I brevissimi 2024 – L’ospite, Giorgio Marconi_Roma
Anno 2024 (Le stagioni: Inverno) – menzione
Mi desto…
Le pupille sono stimolate dal tenue chiarore dell’aurora.
In quello stato di sospensione, fra sonno e veglia, percepisco, nettamente, il lento sovrapporsi della coscienza al subcosciente fino a coincidervi e a condurmi alla consapevolezza di essere sveglio.
Sento l’aria gelida confluire con più vigore ai polmoni e da questi essere pompata verso bocca e naso, poi, al di fuori di me in vaporose nuvolette. Sento i battiti farsi via via più accelerati, le funzioni vitali riprendere il loro giusto ritmo primaverile, dopo il torpido letargo dell’inverno notturno. Ho paura…
Come ogni mattino di questo inverno.
Oramai da troppi giorni.
Lo so. È lì, davanti a me. Forse ancora dorme, però c’è. Sento l’ansimo del suo respiro affannoso. Non ho il coraggio di socchiudere gli occhi. Mi infastidisce la vista di quell’uomo non più uomo. Un cupo ronzio mi pervade la mente, i timpani e i sensi tutti.
Ho la testa confusa, un vorticoso turbinare di frammenti di idee, pensieri monchi, concetti mutilati.
Dannazione. Non avrei dovuto permettergli di stare qui, dargli la mia ospitalità. Qualche giorno, forse una settimana, al più un mese. E, invece, è dall’inizio dell’inverno, e mi sembrano secoli, che ogni mattina mi aggredisce con il suo aspetto sciatto, volgare, dimesso. Lo sento tossicchiare stizzosamente. Catarro insano arrochisce i suoi rantoli. Sento, fino a me, fin dentro di me, il disgustoso tanfo liquoroso del suo alito.
Sollevo le palpebre impastate, faticosamente: quanto pesano! Le dischiudo, quel tanto che basta per vedere la sua goffa sagoma. L’ovale prominenza del suo stomaco, sformato da zuccheri e alcool!
Eccolo li! La trapunta grigia lercia gli penzola su un lato fino al pavimento, lasciandogli scoperto un fianco e gli slip azzurrini a pois rosa, tesi sul ventre oltre il possibile. Glieli aveva comperati la moglie, quando ancora ne aveva una in grado di sopportarlo.
Saranno passati più di dieci anni. Una donna amorevole, paziente e innamorata. Quante ne aveva passate accanto a lui, tante da non poterne più. Quante volte l’aveva picchiata, umiliandola, quando la trovava sveglia, all’alba, ad attendere il suo barcollante ritorno.
Da quando lo avevo ospitato, non si era mai azzardato a sollevare un solo dito su di me. Ci mancherebbe! Anche se, a volte, mi sono trovato strane ecchimosi sui dorsi delle mani.
Che ore saranno? Le undici?
Dalla luce accecante che mi ferisce le pupille, forse anche qualcosina più tardi, anche se il freddo è sempre pungente. È ora di alzarsi. Però non voglio vederlo. Non voglio guardare, ancora una volta, dentro quegli occhi vuoti. Incrociare di nuovo la sua espressione assente, dolente.
Se ne sta lì, seduto sul letto, a scrutarmi. A osservarmi come se avesse visto un fantasma, ma senza averne paura. Oramai la paura è un qualcosa di superfluo che non può, né vuole permettersi. Mi guarda come fossi io a essere fuori fuoco, a essere sempre fuori posto in questa vita.
No! Stavolta non mi alzo. Aspetto. Magari si alza lui per primo, oggi.
La testa mi duole, batte, al ronzio si accompagna un sottofondo di batteria, piatti, grancassa e quant’altro di più rumoroso. Non me la sento di reggere la vista delle sue occhiaie profonde, di quei capelli brizzolati, incolti, di quella barba di quattro, cinque… Dio solo sa quanti giorni.
Dovrò decidermi, prima o poi. Sarà una decisione drastica, ma oramai sta diventando sempre più inevitabile.
Non voglio più svegliarmi con l’angoscia di dover vedere davanti a me uno spettacolo così deprimente.
Sarà egoismo, non so; so soltanto che non ce la faccio più!
Sta finendo l’inverno e DEVE finire anche questo supplizio.
Oramai ho deciso!
Domattina quel maledetto specchio non sarà più di fronte a questo letto: potete starne certi!