I racconti del Premio letterario Energheia

La panchina è al solito posto, Arianna Pignotti_Grottammare(AP)

Finalista Premio letterario Energheia 2023 – sezione giovani

Miglior racconto da scenegggiare

La panchina è al solito posto. Proprio da lì mia madre ci sorvegliava con un’attenzione pari a quella riservata ai detenuti dalle guardie di un carcere di massima sicurezza.

La panchina segnava un limite invalicabile per me e mia sorella. Di là da essa il pericolo – una strada piuttosto trafficata e potenziali rapitori appostati nell’ombra – era sempre in agguato.

A primavera quella panchina verde, macchiata di ruggine, era per me la visione più simile a quello che, a quel tempo, pensavo dovesse essere il paradiso.
Un mantello di fiori timidi e spruzzati di puro colore, si stendeva gioioso sulla terra denudata dal freddo dell’ inverno. Un vento profumato di sole, correva scherzando tra le siepi odorose di alloro, schivando le spine del rovo selvatico, geloso custode dei suoi dolci frutti.

Correvamo in quell’incanto come farfalle ingorde di vita, come se non ci fosse null’altro se non quell’unico giorno, quell’unica corsa, in un mondo ancora assopito ma pronto a sbocciare.
Non so quando, in quale preciso istante, ho compreso che la vita correndo mi aveva rubato l’infanzia.  Quella primavera che inondava le strade di luce, che pennellava di fuoco le case e le strade al tramonto, pian piano ha perso vigore. Come i tuoi passi, mamma, sempre più lenti, come i tuoi rari sorrisi sperduti, così quella pura energia si è dissolta, velata forse dai troppi dolori di un’esistenza vissuta in salita.

Oggi siedo anch’io su questa panchina, ed è bello sentire il vento accarezzare il mio viso, senza  pensare a un traguardo da raggiungere, solo ascoltando nel silenzio le pause tra le stagioni del mio cuore.

Mi siedo attenta a non disturbarti. Circondata dal gelsomino che invade, abbracciandola tutta, la recinzione di legno, e dalle rose, che ancora bagnate da uno scroscio improvviso di pioggia reclinano il capo quasi affrante, sembri uscita da uno di quei quadri impressionisti che tu amavi tanto.

Due sottili ciocche sfuggite al rigore della tua crocchia bianca ti accarezzano il viso, mentre le mani sottili e rugose trattengono un piccolo, fragile bocciolo. Guardo quel fiore reciso che forse ancora si aggrappa a una minuscola parte di quella vita che ormai l’ha lasciato, e penso a quanto è simile a te, mamma, che in fondo al tuo sguardo già celi un’assenza che non prevede ritorno.

-Sei stanca? È tardi, l’aria si è fatta più fresca, andiamo a casa- ti dico, mentre ripenso alle nostre merende, quando il profumo del burro e della vaniglia si scioglieva in quello dei lillà, in un connubio perfetto.
Ti scuoti, e ancora assopita mi guardi serena e sussurri – Mi scusi, mi spiace averla fatta aspettare. Le spiace accompagnarmi a casa? Mia figlia sarà preoccupata-.
-Certo, andiamo-. Ti sorrido, mamma, mentre il cuore sussulta per il troppo dolore. Ci avviamo lentamente. Un ultimo sguardo a quella panchina e una lacrima inaspettatamente sfugge al controllo e rotola dalla mia guancia fin giù nell’erba alta.

Un’inquietudine cupa, come nuvola che gravi sul sole, mi scivola addosso.

L’Alzheimer ha spento i ricordi, strappato una tela intessuta di infiniti fili d’amore.
Si è spenta la luce, smarrita in un vuoto infinito in cui ogni cosa è sospesa, in questa primavera che non riconosco più.

È proprio nel buio però che la vita, che non ti dimentica, ti tende la mano per non farti cadere.