frigo. Mentre eravamo immersi nello studio davanti allo schermo del portatile, Nina mi chiedeva: –
Ma non senti odore di bruciato?
– O Dio! La pizza! Avevo risposto correndo in cucina. La pizza era buona, e l’abbiamo mangiata lo stesso. Avevamo riso tanto.
Ero molto contento di questa giornata. Nina mi aveva fatto vivere certe emozioni che alla mia età, 24 anni, non conoscevo, per motivi di religione e tradizioni. Non capivo cosa significasse agganciare un reggiseno o una comune frase come: “Mettimelo sul secondo gancetto!” Per me lei non mi chiedeva un semplice aiuto, anzi, voleva coinvolgermi nella sua vita privata e confidarsi con me.
Dopo che lei se ne era andata via, sono andato in bagno per farmi una doccia. Mi sono bloccato davanti allo specchio a pensare a Lei e al suo stare in mia compagnia. Allo specchio, in modo strano, il mio volto non appariva, ma appariva ogni singola posa che il corpo di Nina assumeva, la forma del viso, la piega alla schiena e le fossette di venere. Così immobile, una voce dentro di me mi chiedeva:
– Ma Dio ti punirà per questi momenti di felicità? Di amare e di essere amato? Delle carezze e delle coccole? Dell’essere in compagnia di una persona senza un certificato ufficiale. Tu che pretendi di essere un vero fedele.
Al momento non mi veniva in mente nulla come risposta a quella voce invadente che continuava ad accusarmi chiedendomi: Dove sono andati i tuoi insegnamenti religiosi? Tu che sei nato e cresciuto in un paese arabo e islamico, fai qualcosa di simile? Allora non puoi lamentarti dei giovani della tua stessa fede, che sono invece nati e cresciuti qui in Italia, per il loro modo di vita “all’italiana”.
A quel punto, avevo cercato una giustificazione, una risposta secca che potesse allontanare subito e per sempre quella voce. E in silenzio, mi è venuto in mente un pensiero: “Ma forse siamo tutti uguali nel provare e nell’essere soggetti alla ricerca della certezza. Quel che conta è sapere controllarsi, e capire quando si arriva al punto di non ritorno.” Un detto sufi dice: “Fai come ti pare ma stai con il Signore.” Pure S. Agostino diceva: Si fallor, sum (“se sto sbagliando, se sto dubitando, {comunque} sono, esisto”). Anche Cartesio (R. Descartes) aveva concluso: Cogito, ergo sum (“penso, dunque esisto”).
“Maledetta Avventura” era il nuovo titolo al centro in alto di una nuova pagina del diario, prima di venire cancellato con delle rette parallele e diventasse quasi illeggibile. Proprio a destra di questa macchia di inchiostro stava il nuovo titolo: “Il Destino si Crea”.
Fra la fine dicembre del 2010 e i primi giorni del nuovo anno, la stampa italiana raccontava le circostanze degli attentati terroristici che presero di mira vari luoghi in Italia in quel periodo. Atti osceni e maldetti da gente infame che causano la morte di persone innocenti e lasciano altri con ferite incurabile, fisiche e morali. Purtroppo, il terrorismo è come un fantasma che uccide di notte, ma quel che la gente forse non osserva, è che esso distrugge anche la vita di persone ancora in vita. Qualche mese dopo Mahmoud aveva ricevuto una telefonata dalla madre, che gli annunciava che lui era stato candidato dal governo a un posto di lavoro a tempo indeterminato presso un istituto che insegna lingue e culture del turismo: ” Mahmoud! Amore di mamma! Devi tornare, questo è un buon lavoro per te.”
Pallido e confuso, Mahmoud aveva passato le ore seguenti alla telefonata della madre Iman, che significa fede, nella totale confusione. In alcune famiglie arabe, quando la madre dice al figlio di fare o di non fare qualcosa è come se avesse emanato un decreto legislativo. Pare che questa tradizione abbia a che fare con un detto religioso: “Il paradiso si stende ai piedi delle madri.” Attraverso la scrittura, Mahmoud cercava un equilibrio, forse psichico, una risposta o il modo per svuotare la testa dai mille pensieri. E così aveva descritto i suoi sentimenti sull’abbandono del futuro che sognava, dicendo:
Ho passato la notte piangendo sotto la coperta, e con il pensiero parlavo al Signore sul perché! Ormai come il titolo del libro che sto leggendo: “Anche in silenzio parlo.” Io non ci posso tornare laggiù dove tutto è coperto. Teste, natura, e creatività. Non posso immaginare il mio mattino senza il caffè della moka, al bar o della macchinetta dell’Università. O senza la mia consueta contemplazione della natura, che ha ispirato i grandi attori e pittori italiani e pure me, aiutandomi a scrivere delle poesie. Non posso immaginare di non guardare più la gente che passa per le strade, grazie alla quale ho imparato ad abbinare i colori dei vestiti che indosso. O l’ordine che trovo sulle scale mobili della metro, dove come regola colui che vuole lasciarsi trasportare, deve stare fermo a destra, lasciando libero il passaggio a chi, invece, vuole salire. E poi c’è il rispetto del codice stradale come dare la precedenza al mezzo che attraversa una rotonda, l’assicurazione obbligatoria dei mezzi di trasporto, che in caso di incidente stradale il colpevole paga i danni, senza litigi o botte. Cose che non si trovano da dove vengo io.
Anche se fossi alto più di due metri, come i famosi giocatori di pallacanestro, proprio lì, davanti al cubo nero alto 15 metri, avresti sentito, lo sguardo verso l’alto, il colore nero che si collega con quello azzurro e bianco, che l’Uomo, nonostante tutto, ha sempre bisogno di un luogo in cui rifugiarsi, piangere e magari distaccarsi dal mondo.
In una nuova pagina del diario dal titolo “Promessa”, Mahmoud descrive alcuni sentimenti provati presso il sacro simbolo:
Ero nudo in bagno, senza mutande né sotto-abito. Mi misi addosso i due panni bianchi, uno per coprire la parte bassa del corpo, l’altro per quella superiore. Con la mano sinistra, per paura che scivoli via, tenevo stretta quella tela che mi copriva il corpo dalla vita in giù, nonostante i cinque spilli messi là. In quel modo avevo compiuto tutti i rituali per il pellegrinaggio minore (‘Umrah), che da me era stato promesso a Dio.
C’erano accanto a me persone di vari paesi. Ognuno con la propria lingua pregava il Signore. Neri o bianchi, alti o bassi, uomini o donne, si erano tutti radunati in cerchio verso la Ka’ab, e sotto la guida di una sola persona, avevamo eseguito la preghiera. Mi avvicinai alla Ka’ab, pensando al mistico al-Hallaj che prima di morire, e dalla croce, aveva parlato e perdonato i suoi nemici, così anch’io, avevo perdonato tutti. Come posso chiedere perdono al Signore senza che io stesso perdoni per primo tutti quelli che mi hanno fatto del male: “Perdona poiché sarai perdonato.”
Con la mano stesa al muro della Ka’ab, avevo formulato una preghiera, che sembra fuori dal comune: Signore non lasciare vivo nessuno membro dalla mia famiglia al momento in cui verrà distrutto questo sacro simbolo. Mentre alcuni pellegrini si mettevano in fila accanto all’angolo sud-est della Ka’ab per toccare e baciare la Pietra Nera, “la pietra che veniva dal paradiso”, io ero rimasto fermo, a chiedermi: Come mai, con tutti questi milioni e miliardi di musulmani, questo posto verrà distrutto? Da quello che so, quando arriverà quel momento, non ci saranno buoni musulmani vivi, solo i cattivi. Come mai i mistici dicono che loro portano la Ka’ab dentro di sè ed essa è il cuore? È forse la Ka’ab che fa la circumambulazione intorno a loro, anziché loro intorno alla Ka’ab? Come mai i semplici fedeli danno il nome Mecca alle proprie bambine?
Come una barca a vela trascinata dal vento verso le rive del mare o magari giù al fondo, così è diventato Mahmoud che spesso attraversava il Mediterraneo, grazie al suo lavoro all’istituto – alla fine ha seguito il consiglio della madre – e all’appoggio che gli dava sempre la collega e professoressa italiana dai capelli corti.
Sono di nuovo a Roma, la città nella quale avevo scoperto che essere diverso non è una macchia, bensì un segno di individualità e che ognuno ha il proprio talento. Scriveva Mahmoud. In realtà, si può parlare di Roma in mille modi e descriverla in altri mille. Leggendo uno dei numerosi libri redatti a questo proposito, mi ero fermato su un detto di Sebastiano Vassalli che dice: “Soltanto in quel luogo consacrato dai millenni [Roma] tutto ciò che c’è stato e ci sarà può convivere con tutto: l’alto e il basso, il vecchio e il nuovo, la religione e l’empietà, il fasto e la miseria, persino Dio e il Diavolo sembravano aver trovato un equilibrio stabile e duraturo in quella città, dove tutto è già accaduto, e mica una sola volta! Mille volte.”
Infatti, se tu avessi visitato Roma avresti subito sentito, come l’avevo sentito io, una pluralità e peculiarità unica. In una città multietnica e cosmopolita, meta di molte persone, tutti sono in continuo movimento, lavoratori, turisti, studenti, atleti, artisti, bambini, malati, poveri e pure spacciatori. Proprio lì, ognuno suona la propria melodia, canticchia il suo inno e tiene in mano la sua mappa. Tutto gira intorno a un desiderio da realizzare in un futuro migliore o magari intorno a una fotografia ricordo scattata al Colosseo per dire che qui ci sono stato.
Roma è la mia Mecca. Possiede nel mio cuore lo stesso amore che provo per la Ka’ab. Così dovrebbe essere trattata ogni città del mondo, come se fosse il proprio tempio, sinagoga, chiesa, moschea oppure la propria anima. Un posto sacro e sicuro per tutte le creature non soltanto per gli esseri umani.
Roma o l’Italia non rappresenta per me come spesso viene detto “Il mio secondo paese.” So bene che io sono nato e cresciuto in Egitto, il mio amato paese al quale devo tutto. Esso per me è come il tatuaggio che mi accompagnerà fino alla tomba. Invece Roma o l’Italia è il sangue che mi è stato trasfuso e che si è mescolato al mio in una operazione divina e dal quale non mi posso separare.