Il glicine, Giorgio Ricci_Valenza(AL)
Vincitore Premio letterario Energheia 2022 – Sezione adulti
Quando il signor Arturo venne preso dal glicine nessuno se ne accorse.
Del resto, come sarebbe potuta andare diversamente?
La pianta, che in quei giorni di aprile era al culmine della fioritura, se ne stava lontana da tutto, ai limiti della proprietà che cingeva il circolo della bocciofila, proprio là in fondo, dove la rete metallica formava un angolo invaso dalle erbacce, oltre cui si stagliava un alto pino verde scuro. Il glicine, nelle sue contorsioni, aveva deciso di sconfinare, di aggrapparsi alla rete e, anno dopo anno, di risalire il tronco e i rami del pino, dando vita, ma solo nel mese di aprile, a un gioco tra i fiori viola e gli aghi verde smeraldo che faceva pensare a qualcosa di erotico.
I bambini, che la sanno più lunga degli adulti e avvertono, con la loro fantasia sterminata, sensazioni ad altri negate, evitavano accuratamente di passarci vicino, non tanto negli altri undici mesi, quando il tutto si fondeva in una chioma folta e scapigliata oppure nella triste immobilità invernale, quanto nel periodo di prima esplosione primaverile, quello dei giorni accarezzati da un vento tiepido che immancabilmente vira al freddo dopo il calare del sole. I bambini, a metà aprile, scansavano l’angolo di rete metallica perché chi tra di loro aveva sbirciato infilando il viso nella confusione delle fronde, giurava di aver visto pulsare il tronco del glicine e, contemporaneamente, di aver avvertito la sofferenza del pino, quasi un lamento, come se fosse in corso una terribile battaglia di cui si conosceva già il vincitore. Quei due, tre arditi ragazzini avevano, com’è normale nel loro mondo, subito la crudele presa in giro degli amici, e anche se erano seguite notti piene di incubi in cui rami nodosi spaccavano vetri durante l’imperversare di una bufera, alla fine ci avevano riso sopra, ammettendo di aver esagerato, se non inventato del tutto la storia, mentre chi li aveva sbeffeggiati era rimasto per alcune settimane sospeso tra delusione e sollievo. Insomma, un vero peccato che lo scherno fosse finito, però meglio così.
In quella porzione di microcosmo bocciofilo di bambini non ce n’erano.
I vecchi che si riunivano per qualche partita, quelli ancora abbastanza gagliardi, in grado di fare i classici due passi allungati e lanciare la boccia con un grido breve ma potente, non avevano mai ascoltato racconti infantili che sembravano uscire da un libro di fiabe maledette, o se qualcuno, secoli prima, glieli aveva letti, non lo ricordavano. Quello che contava, per loro, erano gli acchiti, le misurazioni che sfociavano inevitabilmente in infinite discussioni, erano le bocciate con il loro schiocco violento, era il punteggio finale. Tutto il resto non aveva importanza. Quindi, nessuno si accorse che laggiù il signor Arturo, con un passo corto e lento e la schiena appena ingobbita, si era avvicinato al glicine per posare le sue ossute chiappe sulla vecchia sedia. Nessun altro, del resto, sapeva della sedia, posata e dimenticata proprio in quel punto chissà quando e chissà da chi, e a nessuno sarebbe interessato. Ma il signor Arturo, che non amava il gioco delle bocce, che non faceva comunella con i suoi coetanei e che, verità per verità, non conosceva nessuno in paese, sapeva benissimo che come l’anno prima avrebbe trovato la sedia, si sarebbe seduto con un sospiro di stanchezza, avrebbe appoggiato la schiena con un brivido di piacere, quindi avrebbe goduto del dolce, inebriante profumo dei fiori viola ascoltando il sibilo del vento tra gli aghi del pino.
Quello che non si aspettava, il signor Arturo, era che negli ultimi dodici mesi il glicine aveva fatto prigioniera la sedia. Guardando la scena che gli si era presentata davanti non aveva trovato altre parole nella sua testa sormontata da un cappellino a quadri con uno stupido bottone in cima. Il glicine doveva aver riconosciuto nella sedia una sorta di sorella legnosa, non poteva essere altrimenti. Le sue liane si erano avvolte alle quattro gambe ed erano salite dietro lo schienale, lasciando, stranamente, libera solo la seduta, quasi fosse un languido invito ad accomodarsi. Il signor Arturo provò a smuoverla, ma la sedia sembrava ancorata a una base di cemento o meglio ancora, pensò il vecchio, pareva aver messo le radici. Gli fiorì un sorriso sulle labbra che subito si estinse, poi scrollò le spalle, quasi volesse gettare lontano un aborto di brutto presentimento, infine si sedette dicendo ad alta voce, ma non troppo: “Eccomi qui, come tutti gli anni!”
Era il suo unico svago, quello. Qualche aprile precedente, in un suo raro avventurarsi oltre il cuore del paese e curiosando dalle parti del centro sportivo, aveva scoperto un varco nella rete, un passaggio abbastanza comodo per un uomo della sua età, poi aveva notato il viola esuberante del glicine e solo in un secondo tempo, dopo alcuni passi sempre più strascicati nell’erba, la sedia abbandonata. Un quadretto primaverile che gli aveva causato un certo stupore e che per qualche motivo oscuro l’aveva reso orgoglioso, quasi si sentisse un esploratore dopo un’importante scoperta. L’aveva fatto suo, quel quadretto, lontano da sguardi indiscreti e dal vociare dei giocatori, che lì giungeva appena affievolito.
Così, anno dopo anno, già da marzo, ogni mattina, strisciando le pantofole sul pavimento, andava al calendario appeso in cucina, proprio a fianco del frigorifero, e con una certa frenesia sollevava il foglio guardando intensamente il mese di aprile che sarebbe arrivato, fantasticando sulla data che l’avrebbe condotto al glicine fiorito. Non aveva mai sbagliato una volta, il signor Arturo. In un pomeriggio tra il 15 e il 20 del mese avrebbe aperto la finestra del salotto e fiutato l’aria profumata di primavera, alzato gli occhi al cielo azzurro chiaro, tirato un sospiro. Era quello il giorno, il momento di incamminarsi, di varcare la rete, di ammirare il glicine sempre più vicino e di mettersi seduto pronunciando, fiero, sempre le stesse sei parole: “Eccomi qui, come tutti gli anni!”, sei parole che nell’anno della sedia ingabbiata suonarono meno sicure, quasi ansiose.
Intanto, chi giocava a bocce o chi ai lati del campo di gara guardava più o meno appassionato la partita, come ogni anno non aveva fatto caso al signor Arturo e alla sua presenza sotto il glicine. Erano uomini, quelli, che nemmeno in gioventù avevano fatto caso a niente. Che fossero presi dal lavoro nelle fabbriche o da infinite sfide a briscola al bar, che fossero impegnati a fare improbabili congetture sulle acrobazie sessuali delle donne più belle del paese oppure, ormai avviati verso il loro personale viale del tramonto, a vivere di boccini conquistati e di grappini ingollati, tutti, nessuno escluso, erano all’oscuro di ciò che aveva appena fatto il signor Arturo.
Infatti, lì in paese nessuno poteva giurare di conoscere il signor Arturo.
Era arrivato solo una decina di anni prima, probabilmente da una delle grandi città del triangolo industriale, ma quale delle tre non si sapeva. Vigeva, attorno alla sua figura di pensionato, una sorta di incomprensibile alone omertoso. I pochi che sapevano, non si sbottonavano. Il sindaco, il medico, l’impiegato dell’Anagrafe, il direttore della banca. Sapevano in linea di massima, ma non ne parlavano. Così nel giro di poco tempo si perse l’interesse per questo omino che viveva, tutto solo, nell’ultima villetta del viale che portava al cimitero, quella color grigio smorto, con le persiane da carteggiare, il giardino vagamente incolto. Non aveva cani, il signor Arturo, nemmeno un arruffato, misero bastardino che abbaiasse alle vedove dirette alla tomba dei mariti o che ringhiasse alla bicicletta cigolante del postino. Usciva raramente, il signor Arturo, in genere per fare la spesa all’unico, vero negozio del paese, che incredibilmente manteneva un’aura di anni perduti, con il suo tipico profumo di detersivi da drogheria tranquillizzante. Lui riempiva il carrello, posava i prodotti – sempre gli stessi – sul banco, pagava con gesti lenti. Forse bofonchiava un grazie di prassi ma la cassiera, smalto nero, piercing al naso e capelli biondo platino nonostante la sua non più giovane età, non avrebbe potuto giurare di conoscerne la voce. Usciva poco, il signor Arturo, forse si recava in banca una volta al mese, fronteggiava il direttore – che fungeva anche da cassiere – con uno sguardo basso, dubbioso, in testa sempre quel cappellino a quadri, tipo coppola estiva, dai colori sgargianti, e in cima uno stupido bottone rimasto impresso all’impiegato fin dal primo giorno. Come la sua collega della drogheria, il cassiere-direttore non avrebbe potuto giurare di conoscere realmente la voce di quel forestiero. Ecco cos’era il signor Arturo, un forestiero che in dieci anni non era mai entrato nell’unica farmacia del paese a comprarsi almeno una pastiglia, un oggetto estraneo di cui non si conosceva l’origine, la cadenza della parlata, la reale età, una parvenza di storia familiare, se qualcuno lo aiutasse nelle faccende di casa. Stava ai margini, non salutava. Era etereo, evanescente.
Proprio per questo, quando si sedette sotto il glicine e avvertì una fortissima stretta alla caviglia sinistra capì, il signor Arturo, che stavano finendo le sue ore ancor prima di comprendere cosa gli stesse capitando veramente. Non conosceva nessuno, e nessuno conosceva lui. Pensò, proprio nel momento in cui il male alla gamba stava diventando insostenibile, che se n’era stato troppo tempo ai bordi, sempre qualche decina di metri più in là, ostinatamente sul marciapiede opposto, quello su cui nessuno passava, dove nessuno avrebbe potuto fare domande ingombranti, nessuno salutava. Non riuscì a guardare in basso, non ne ebbe il coraggio, nemmeno quando sentì lo strappo dei pantaloni, la sua sottile pelle da anziano squarciarsi e qualcosa di caldo e viscoso colargli nella scarpa. Il supplizio era cominciato, il dolore così forte da non riconoscerlo. Forse fu quella presa di coscienza che gli diede l’energia di alzare un braccio, di agitare debolmente una mano, e pensò che se fosse stato fortunato qualcuno al campo di bocce se ne sarebbe accorto, e valutò comunque che sarebbe stato meglio urlare, perché al campo, tra una bocciata e uno sputo a terra, l’avrebbero sentito. Riuscì addirittura a immaginare la scena: uno spettatore meno sordo degli altri che all’improvviso, per attirare l’attenzione degli amici, avrebbe battuto le mani due volte, come in un isterico applauso, e poi avrebbe sbottato: “Fermi, fermi tutti! Zitti! Chi è che sta gridando? Non lo sentite anche voi?”
Negli ultimi dieci anni della sua vita non aveva quasi più usato la sua voce, il signor Arturo, e meno che mai urlato a qualcuno, così non gli uscì niente dalla gola. Stava subendo una tortura ma non riusciva a gridare. Agitava debolmente la mano destra, ma chi poteva vederlo, dal campo di bocce? La mano destra, proprio lei, che da qualche secondo era stranamente insensibile. La guardò e ciò che vide fu terrore puro. Un’appendice del glicine, una liana, una parte di tronco nodoso o come diavolo poteva chiamarsi, aveva ghermito il polso e gli stava abbassando il braccio con una forza che al signor Arturo aveva ricordato un braccio di ferro impari, di quelli che si svolgono in un porto nebbioso tra un marinaio nerboruto e il gracile malcapitato di turno, una prova di forza tanto ingiusta per un uomo della sua età. Un’altra liana, poderosa e assai vivace nei movimenti, con un guizzo aveva bloccato il braccio sinistro che lui, fin dall’inizio, aveva tenuto ingenuamente appoggiato al bracciolo della sedia. Ma perché non riusciva a urlare? C’era solo una cosa da fare, urlare! Eppure, tutto quello che riuscì a fare, imprigionato su quella sedia, fu di paragonarsi a un condannato a morte, come in uno di quei film americani in bianco e nero che vedeva in certi pomeriggi estivi nel suo salotto, sempre al buio, film girati negli anni cinquanta, con un Richard Widmark più crudele del solito o un Robert Mitchum al culmine della carriera, che un attimo prima della scossa elettrica inorridivano il pubblico guardandolo con occhi sprezzanti e una risata sghemba sulla bocca. Loro sì, che erano veri uomini!
Avvertì qualcosa di solleticante al collo, poi la stretta. Faticava a respirare, ora. Un ramo stava salendo verso la sua, di bocca, e si divise in due per aprirgli meglio le labbra; gliele teneva spalancate, come se fosse un mostro di legno in avanscoperta, poi improvvisamente immobile, quasi in attesa, un inviato di morte che spianava la strada a qualcosa di molto più forte e molto più cattivo. Di definitivo. Prima di lasciare il mondo, il signor Arturo pensò che avrebbe fatto meglio a sorridere alla cassiera dallo smalto nero e con il piercing al naso, e pensò che l’impiegato della banca, che tra l’altro era anche direttore, avrebbe meritato un paio di parole in più, almeno quelle che si dicono per cortesia. Pensò, infine, con una sorta di sorriso mentale, un sorriso amaro e malinconico, che sarebbe stato decisamente più giudizioso avvicinarsi al campo di bocce, se non tra i giocatori almeno in mezzo agli spettatori, e non solo da ieri, ma fin dai primi giorni del suo arrivo in paese. L’avrebbero certamente accolto, coinvolto, forse gli avrebbero voluto bene. L’immagine finale che ebbe fu l’afflosciarsi del suo cappellino nella lenta caduta dalla testa alla spalla, come se al glicine non interessasse una coppola estiva, per di più a quadretti. Non fece in tempo però, il signor Arturo, a vedere un’ultima volta il ridicolo bottone di cui lui andava tanto fiero.
Venne l’estate delle tanto odiate zanzare e delle cicale che non la smettono mai di cantare, poi l’autunno delle foglie rosse svolazzanti baciate da un sole ancora caldo. Prima di un nuovo aprile fu la volta del lungo inverno dal cielo color ghiaccio e dai rari fiocchi di neve che sembrano non voler mai raggiungere il suolo.
Un ragazzino più coraggioso della media si trovò a passare dalle parti del glicine e del pino.
Erano le vacanze di Natale, i compiti avrebbero aspettato fino al giorno dell’Epifania, e intanto era inverno, niente di brutto poteva capitargli in quel luogo. Sapeva di un passaggio abbastanza grande tra le maglie della rete metallica. Vide il cappellino ancor prima di arrivare ai due alberi, lo vide spuntare da sotto un cumulo di foglie che una folata di vento aveva deciso di spettinare con un mulinello di tutto rispetto. Stava ai piedi di una sedia che in qualche modo si era unita alla vegetazione. La coppola aveva perso i suoi colori accesi, e a un esame più accurato si sarebbe potuto notare una certa unione cromatica tra i quadri in un poco interessante beige, mentre il bottone sembrava aver preso la via del distacco, come se non ne volesse più sapere di quella convivenza.
Di chi poteva essere quel cappello? Chi l’aveva perso? I dubbi mulinarono solo pochi istanti nella mente del ragazzo. Aveva memoria da vendere lui, nella sua classe era quello che aveva più memoria di tutti, cosa che gli permetteva di raggiungere una sufficienza abbondante in tutte le materie praticamente senza mai studiare. Si ricordò di una sera di alcuni mesi prima, era sicuramente una bella giornata di maggio perché cominciava a far caldo e a lui colava il naso per la maledetta allergia al polline. Si ricordò di quella sera e dei discorsi dei suoi genitori a cena. Sembrava che un signore anziano, che non aveva famiglia e viveva solo, fosse sparito senza lasciare tracce. I Carabinieri, avvertiti dalla cassiera della drogheria e dal direttore di banca – i soli in paese ad accorgersi della sua assenza e tra i pochissimi a conoscerne il nome – erano andati a suonare alla porta della villetta, l’ultima del viale prima del cimitero. Nessuno aveva risposto. Dopo qualche giorno erano tornati ed erano entrati con l’aiuto di un fabbro perché nessun altro al di fuori del signore scomparso aveva le chiavi. All’interno avevano trovato così tutto in ordine che qualcuno si chiese chi lo aiutasse nelle pulizie di casa. In cucina il calendario era aperto al mese di aprile con una croce sul giorno 16, una bella croce fatta con un pennarello nero, di quelli dalla punta spessa.
Il ragazzino, senza mollare mai lo sguardo sul cappello emerso dalle foglie secche, si compiacque della sua memoria. Da allora non aveva più pensato al dialogo dei suoi genitori, eppure si ricordava benissimo di quella storia, della scomparsa, dei Carabinieri, del calendario e della croce sul giorno 16, quasi fosse un indizio sul giorno della sparizione. La mamma faticava a comprendere di chi si parlasse. Era sempre così, sua madre, un po’ svanita, di certo il figlio non assomigliava a lei. Papà si sforzava come sempre, con molta calma ed esagerata lentezza le raccontava di questo uomo che era arrivato in paese solo pochi anni prima, che non parlava con nessuno e che nessuno conosceva bene, in realtà. Papà aveva chiesto a qualche paesano ma solo pochi di loro lo ricordavano, e se succedeva era solo per un motivo preciso, quello strano cappellino a quadri dai colori sgargianti che sembrava far parte della sua persona. A pensarci bene, valutò il ragazzino, già dal mese successivo non se ne parlò più e nessuno più indagò, come se l’assenza di quel signore anziano non fosse così importante, e nessuno tra gli abitanti o qualche lontano parente ne avvertisse la mancanza.
Ma come poteva capitare una cosa del genere?
Il ragazzino si chinò per prendere il cappello. Fu una decisione improvvisa, dettata dall’ardore dei suoi dodici anni e dal pensiero dell’espressione ammirata sulla faccia dei suoi amici, che presto a scuola l’avrebbero considerato il più coraggioso della classe, il più eroe di tutti, addirittura eletto capo della loro striminzita banda. Si abbassò per agguantare il cappellino e il respiro gli si ghiacciò in gola. Lo sguardo gli era caduto alla base della pianta, proprio dove il tronco usciva dall’erba gelata di dicembre, un tronco non ancora impreziosito da liane, deviazioni, fronzoli vegetali.
Vide un occhio. Un occhio solo, di questo era sicuro. Un occhio come quelli degli attori che muoiono nei film dell’orrore che a lui piacevano tanto, occhi sbarrati un attimo prima che un amico, oppure un medico, chiuda loro le palpebre in un gesto di umana pietà. Certo, era un occhio dallo sguardo vitreo, che non si muoveva e che non lo stava veramente guardando, ma cosa diavolo ci faceva un occhio nel tronco di un glicine? Gli venne in mente una parola che non aveva mai sentito dire prima, nemmeno da suo padre: brodoso. Proprio una parola nuova di zecca. Era un aggettivo, no? Ecco, l’occhio aveva qualcosa di brodoso, come gli occhi di quei vecchi che con un fazzoletto si asciugano continuamente lacrime che, dispettose, non vogliono saperne di esaurirsi. Doveva andarsene al più presto. Cominciò a domandarsi cosa ci facesse ancora in quel posto, al freddo, chinato su un mucchio di foglie secche, in una mano uno stupido cappello a quadri, a guardare un occhio morto che se ne stava dentro un tronco. Morto in un lago di lacrime, avrebbe aggiunto ai suoi pensieri quella notte stessa, faticando a prendere sonno. Il ragazzino improvvisamente si sentì molto triste, più che terrorizzato, con una consapevolezza che ancora non riconosceva, come se in un lampo si fosse ritrovato adulto. Prese un lungo respiro, si alzò, voltò la schiena a tutta quanta quella strana storia e si incamminò, senza sentire il bisogno irrefrenabile di correre e senza avvertire un brivido alla base della nuca.
Camminò lentamente, con un cappellino spiegazzato tra le dita serrate, giurando a se stesso di non far parola a nessuno (ma proprio a nessuno!) di quello che aveva visto, nemmeno a suo padre.
A qualche metro da lui, intanto, da un tronco scese una lacrima, poi un’altra e un’altra ancora.
La terza lacrima gelò prima di toccare il terreno.
Era inverno, e niente di brutto poteva capitare dalle parti del glicine.