Smettere di scrivere
_ di Giorgio Fontana _
Domandarsi perché smettere di scrivere — soprattutto a una serie di incontri chiamata Writers — può sembrare a prima vista una questione del tutto oziosa. A mio avviso non lo è, in quanto contiene una domanda anteriore e altrettanto importante, ovvero: perché scrivere? Se non c’è una buona risposta a questa domanda, l’altra è già risolta: non occorre nemmeno iniziare, punto.
Cominciamo dunque da qui.
Perché scrivere? O meglio: perché scrivere con il fine di rendere pubblico ciò che si scrive? Credo sia sempre indispensabile porsi tale domanda, e soprattutto oggi — in cui la parola scritta sta conoscendo una diffusione inaudita e “pubblicare” non è più un lavoro, come dice Clay Shirky: è un pulsante. Click. Pubblicato.
C’è una risposta ovvia alla domanda: “Perché sì”. Ed è giusto. Non c’è niente di male in questa spinta egocentrica: cominciamo tutti da lì, dopotutto. Il problema è capire dove si finisce — dove vogliamo finire. Vale la pena continuare quello che sto facendo? Sono sicuro di stare dedicando tutto me stesso alla pagina? Quanto sto approfittando del mio status di “scrittore pubblicato” per giustificare un’eventuale pigrizia?
Al netto dei propri talenti, e del fatto che comunque un pizzico d’irresponsabilità è indispensabile, questo continuo esame di coscienza mi sembra sempre più necessario — anche perché “essere pubblicati” è ormai visto come un fine in sé e non invece un mezzo per offrire la propria parola a dei lettori.
In sintesi, se l’impulso a rompere il silenzio della pagina bianca comincia da un qualche bisogno dell’ego, credo che la scrittura nella sua forma più compiuta sia una sistematica distruzione delle ragioni dell’ego. Non si scrive allo scopo di affermare sé stessi in qualunque modo — per mostrare il proprio libro agli amici, per avere una recensione, per ottenere la patente di “scrittore” — ma allo scopo contrario di uscire da sé stessi. Di staccare un oggetto da sé.
Naturalmente non è facile, e le sirene del narcisismo cantano di continuo (canteranno per sempre): è un gesto che richiede molta attenzione e fatica e dolore. Ma in cambio apre le porte di un mondo meraviglioso e che non smette mai di stupirmi: un’infinita serie di possibilità che nessuno ti potrà mai togliere.
Benissimo, dunque: perché rinunciarvi?
Perché si smette di scrivere?
Difficile dirlo. Forse ci sono due ragioni, che molto spesso sono intercambiabili e altrettanto spesso una diventa l’alibi dell’altra.
La prima ragione: perché si pensa di avere detto tutto. Immagino che tutti abbiate sentito parlare del ritiro “a fine carriera” di Philip Roth: una decisione ponderata, come un attaccante quarantenne che appende le scarpe al chiodo. Ma naturalmente il pensiero di non avere più niente da raccontare non vale solo per questi grandi nomi: l’ossessione vive nello stesso modo anche in scrittori di poco conto, persone dotate di poco talento. In questo caso, anzi, l’addio alla parola è ancora più straziante, perché nessuno si rammaricherà di avere perso un mediocre.
Ad esempio, uno può dire basta quando in cambio della propria parola ottiene solo rifiuti editoriali, silenzi, incomprensione. È lì che arriva il momento terribile in cui ci si chiede: è colpa mia o è colpa del sistema?
Ecco, a me interessa molto di più uno sconosciuto che, nel silenzio della propria totale oscurità, rinuncia senza clamori e per semplice rispetto — perché a suo giudizio sa di non poter fare abbastanza. Compie un gesto per cui va ringraziato: rinuncia al desiderio malato di dire la propria, rinuncia alla santificazione di ogni opinione, rinuncia all’idea che poter pronunciare una parola significhi doverla pronunciare, e che la libertà coincida con il suo esercizio sempre e comunque.
La seconda ragione: si smette perché se ne è troppo ossessionati. Perché ci si rende conto di essere giunti al punto in cui la parola ha preso il totale dominio della propria vita. Si è diventati, come diceva Hermann Hesse, degli “affrescatori sentimentali”: persone che ricercano esperienze solo in quanto possono raccontarle, esteti dell’attimo, incapaci di purezza.
Tutto questo è vero per ogni scrittore: l’impulso a vampirizzare quello che si vive è sempre lì, una malattia strisciante: con il tempo tendenzialmente lo si risolve e lo si integra: ci si rassegna, in qualche modo. Ma a volte qualcuno non ce la fa. Di fronte a tutto questo, di fronte al delirio di pensare l’esistenza in termini di scrittura e al distacco che la parola impone, si cerca un sollievo radicale. Basta. Fine. Torniamo a vivere la vita senza sporcarla con i concetti, senza pensarla in termini di storie e personaggi.
(Ma è davvero possibile liberarsi da questo impulso? Ci torneremo fra un attimo).
Intanto su questo tema vi consiglio un bellissimo libro di Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia: una galleria di scrittori che hanno rinunciato alla parola, o che addirittura non hanno mai scritto. Il titolo naturalmente è un omaggio al personaggio di Melville, lo scrivano Bartleby, che di fronte a qualunque richiesta rispondeva “Preferirei di no”.
Gli autori che racconta Vila-Matas sono tutti autori della negazione. C’è Henry Roth, che dopo avere scritto un capolavoro non riconosciuto come Chiamalo sonno fece tutt’altro (il pompiere, l’insegnante, il vagabondo) e conobbe il successo con la ripubblicazione del romanzo, trent’anni dopo avere smesso. C’è naturalmente Rimbaud, che considerò chiusa la propria opera poetica a vent’anni e si diede al commercio di schiavi in Africa. C’è Salinger, di cui tutti conosciamo il destino: mai più una riga e reclusione totale dopo quattro libri di enorme valore. C’è Juan Ramon Jimenez, che smise per sempre dopo la morte della moglie Zenobia, sopraffatto dal dolore (un severo monito: le parole non sono onnipotenti e molto spesso la vita, gettata fuori dalla porta dell’autore, rientra dalla finestra schiantandolo). E tanti altri, una malinconica e divertente galleria.
Di fronte allo strapotere della parola, queste sono isole salde che corteggiano il silenzio — e che guardandolo fisso negli occhi ne rimangono stregate.
Ma in generale sono pochi i “bartleby” che rinunciano senza dolore. Quasi nessuno: “smettere di scrivere” non è un gesto aristocratico e virtuoso: tutt’altro. Il gesto di scrivere è un gesto che mette in gioco l’intera propria esistenza, e sul piatto della bilancia non ci sono soltanto parole: c’è tutto ciò che siamo. Per questo è così atroce sentirsi non riconosciuti. Per questo ogni libro o anche ogni articolo che viaggia nel mondo è un pezzo pulsante del nostro corpo, e come tale reagisce a ogni sollecitazione, anche la più piccola.
Lambiti dalla follia o dalla disperazione, incapaci di sostenere tale peso, i nostri scrittori del no si abbandonano dunque a una soluzione che puzza quasi di suicidio. (Alcuni si suicidano davvero, fra l’altro). Non è l’affermazione di una nuova vita dopo la scrittura, bensì la semplice e amara negazione della scrittura stessa. Non c’è autentica liberazione — e questo ci porta al punto chiave.
La difficoltà principale legata allo smettere di scrivere — e che secondo me è il nodo del problema — è che scrivere, per uno scrittore che vorrebbe davvero sentirsi chiamare tale, non è semplicemente di un’attività: è una condizione.
Il rapporto di uno scrittore con la realtà è di tipo narrativo. Anche se smette, non smetterà di inventare storie: solo, lo farà nella sua testa o avrà intuito di non essere più in grado di renderle come voleva. Chiamatemi idealista, ma credo sia impossibile cancellare quell’emozione, quel desiderio, quel rapimento che ti porta l’idea di una storia o di un personaggio, o anche solo la musicalità di una bella frase. William Burroughs l’ha espresso perfettamente così, in un’intervista:
Sa, mi chiedono se continuerei a scrivere anche se mi trovassi su un’isola deserta e sapessi che nessuna mai vedrà il mio lavoro. La mia risposta è, molto enfaticamente: sì. Continuerei a scrivere per avere compagnia. Perché creerei un mondo immaginario — il mondo è sempre immaginario — in cui vorrei vivere.
Chiamarsi fuori dal ruolo di scrittore significherebbe smettere di percepire il mondo in una certa maniera. O meglio, smettere di abitare il mondo così come lo si è costruito attraverso anni di duro lavoro, sofferenze e gioie, fatiche immani, sacrifici, comportamenti autolesionisti e rinunce personali.
Smettere di pubblicare, o persino di porre la penna sul foglio, non significa smettere di immaginare: non significa smettere di essere uno scrittore, di essere in quella specifica condizione.
Mi rendo conto che giochiamo su un crinale molto sottile, ma vorrei davvero spezzare una lancia in favore delle ragioni profonde e delle forze incontrollabili che governano questo tipo di attitudine. Contro il cinismo imperante che governa il mondo della parola pubblicata, mi piace ricordare che qui innanzitutto non si parla di copie vendute, o di strategie di marketing, o di copertine o di recensioni, o di terze pagine o di feste editoriali o di tutti gli orpelli che stanno attorno al brivido del raccontare. Una storia non è questo. Una storia è magia e io rivendico il diritto di onorare questa magia.
C’è un buon esempio a questo proposito: fumetto di Mark Millar da cui hanno tratto anche un film (e di cui è uscita poco fa la seconda serie). Si chiama Kick Ass: è la storia di un ragazzino che si mette a fare il supereroe di strada. Si veste con una sorta di muta da sub e va in giro con dei bastoni. Alla prima uscita seria, dei portoricani lo massacrano di botte e accoltellano.
La madre è morta, il padre un brav’uomo che lavora come operaio notturno: lui si rimette dopo mesi e giura di lasciar perdere quella follia — perché di fatto è una follia, una stupidaggine assoluta, qualcosa per cui non vale la pena soffrire e far soffrire chi gli vuole bene. Brucia dunque i fumetti, i piani e i disegni del suo costume.
Una vignetta dopo, ha di nuovo la muta addosso.
Basta una vignetta.
La didascalia ci offre i suoi pensieri: … Ma chi volevo prendere in giro? C’era un fottutissimo demone dentro di me, cazzo.
Demoni. Ecco cosa intendo. Contro ogni razionalità o buon consiglio, se sei quella cosa, non puoi chiamarti fuori davvero e fino in fondo. (E sono abbastanza certo che anche Philip Roth, ascoltando un aneddoto, penserà sempre: ah, questo sarebbe un magnifico personaggio o ah, questa diventerebbe una gran storia per un romanzo).
Una coda personale. Io amo scrivere e detesto i piagnistei dell’autore che soffre al calor bianco. Ma in mezzo ci sono stati un sacco di problemi e di incertezze (non che ora non ce ne siano), e di dubbi atroci sulle mie capacità. Di qui l’idea (che naturalmente e un po’ vigliaccamente mi è venuta nei momenti peggiori, quelli in cui gli editori rifiutavano i miei libri): e se smettessi? E se provassi a fare tutt’altro? E se dimenticassi questo mio rapporto con le cose? Ma ogni volta, un meccanismo automatico scattava in me e diceva: no, riprendi la penna. E io la riprendevo.
“Smettere di scrivere” è sempre possibile e in certi casi è anche giusto, ma non risolve il problema alla radice: ne cancella la manifestazione fenomenica, lasciando l’impulso intatto. L’impulso a pensare la realtà in termini narrativi, lo stesso che avevo a tre anni quando inventavo storie con mio padre: raccontare. È l’unica cosa, credo, in cui sono completamente me stesso. E per quanto a volte possa detestare questo me stesso, non posso certo rinunciarvi.
Ed è qui che la nostra domanda si tocca con la precedente: ogni volta che si inizia un racconto, o un romanzo, implicitamente non si smette: si accetta di nuovo di giocare a questo gioco. E allora potreste domandarmi legittimamente: se non smetti di scrivere, in base a quale ragione dovresti farlo?
Non lo so. Perché penso di avere qualcosa da dire, e provo a dirla nel modo migliore possibile: ma nessuno mi rassicurerà mai completamente di essere davvero capace di farlo, o di poterlo fare un’altra volta ancora. Non un editore (e ho un editore meraviglioso). Non un certo numero di lettori da superare. Non una ragazza, non mia madre, nessuno. Ci sarà sempre un margine terribile di ansia e dubbio che, spero, mi salverà dal delirio dell’ego e mi terrà in quello che Heidegger chiamava un “buono stato di bisogno” — ma senza false modestie e senza ipocrisie.
In fondo, nessuna delle parole di chiunque può pretendere di imporsi all’attenzione di un altro. Il massimo che può fare è offrirsi, e tanto basta. Mi rendo conto sia molto difficile da capire per chi disperatamente vuole farsi ascoltare e dominare uno spazio di ascolto, ma è così. E vale per chiunque —se è uno scrittore onesto. E cioè uno scrittore che riconosce il sacro valore del silenzio, ma è anche disposto a sfidarlo con coraggio e responsabilità. Ricordando sempre che è da lì che le parole vengono, e in fondo lì ritorneranno.
Prima o poi gli scrittori smettono tutti, per sempre: una buona storia, invece, non smette mai di essere raccontata.
p; muove da/su vecchie secessioni e nuove restaurazioni, occupato dall’annunciato ultraumano sacrificio attoriale di D.D. Lewis e mappato dall’etica spielberghiana dell’antropocentrismo democraticamente sostenibile. Entrambe opere che compendiano l’ontologica diaspora degli Stati (uomini) mai Uniti, dei cavalieri sulla rotta (di collisione) del West barbarico, contraddittorio, depurando. Sceriffi selvaggi perché controcorrente, per vendetta o per illuministiche velleità, tuttavia destinati alla stella del “pioniere” sul petto, da antagonisti della sopraffazione come schema sociale a leader eleggibili. Mentre il Freddie di Joaquin Phoenix (The Master), punteggio sottostimato nel self-made-men-boom, quindi spalla/spauracchio radioattivo dei guru del domani, non può scalare le caste e ricevere allori ufficiali, né tramandare la propria non detta ricetta di sopravvivenza. Che resta shakerata in barattoli per drink allucinogeni, sommersa negli occhiwide open di un senza fissa dimora troppo americano.
3 Il compositore Jonny Greenwood ha subito probabilmente l’“onda” d’urto (nemesi analogica per un’opera di abissi neuronali disegnati in sottili increspature acquatiche) del rifiuto commerciale scontato dal film. Il metallico flusso-jazz, la glaciale cristallizzazione dei piani sequenza e delle fughe di Freddie, degli allacciati dialoghi tra Freddie e LancasterDodd, sono il connettivo vibrante e reattivo di un’opera che naviga verso l’arte totale.
4 Quanto la cinematografica miniserie Boss, prodotta nel 2011/2012 da Gus Van Sant e interpretata da altro ventennalemaster, della comedy Usa, lo shakespeariano Kelsey Grammer, appena fluttuata attraverso i palinsesti internazionali. Sanguinosa ferita nella dinastia politico-psicologica dell’edonismo protestante-capitalistico, dunque ferocemente inattuale nel teatro neo rivoluzionario della America oggi.
5 Recentemente stigmatizzate nello struggente delirio amoroso di The Yards (2000) e di Two Lovers (2008) del talentuoso James Gray, il cui attore feticcio è ed è stato sin dagli esordi, non a caso, l’attore del momento, Joaquin Phoenix. Corpo di/da cinema, colonizzato e colonizzatore, vittima e carnefice, close-up devastante che calamita dolore e ansie coeve con innata sconvolgente naturalezza.