I racconti del Premio letterario Energheia

Il concerto, Piero Didio_Montescaglioso(MT)

Finalista Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione adulti

Il sole stava calando rapidamente dietro la selva di antenne che spuntava dai tetti dei palazzi di fronte. Dalla sua finestra l’uomo fissava senza alcuna emozione quell’orizzonte artificiale, lo sguardo fisso sul nulla a inseguire dei pensieri, forse dei ricordi. Il trambusto del traffico nell’ora di punta lo avrebbe raggiunto fino al quinto piano di un antico palazzo signorile nel cuore della città, ma l’uomo indossava delle cuffie Bose, e la Sinfonia n. 40 di Mozart sparata a metà volume avrebbe coperto anche il boato di un bombardamento in pieno centro. Era quello il volume giusto, perché la musica, lui, l’aveva sempre ascoltata stando in mezzo all’orchestra; voleva sentire le soffiate a vuoto dei clarinetti, il rumore delle dita mentre danzano sul manico dei violoncelli, gli archetti che cadono sulle corde dei violini, perfino il fruscio dei fogli degli spartiti che girano. Per lui era quella l’anima vera della musica, quella che faceva palpitare il cuore dei musicisti. In alcune registrazioni, molto rare in verità, aveva trovato quasi la stessa anima, ma da quel suo posto, nella seconda fila dei violini, la musica gli giungeva viva, vibrante, gli penetrava i pori e colpiva tutti i suoi nervi. Cosa avrebbe dato per tornare ad occupare quel posto, non già per lavoro, anche solo per rivivere quelle sensazioni di pura estasi che ti raccontano di Dio e del creato.

Ora il suo violino era lì, nella custodia, appoggiato sulla poltrona e pronto come lo era stato per quarant’anni. In tutti quegli anni l’uomo aveva sempre preparato tutto scrupolosamente la sera prima perché detestava arrivare in ritardo. Non sopportava quel quarto d’ora accademico che molti suoi colleghi si permettevano, e ancor meno sopportava quei direttori, pochi in verità, che lo concedevano.  Ma ora, da quasi due anni, quel violino non suonava più, almeno nei grandi teatri e nelle sale da concerto.  A settant’anni l’uomo era ormai in pensione e si limitava ad impartire qualche lezione privata, gratuitamente, solo per impegnare il tempo.

Non si può dire che la sua vita fosse stata avara di successi; aveva suonato nei maggiori teatri del mondo e, soprattutto, con tutti i più grandi direttori d’orchestra. In quarant’anni di concerti aveva visto nascere e morire tanti direttori, carriere esplose in strepitosi successi e tonfi clamorosi.

Dalla musica aveva ricevuto grandi soddisfazioni e lui aveva ricambiato amandola in maniera assoluta, passionale ed esclusiva. Per essa aveva rinunciato a farsi una famiglia ed ora, quando avrebbe potuto sentirne la mancanza, non sentiva alcun rimpianto per quella sua risolutiva scelta di vita. Eppure, spesso, il suo sguardo andava a posarsi, del tutto inconsapevolmente, su quei suoi coetanei che accompagnavano i nipoti a scuola oppure ai giardini pubblici. Il suo inconscio, probabilmente, seguiva la naturale evoluzione umana, insensibile alle scelte che egli, invece, si era imposto.

Giunto, ormai, al tempo dei bilanci lui si riteneva ampiamente soddisfatto della sua vita e della sua carriera. Solo un rimpianto, di tanto in tanto, gli procurava un velo di amarezza che ammantava i suoi ricordi: non si era mai seduto al posto di primo violino, quello di fronte al direttore d’orchestra, quel posto che dà il diritto di ricevere gli applausi del pubblico. In realtà una volta era successo che il direttore gli aveva assegnato quella prestigiosa seggiola.

Lui aveva poco più di trent’anni e la sua carriera stava attraversando un fortunato periodo. La sua orchestra aveva organizzato un tour tra i più prestigiosi teatri d’Europa con l’intero repertorio dedicato Vivaldi. La prima tappa prevedeva il Covent Garden di Londra e l’intera orchestra si era ormai trasferita nella capitale britannica per le ultime prove.  Lui era al settimo cielo perché, ormai, la sua carriera aveva preso il volo e stava per diventare famoso in tutto il mondo. Tre giorni prima della grande serata, dopo le prove, stava rientrando in albergo con alcuni suoi colleghi quando un’auto lo investì. Attraversò le strisce pedonali guardando dal lato sbagliato, dimenticando che in quel paese le auto viaggiano sulla sinistra. L’auto, guidata da un automobilista ubriaco, lo scaraventò per una decina di metri sull’asfalto e la sua vita restò appesa a un filo per diversi giorni. Ovviamente, per la dura legge che regola il mondo dello spettacolo, lo show doveva continuare e la seggiola di primo violino fu riservata a qualcun altro. Restò lontano dai concerti per quasi un anno e solo grazie al suo amore smisurato per la musica fu in grado di ritornare a suonare il violino. Ovviamente la sua carriera ne risentì pesantemente e quel suo sogno di primo violino svanì definitivamente. Quella triste vicenda restò famosa nel suo ambiente e se ne parlò per molto tempo. Ma il mondo dello spettacolo è famoso per la crudeltà delle sue regole e sembrava che la vicenda suscitasse considerazioni, perlopiù, divertite. Dell’episodio lui cercava di parlarne il meno possibile perché inevitabilmente il discorso scivolava sull’ineluttabilità del destino, sul fato crudele o su altre simili banalità alle quali lui non riservava nessuna considerazione. Aveva costruito la sua carriera sullo studio, prima, e sul duro lavoro poi; sciocchezze come la fortuna, sfortuna o mala sorte non lo sfioravano neanche e quei discorsi gli procuravano solo un senso di fastidio che non riusciva a nascondere ai suoi interlocutori. Per tale motivo cercava di eludere l’argomento ogni qualvolta ritornava nei discorsi con i suoi colleghi. Ma la sua carriera era compiuta e tutto gli sembrava, ormai, vecchio e inutile. Gli restavano solo due pareti del suo soggiorno completamente ricoperti di diplomi, attestati, riconoscimenti e foto, decine di foto.  Lui ormai non li guardava più, e se erano ancora al loro posto era solo per la pigrizia che gli impediva di rimuoverli e ripitturare la stanza, perché al loro posto ci sarebbero stati numerosi segni vuoti. “Il passato è passato” si ripeteva quando le tarme della nostalgia provavano ad attaccare la sua coscienza “e rivangarlo non porta a niente di buono”.

Quel giorno aveva deciso di regalare il suo violino a un giovane che era stato suo allievo qualche anno prima e che era diventato un buon violinista. Lo aveva incontrato in una circostanza abbastanza curiosa e in un luogo inusuale per un ragazzino di undici anni: l’ingresso del teatro della sua città. Lui stava entrando per assistere a un concerto e notò quel ragazzino seduto sulle scale esterne del teatro, con l’aria costernata di chi desidera ardentemente qualcosa che non può permettersi.

«Ragazzo, stai bene?»

«Sì, sto bene, non si vede?» gli rispose il ragazzo con un cenno di stizza.

«Beh, la tua non mi sembra proprio una faccia felice. Sei sicuro di stare veramente bene? Hai per caso fame?»

Il ragazzino lo guardò, indeciso se dargli confidenza o mandarlo a quel paese.

«No, sto bene» gli rispose serio «non sono al punto di morire di fame. Il fatto è che mi piacerebbe essere là dentro» e indicò la porta del teatro «e invece mi tocca guardare con invidia tutti quelli come te che stanno entrando per il concerto».

«Guarda che lì ci sarà un concerto di musica classica, mica di Jovanotti».

«E chi lo sente Jovanotti» gli rispose il ragazzino «io ascolto Mozart, Bach, Beethoven. Mio nonno, mi ha lasciato dei dischi, sai quei dischi di plastica di una volta».

«In vinile» lo corresse l’uomo.

«Sì, in vinile. Lui ascoltava sempre quelli e io me ne sono innamorato. Adesso mio nonno non c’è più, ma io continuo ad ascoltare quei dischi tutte le volte che posso».

«Beh, mi fa piacere, ma tu a quest’ora dovresti essere a casa. I tuoi genitori saranno preoccupati per la tua assenza. Non hai un cellulare? Almeno avvisali che sei qui e che stai tornando a casa».

«Nessuno si preoccupa per me. Mia madre fa la cameriera in quel ristorante lì in fondo» e indicò un ristorante poco distante dal teatro «qualche sera l’accompagno al lavoro e poi l’aspetto per tornare a casa. Sai, è perché mi annoio a stare da solo a casa, e poi stasera sapevo del concerto».

«E tuo padre?»

«E chi lo conosce» rispose il ragazzo «Ogni volta che chiedo a mia madre, lei parte con le bestemmie. E meglio non toccare quell’argomento».

«A che ora finisce di lavorare tua madre?»

«Verso mezzanotte» rispose il ragazzo.

«Allora facciamo in tempo a terminare il concerto» gli disse l’uomo «Come ti chiami?»

«Enrico»

«Vieni con me Enrico, ti farò entrare io».

I due entrarono nel teatro e quell’ambiente così speciale affascinò il ragazzo al punto che stava per perdere contatto con il suo benefattore. Gli stucchi dorati, i magnifici affreschi e i lampadari scintillanti, le poltrone in velluto rosso e quell’enorme drappo, anch’esso di velluto rosso, che nascondeva il palcoscenico lo rapirono come Alice nel paese delle meraviglie.

Quando le luci si spensero e dal palcoscenico cominciarono ad innalzarsi le prime note, al ragazzo vennero le lacrime agli occhi e il suo piccolo petto si gonfiò sotto i tambureggianti battiti del suo cuore impazzito, tanta era l’emozione per quella sua indimenticabile esperienza. Da quel giorno l’uomo iniziò a impartire gratuitamente lezioni di musica ad Enrico.

L’uomo era ancora lì, davanti alla sua finestra, con lo sguardo nel vuoto tra quelle antenne che deturpavano in modo osceno il tramonto. Il suo cellulare squillò, ma lui non poteva sentirlo perché aveva Mozart nelle cuffie. Vide quel cellulare che iniziò a muoversi e a spostarsi sul tavolinetto come se fosse animato di vita propria. Guardò il numero sul display, ma non lo riconobbe senza i suoi occhiali. Era indeciso se rispondere e affrontare quella seccatura o fare finta di non aver sentito e godersi le ultime note della Sinfonia n. 40. Il telefono, nel suo moto innaturale, si avvicinò pericolosamente al bordo del tavolinetto e stava per lanciarsi nel vuoto come un suicida disperato. Lui lo afferrò prima dell’insano gesto e, giacché c’era, rispose.

«Ehi, sei tu?» gli fece la voce dall’altro capo del telefono.

«Evidentemente sono io, se è me che stai cercando, ma tu che sei?»

«Sono Giorgio. Come va? Stai bene?»

«Ciao Giorgio. Sì, sto bene, più o meno».

«Senti, non prendere impegni per domani sera. Lavati, sbarbati e tira fuori lo smoking dalla naftalina. Alle sette passo a prenderti e porta con te il violino».

«Ma che accidenti vai dicendo. Cosa dobbiamo fare domani sera?»

«Senti, non ho tempo per spiegarti. Il direttore ha organizzato un concerto per beneficenza, per la Caritas parrocchiale credo, e mi ha chiesto di invitare qualche bravo violino perché tutto è stato organizzato nella massima fretta e gli manca ancora qualche strumento. Comunque, devo fare ancora mille telefonate. Tu tieniti pronto per le sette. Ciao». L’uomo chiuse il telefono senza dare alcuna possibilità di replica.

Giorgio Maroni era stato un suo collega, uno con cui ancora si vedeva di tanto in tanto, ma quell’invito fatto così, quasi con il telegrafo, lo lasciò interdetto. Non aveva deciso se andarci oppure no, ci avrebbe pensato.

Enrico aveva la chiave dell’appartamento, entrò e vide l’uomo nuovamente alla finestra.

«Per domani sera sono stato invitato a suonare in un concerto per beneficenza» disse appena entrato.

«Anch’io» rispose l’uomo «ma non ho capito un accidente di che si tratta. Ne sai qualcosa in più tu?»

«So soltanto che si tratta di un concerto per raccogliere fondi per la Caritas».

«Ma, così? Non si prova più prima di un concerto?»

«Forse non c’è stato tempo, probabilmente sarà per una emergenza umanitaria come ormai ce ne sono tante». La questione cadde in quel modo, nel vago, esattamente come era partita, ma ormai non poteva rifiutare; suonare per beneficenza era un obbligo e lui ci sarebbe stato. Soprattutto, per la prima volta, avrebbe suonato insieme al suo allievo, a quell’allievo così speciale che aveva raccolto dalle scale di un teatro, una sera, e lo aveva portato ad una promettente carriera.

Come al solito, alle 18,30, era già pronto. Cominciò a passeggiare nervosamente nel salotto in attesa che qualcuno passasse a prenderlo. Avesse deciso di andarci da solo probabilmente sarebbe già a teatro, ma il suo amico gli aveva detto che passava a prenderlo e ora gli toccava aspettarlo.  Alle 19,00 in punto squillò il telefonino:

«Io sono giù, muoviti che non riesco a parcheggiare».

«Arrivo».

In macchina c’era anche Enrico ad aspettarlo.

«Vi conoscete voi due?» disse l’uomo.

«Sì», rispose Enrico «ci siamo già incrociati in più di una occasione».

«Bene, così faremo a meno delle presentazioni».

Mezzora dopo erano a teatro. Entrarono dall’ingresso riservato agli artisti e si diressero alle quinte. Entrarono in un camerino.

«Attendiamo qua» disse Giorgio.

«Come attendiamo qua?» gli rispose l’uomo.

«Sì, il direttore ha detto di attendere. Tieni, questo è il programma della serata».

«Ma è assurdo» disse l’uomo «non si è mai visto che un musicista riceva lo spartito quindici minuti prima del concerto».

«E’ Vivaldi» gli rispose Giorgio «tu lo conosci a memoria, puoi anche fare a meno dello spartito».

«Sì, ma è comunque una stronzata, senza neanche lo straccio di una prova. Non posso crederci». Scosse la testa sconsolato e si mise a guardare il programma. Quel programma, per quello che riusciva a ricordare, era esattamente lo stesso della tournée che avrebbe dovuto fare oltre trent’anni prima se non avesse avuto quel terribile incidente. Giorgio ed Enrico erano spariti. Ad un tratto qualcuno bussò alla porta e gli disse di raggiungere l’orchestra. Si avviò verso il palcoscenico da solo. Ebbe un attimo di smarrimento perché oltre a lui, e all’inserviente che lo aveva chiamato, non c’era nessuno dietro le quinte. Si affacciò sul palcoscenico e vide tutti i musicisti già al loro posto, la sala gremita di spettatori, fu assalito dal panico perché riteneva di essere in ritardo. Una voce parlò al pubblico e accentuò il panico nell’uomo:

«Signore e signori ecco il maestro …» disse il direttore d’orchestra annunciando il suo nome ad alta voce. Scoppiò un applauso fragoroso mentre tutti si alzarono in piedi, compreso i musicisti. L’uomo restò di stucco. Non credeva ai suoi occhi e alle sue orecchie. Gli sembrava di vivere in un sogno o in un incubo. Le gambe iniziarono a tremargli e il cuore sembrava impazzito tanto che temette che gli schizzasse fuori dallo smoking. Si diresse verso quello che per quarant’anni era stato il suo posto, ma lo trovò occupato. C’era una sola sedia libera, proprio di fronte al direttore d’orchestra, quello di primo violino. Cercò di riacquistare l’aria seria e professionale dei grandi concerti e si accomodò come se fosse un normalissimo concerto, uno degli innumerevoli concerti ai quali aveva partecipato seduto lì, ma nella seconda fila. Cercò con lo sguardo il suo amico Giorgio di fianco ad Enrico, li vide dietro di lui, in quella che era stata la sua fila, che continuavano ad applaudire. Intuì che gli artefici di quella serata erano loro. Li guardò con un cenno di riprovazione, ma con una gioia infinita nel cuore. Dopo tutti quegli anni, quella era la sua rivincita su quel destino crudele che non aveva mai voluto riconoscere. Ad un cenno del direttore la sala piombò nel silenzio e fu il momento della musica.