Ci fu un castello, Irene de la Torre, Madrid
Menzione Premio Energheia Spagna 2023
Traduzione a cura della 4C/L, IIS Europa Unita di Chivasso (TO), con il supporto della Prof.ssa Gemma Escayola Rifa e della Prof.ssa Federica Gallo
– Mi sarebbe piaciuto che fosse successo a me e non a te, Lola.
Dico queste parole a mia sorella e, mentre finisco la frase, mentre pronuncio l’ultima sillaba del suo nome, quella ‘elle’ ora mi esce sonora affianco alla ‘a’ finale, mi rendo conto che mi è appena uscita da dentro, da qualche luogo imprevisto, come se mi fosse uscito dallo stomaco un pugnale tardivo e sfortunato. È qualcosa che fino ad ora non sapevo, l’ho notato qui, proprio davanti a lei, in questa stanza di ospedale senza niente sulle pareti, praticamente vuota, con le finestre sigillate. Mi sento esausta, preferirei con tutte le mie forze essere dall’altra parte, sentire mia sorella che mi dice questo, lei che mi spiega che avrebbe voluto che fosse successo a lei e non a me.
Tutte e due soffriamo in quell’ospedale. Per quello che è successo, per gli anni che ci abbiamo trascorso, ma sono due tipi di sofferenza diversa. Non siamo in competizione, ci sosteniamo a vicenda. È qualcosa che è andato sviluppandosi, che è andato sovrapponendosi, costruendosi, trasformandosi, con il passare degli anni. Adesso vedo noi da piccole, Lola a otto anni e io a sei. Siamo nel salotto della casa della nonna, col filo di voce di nostra madre e nostra zia, sua sorella, che parlano nella cucina, in sottofondo. L’odore del caffè appena fatto e del pane tostato.
– Facciamo un castello con le carte.
– Un castello? Come si fa?
Lola è sempre stata quella con le idee brillanti. Essendo la maggiore, mi illumina sempre il cammino, in cui lei è già passata, lei ha tutta la lucidità, è intelligente, la sua intelligenza è caleidoscopica. Va avanti nella vita a testa alta, osservando il resto dei mortali. Le dico che va bene, come a tutto quello che le viene in mente, lei mi guarda con una faccia trionfante, con la sicurezza che ha chi si sente ammirato, e si fa ammirare, e apre la scatola delle carte e le lascia tutte, tutte, tutte, distribuite e disposte sopra il tavolo del salotto. E questo mi rende un po’ nervosa, io avrei preferito lasciare un mucchio ben ordinato, senza nessuna che sovrasta l’altra. Però mia sorella è così, mia sorella è sempre così.
– E’ molto facile, però prima devi vederlo per poi poterlo fare te dopo. Ora guarda solo come lo faccio io.
– Va bene.
Lola passa la mano su tutte le carte che ha disposto sul tavolo, le sue gambe da bambina penzolano dalla sedia tappezzata del salotto, e adesso dondolano. Avanti e indietro, avanti e indietro. Si muove sulla sedia da una parte all’altra, da una parte all’altra. Io sono seduta vicino a dove sta lei, siamo separate ma noto la sua agitazione. In qualche modo mi fa male vederla nervosa, perché, anche se in fondo la ammiro, mi piace fare tutto il contrario di quello che fa lei, distinguermi. Essere unica. Una bambina con una personalità propria. Lola prende due carte e le appoggia una contro l’altra, sopra al tavolo, creando un piccolo triangolo che rimane in piedi, senza cadere. È la prima volta che lo vedo fare e mi sembra qualcosa di magico. Ma dobbiamo fare molta attenzione, non possiamo fare nessun movimento brusco vicino, se soffiamo più del dovuto, le carte cadranno, crolleranno.
Mi avvicino a Lola, che è in piedi, seduta sul bordo del letto, quei letti d’ospedale così freddi e grigi. Ha un sacco di riviste sul comodino, un libro di filosofia che mi ha chiesto di portarle dal suo scaffale. Completamente sottolineato e rovinato agli angoli. Ha lo sguardo un po’ perso, ma la sento calma.
– Come stai? Ti trattano bene qui?
– Io non mi merito questo, ero molto nervosa, e sono stata ricoverata. Non mi ricordo bene, ma io non ho fatto nulla. Dicono che sia stato un ricovero volontario, ma non è vero.
– Non te lo meriti, Lola, hai ragione.
Ping-pong, ping-pong. Mi sento in questo modo ogni volta che parlo con lei. Lanciandole le risposte, che finiscono per rimbalzare ma allo stesso tempo entrano nella sua testa, o almeno così spero. È come un gioco. Ma in questo gioco nessuno vince. Mai.
– Voglio che mi tolgano le medicine.
– Non è un problema prendere le medicine, Lola.
– Si che lo è.
– Se non le prendi ti ricovereranno di nuovo.
– Non è vero.
Quel giorno nostra madre ci regalò una scatola di carte. Una per una, in modo che non litigassimo. Era sempre così. Lo stesso giorno, sedute sul pavimento del salotto, sopra al tappeto, Lola strappò la carta da regalo, la fece a pezzi, aprì subito la scatola di carte. Ne macchiò alcune di cioccolato, ne perse parecchie. Io ricordo di aver aperto la mia con molta attenzione, di aver piegato la carta, di averla conservata. Tenevo sempre tutto. Avevo molte cose, non riuscivo a sbarazzarmi di niente, mi dispiaceva buttare via tutto, anche se era solo della carta da regalo di colore fucsia a stelle dorate. Rimasi a guardare la scatola di carte, senza aprirla, meravigliata. Ci passai le dita sopra, lentamente. Osservai i disegni colorati della scatola prima di aprire la plastica dell’involucro. Con cura, con delicatezza.
Mi siedo sulla poltrona che c’è affianco al letto dell’ospedale. Per le visite, suppongo. Sopra la poltrona ci sono un sacco di vestiti che mia sorella ha lasciato lì, senza piegare e non li tolgo. Sono piuttosto stanca per farlo e mi accomodo tra quelle felpe e quei pantaloni. Ora Lola mi guarda fissa negli occhi e io sostengo il suo sguardo.
-Non so perché mi abbiano chiamato Do-lo-res. Sebbene tutti mi chiamino Lola. Tu sei fortunata, il tuo nome è bello, ha un bel significato, è molto diverso.
-Hai ragione, Lola. Però io non posso farci niente. E neanche tu ora.
-Si che posso. Cambierò il mio nome. È illegale dare questi nomi, poi guarda dove finisco.
Ora Lola ha messo un altro triangolino affianco a quello che già si regge in piedi, e io osservo soltanto, sono la piccola. Ho lasciato il mento appoggiato sopra il dorso delle mani e guardo tutto attentamente, rimango imbambolata dai movimenti di mia sorella. Do un sorso dalla cannuccia al succo d’arancia che ci ha dato nostra madre per fare merenda. Un morso alla brioche. Però tutto questo lo faccio molto lentamente e con paura. Non voglio che cada il castello di carte e mia sorella faccia i capricci. Sebbene sia la maggiore, piange molto più di me. Si arrabbia molto più di me. Anche io sono sensibile, ma sono lacrime più delicate. Deglutisco il succo spaventata e cerco di non
muovermi, di non sbattere le palpebre.
-Non dovrei essere ricoverata. Non ho fatto niente.
-Lo so già, Lola
-Non mi piace neanche che veniate a trovarmi, potete fare le vostre cose. Non ho bisogno del vostro aiuto, della vostra compagnia.
-A me sì che piace venirti a trovare. Lo faccio perché voglio.
Una carta sopra, tra queste due torri, una carta orizzontale che sostiene la punta di questi
due triangoli. Mi sembra ancora incredibile che si possa fare questo con delle carte, con dei cartoncini sottili che quasi non sembrano avere resistenza. Sono incredibili le cose così belle che fanno oggetti che nemmeno immagini. A volte queste cose stanno lì, in qualche luogo nascosto, e non vengono mai alla luce. Io non avrei mai fatto un castello se Lola non me lo avesse insegnato. Mi sarei persa qualcosa se non fosse stato per lei. Mi sarei limitata a usare le carte per giocare, a fare il loro compito. Però la vita non era questo. La vita erano quelle cose. I castelli.
Mi sono risistemata su quella poltrona d’ospedale. Ho provato a piegare i vestiti di mia sorella, ma ho smesso. Di sicuro non serve a niente. Ora Lola si sdraia sul letto. Fissa lo sguardo sul soffitto.
– Io non ho fatto niente, sono sempre stata buona, mi sono sempre presa cura di tutti.
– Devi essere più egoista, Lola, e pensare a te stessa. A cosa vuoi fare tu.
Come se la fortuna si fosse messa un vestito nero e l’avesse lanciata in vita così. Senza pietà. La casualità di tutto, il tu sì però tu no. Tu rientri nei canoni sociali e tu no. Tu vali e tu no. Mia sorella vale molto, ma la società non è abbastanza valida per lei. Questo è quello che succede. Questo è quello che succede, ripeto. Solo questo.
Lola ha fatto una fila di tre triangoli, e ora sta posizionando il primo del secondo piano, come lo chiama lei.
– Non muoverti, cadranno, stai ferma.
– Ok, non mi sto muovendo.
Mi ha detto che renderà il castello più semplice, che ha tre pilastri sotto, due sopra e l’ultimo in cima. Ora prende il triangolo tra pollice e indice. Piega un po’ le carte prima di lasciarle. Mi sembra ancora un po’ enigmatico, straordinario. Non capisco nemmeno come il castello sia arrivato a questo punto, non so nemmeno quanto siano forti i castelli con una struttura così fragile.
– Ora fai molta attenzione, che metto l’ultimo triangolo, la cima del castello.
– Va bene.
– Non muoverti.
– No.
Lola mette quell’ultimo triangolo, al vertice, come mi ha appena detto. Quando lo fa, sorride soddisfatta. È contenta che non sia caduto, che sia finito, che sia ancora in piedi. Si alza come può dalla sedia, mi lascia lì, accanto, ammirandolo solo pochi secondi in più prima che la forza con cui Lola, di pura euforia, corre a chiamare nostra madre per vederlo, genera un soffio d’aria che fa vacillare il castello. Lo vedo barcollare, lo vedo barcollare, lo vedo barcollare. E alla fine cade, si sbriciola. Una carta dopo l’altra. Alcune cadono a faccia in su, altre a faccia in giù. Alcune sopra le altre, alcune arrivano a terra. Lola non ha assistito alla sua caduta, ma io sì. Io ho visto tutto, e non potrò nemmeno spiegarglielo, non ragionerà, non capirà. Vedrà il castello crollato quando tornerà.