I racconti del Premio Energheia Europa, Premio Energheia Europa

60 secondi, Nika Vrabec

Racconto finalista Premio Energheia Slovenia 2024

Traduzione a cura di Chiara Santambrogio e Nicolas Brunot,  Univerza v Ljubljani / SANJA PIRC

Premo il pulsante del semaforo. La sagoma rossa al centro della scatola nera si illumina, poi torna
subito allo stato precedente. Do un’occhiata dall’altra parte della strada e le cifre sei e zero appaiono in
rosso. Così sia, penso tra me e me. Se attraverso via Trubarjeva e giro su via Tržaška, passando
davanti alla Moderna Galerija, ho ancora tempo. Potrei anche prendere l’8, che mi porterebbe
direttamente alla stazione. Mi è capitato un paio di volte che il treno partisse proprio sotto il mio naso.
Da qualche parte dentro di me sento che oggi non sarà quel tipo di giornata. 55 secondi. Rosso.
Cerco senza pensarci lo scomparto della mia valigetta per tirare fuori gli auricolari. Mi ricordo del
nuovo album dei Koala che è uscito oggi: potrei vedere se è anche solo leggermente migliore
dell’ultimo. A volte i critici sono troppo indulgenti, penso tra me e me. Non riesco proprio a
sopportare tutto il frastuono della città affollata all’ora di punta, quando ci si avvicina al fine
settimana. Sono già abbastanza irritato. Mi infilo le cuffiette nelle orecchie e l’isolamento da tutto il
trambusto dell’ambiente circostante mi regala un momento di pace. Guardo di nuovo dall’altra parte
della strada: 48 secondi. Rosso.
Mi accorgo di non essere più solo nella mia attesa. Dall’altra parte si è fermata una donna con un
bambino. Entrambi sembrano un po’ svogliati. Il piccolo è imbronciato perché ha dovuto lasciare il
parco giochi in anticipo, la madre fa del suo meglio per attirare la sua attenzione, nel tentativo di farlo
smettere di ululare a squarciagola. Con tutto il traffico che c’è, il suo pianto non sembra nemmeno così
forte. Accanto a lui c’è un ragazzo, probabilmente un liceale. Deve andare ad allenarsi, forse è un
giocatore di basket, visto il suo abbigliamento sportivo; è alto almeno 1 metro e 90. Mi viene da
pensare che sto peggiorando nel riconoscere l’età, forse è ancora uno studente delle elementari. Non
lo so. 40 secondi. Ancora rosso.
Guardando più attentamente, noto che un’altra figura si è fermata. Alta e magra. Mi sembra di averla
già vista da qualche parte. Solo che i suoi capelli sono un po’ più corti, raccolti all’indietro e un po’ più
ordinati di come li ricordavo. Sulla sua spalla pende una borsa di tela, con la sagoma di una ballerina
spagnola e un ritratto sfocato della Gala di Dalì sullo sfondo. Fra le mani ne tiene un’altra, con una
grande e ben visibile scritta Zara. Porta dei jeans lunghi a campana, un maglione marrone
(probabilmente di Zara) e una giacca di pelle. Lo definirebbe sicuramente “vintage”. Sta parlando al
telefono. È impossibile che mi veda. 38 secondi. Rosso.
Osservo i suoi movimenti. Si muove ancora allo stesso modo: il suo corpo è goffo, a volte gobbo,
persino un po’ tozzo. Infila una mano nei capelli per spostare una ciocca che le cade sugli occhi. Forse
non è ancora abituata a questa acconciatura a caschetto, ha sempre portato i capelli più lunghi. I suoi
soliti gesti, come li ricordo. Tocco l’auricolare per fermare la musica. Forse riuscirò a cogliere la sua
voce, bassa, leggermente stridula. Il rumore delle auto è troppo forte, si è formata una lunga coda e
per qualche istante perdo il contatto con i pedoni dall’altra parte. Anche con lei. 30 secondi.
Il mio cuore inizia a battere più forte. È davvero possibile che sia lei? Non la vedo da così tanto
tempo, devono essere passati almeno tre anni. È stato poco prima di Natale, cazzo, penso, sono passati
davvero tre anni. La melodia “The good old days, the good old days” inizia a riecheggiare nella mia
testa. Ricordo le sfrenate notti d’estate, il suo profumo, il sale sulla sua pelle nuda. Le lacrime che
scorrevano sulle sue guance arrossate. “I bei vecchi tempi, i bei tempi che passavamo insieme”. Con la
coda dell’occhio la vedo ancora ballare goffamente in quell’angolo della pista da ballo. Una
Volkswagen Passat nera mi impedisce di vedere il semaforo, probabilmente presto diventerà verde.
Comincio a pianificare i possibili scenari. Cosa dirle, come salutarla. Forse non mi ha nemmeno visto.
Risponderà al mio saluto? Probabilmente non mi ha nemmeno notato. È anche vero che sono
cambiato un po’ in questi anni. Ho la barba più lunga, ma non sono più in forma come allora. Chissà
cosa penserà. Un gruppo di auto si ferma. 3, 2, 1… Il semaforo segna zero. Diventa verde.
Sento che il mio cuore sta per esplodere. Potrei rimanere dove sono e non muovermi mai più. Ingoio
la saliva, sento l’acido nello stomaco. Ho paura che mi salga il vomito. Il mio corpo inizia a muoversi,
faccio un passo, il piede sinistro davanti al destro. Ripeto la sequenza. Si avvicina sempre di più.
Finalmente ci incontriamo e la fisso direttamente in volto. Lei accenna un sorriso. Mi guarda. Schiudo
le labbra e muovo la lingua per pronunciare “ciao” o “ehi” o qualcosa del genere. Silenzio tombale. La
luce verde inizia a lampeggiare, istintivamente accelero il passo.
Piede sinistro, piede destro e raggiungerò l’altro lato della strada. Aggiusto lo zaino sulla spalla e
sposto la valigetta nell’altra mano. Guardo di nuovo dall’altra parte. La vedo allontanarsi in un vicolo
stretto sulla sinistra, dritta verso il teatro. In quel momento mi rendo conto. Non era lei. Sembrava la
stessa. Ma gli occhi erano estranei. Il suo profumo era diverso. Il sorriso non era quello giusto.
Mi fermo un attimo per calmarmi. Guardo un enorme cartellone che pubblicizza una vacanza in
Grecia; in prima battuta: “Andiamo al sud, ragazza!”. La sagoma di un aereo sulla destra del
manifesto. Vedo l’autobus numero 8 venire verso di me. Mi rendo conto che ho un treno che parte alle
17.05 e devo prenderlo.