I brevissimi 2022 – Nero, Gaia Torri_Prato
_Anno 2022 – (Nero)
Alcune dolci note risuonano nell’appartamento al sesto piano. L’uomo muove le mani sui tasti bianchi e neri producendo una melodia scorrevole e lenta. Sono mani sagge ed esperte. Lì seduto sullo sgabello del suo pianoforte a coda Steinway siede Jude; la sera avrebbe avuto il suo ennesimo spettacolo quello che per cui i suoi amici lo prendono sempre in giro, ma che comunque vanno a vedere tutte le sere. La sua composizione è perfetta, le mani scure risaltano al contrasto dei tasti bianchi, veloci e esili che si muovono conoscendo a memoria ogni centimetro del suo amato strumento. Quando suona quella melodia non può non pensare a lei, alla sua Sophie. Questo era un altro argomento per cui i suoi amici lo prendevano in giro, chi mai chiama la propria madre col nome di battesimo? Ma per lui era normale, lo era sempre stato. Fin da quando era piccolo la sua prima parola non era stata mamma, ma “Sophiii”: una versione distorta del nome della madre ma che da lì in poi ha comunque continuato a usare. Sophie è stata fin da subito la sua musa e ispirazione nonché la sua roccia. Il buio dei suoi occhi non gli ha mai permesso di vedere il suo volto, ma con le sue manine se lo poté immaginare: bello, rotondo e con un paio di labbra morbide e carnose e due occhi un po’ grandi, forse troppo grandi in confronto al suo viso, ma per lui era sempre e solo bello. Era stata lei a insegnarli a camminare, a mangiare tenendo le posate, a fargli posare le sue manine per la prima volta su una tastiera giocattolo (non immaginando quale effetto farfalla avesse scatenato) e soprattutto a insegnarli i colori.
I colori caldi gli insegnò: erano come le foglie che calpestava durante l’autunno, oppure la cioccolata calda che beveva per ripararsi dal freddo, la mano che gli tendeva per attraversare la strada e il bacio dolce che gli schioccava tutte le sere prima di dormire. I colori freddi erano invece la pioggia che si abbatteva sulle finestre, il mare che si infrangeva sulla sabbia, il gelato che fa ghiacciare il cervello se lo mangi troppo in fretta e i capricci che faceva che facevano arrabbiare la mamma.
Lui però sapeva che non gli aveva ancora insegnato un colore, quello che lui vedeva da quando era nato e cosi prese coraggio e una sera glielo chiese: “Mamma e quello che vedo io, che cos’è?”.
Allora Sophie gli prese le mani e gli spiegò che lui vedeva tutto: “Il colore che vedi tu, è il più prezioso di tutti perché è unico e nessun’altro lo può vedere, il tuo colore è il più speciale perché ti puoi immaginare ogni colore a modo tuo”. Crescendo però i discorsi di sua madre diventavano più banali e per lui superflui. Ciò che vedeva era solo nero e nessun colore e non li avrebbe ma visti come non avrebbe mai visto i suoi compagi di classe o il viso della ragazza che gli piaceva seduta accanto a lui a lezione. Ben presto si accorse che non era solo il colore che “vedeva” a renderlo diverso, ma anche quello che non vedeva. Era difficile al liceo essere quello cieco e nero eppure sopravvisse, sopravvisse a quegli anni grazie a Sophie e al pianoforte che si era fatto amico verso la fine delle scuole medie e che da allora non aveva più abbandonato.
20 anni dopo ripensa a tutto questo, ci pensa sempre perché il pezzo che sta suonando è il più dolce che abbia mai scritto e il più bello che abbia mai suonato, non lo suonerà quella sera o no, quel pezzo è suo come il colore che vede solo lui, dedicato a chi gli ha donato la vita, chi lo ha visto crescere e diventare un musicista formidabile. La fede all’anulare a volte picchia contro i tasti quando la sua mano è vicina alla tastiera; una chiave gira nella serratura e una voce profonda e calda esclama il suo ritorno a casa, appena in tempo per cambiarsi e uscire, ma prima si ferma ad ascoltare la melodia che da 5 anni lo accompagna ogni pomeriggio. Jude saluta Ben, si alza dallo sgabello si gira verso l’ultima foto di Sophie e ringrazia, come a fine di ogni esibizione chi gli premette di non vedere più solo nero.