Quelli che bruciano_terza parte
_di Helena Janeczek_
È stato attraverso il blog di Grillo che Mauro Sari ha appreso il modo per uccidersi a imitazione del sacrificio dei monaci tibetani, bonzi vietnamiti o di Jan Palach in piazza San Venceslao appena invasa dai carri armati sovietici? Ha pensato il suo ultimo gesto come estremo richiamo d’attenzione, come messaggio scritto in carne e fuoco perché fosse udibile sino allo strazio da colui nel quale aveva investito le sue ultime speranze? Ignorava che, a dispetto del parallelo tracciato da Beppe Grillo e del paragone con i “monaci tibetani” con il quale la sua morte è stata onorata dai militanti di Cesena, il suo grido estremo di torcia umana non aveva alcun potere di diventare scintilla come era invece avvenuto in Tunisia dopo che l’ambulante Mohamed Bouazizi si era dato fuoco?
Il numero delle persone che negli ultimi quattro mesi si sono date fuoco in Italia è impressionante. Ne ho contati una quindicina, esclusi Mauro Sari e l’imprenditore edile di Bologna ricordato da Grillo, ai quali si aggiungono uomini e donne che hanno compiuto quel gesto di estrema violenza contro se stessi per la fine di una relazione, una lite, una depressione cronica. Per disperazione sociale si sono dati fuoco un pensionato settantenne a Corigliano Calabro; un operaio licenziato di Forli davanti a Montecitorio; un disoccupato di 39 anni a Cesarano, Lecce; un trentenne senza lavoro a Quartu, Cagliari; un sessantenne licenziato a Firenze; un altro licenziato di 53 anni vicino a Roma; una pensionata alla quale era arrivato lo sfratto esecutivo sempre a Roma; un uomo con la casa pignorata che ha cercato di portarsi dietro la famiglia a Vittoria, nel Ragusano. Ma anche un diciannovenne della Costa d’Avorio che stava per essere espulso a Fiumicino, un marocchino disoccupato senza più permesso di soggiorno a Rimini, un imprenditore cinese di Faenza, un autotrasportatore tunisino a Ancona, un algerino senza lavoro a Varese, un bracciante albanese che protestava contro il caporalato sempre a Vittoria.
Nel caso in cui le autocombustioni non hanno avuto esito letale e ancora più quando si tratta di stranieri (morti o meno), l’attenzione mediatica spesso si riduce a poco, pochissimo. Stampa e tv possono avere altrettanto interesse a focalizzare un dramma particolare (Servizio Pubblico ha divulgato quello del suicida di Vittoria) quanto a far passare in sordina l’estensione intera del fenomeno: vuoi per non accentuare il rischio di un’imitazione epidemica, vuoi per ottundere la percezione negativa della misura a cui è giunta la disperazione sociale nel paese. Dal canto suo, il M5S non sembra intenzionato a iscrivere nel proprio martirologio magrebini, ivoriani e cinesi, nonostante la percentuale di questi soggetti privati da qualsiasi certezza di diritto – sociale e civile – risulti altissima rispetto al numero complessivo degli abitanti dell’Italia in crisi.
Eppure il tunisino che si è dato fuoco ad Ancona somiglia molto più al Forlivese bruciato davanti a Montecitorio che a Mohamed Bouazizi e a tutti coloro che, seguendo il suo esempio, hanno aiutato a far divampare le rivoluzioni del mondo arabo: né i corpi in fiamme degli immigrati percepiti come extracomunitari (la parola stessa dice tutto) né quelli degli italiani sono stati recepiti da un corpo sociale esteso come una parte di sé che si autoimmola. Sono “sacrifici” che si riducono a suicidi particolarmente violenti e accusatori, sono in senso traslato tutte morti “extracomunitarie”.
Riassumo a memoria e quindi con il rischio di distorcere il pensiero di René Girard quando afferma che più le basi di una società sono fragili e erose, più in essa aumentano quei sacrifici che dovrebbero garantirne il patto (e ricompattamento) fondamentale.
Per questo appare sinistro e sintomatico che oggi in Italia tante persone ripetano il suicidio secondo una modalità sacrificale (e politica), però non generando altro che una fiammata che si consuma nel giro di qualche notiziario o di una trasmissione televisiva. In Spagna – per fare l’esempio della nazione più vicina – l’ondata dei suicidi causati dalla crisi è stata almeno accolta e tematizzata nelle recenti grandi manifestazioni. In Italia, invece, l’unico corpo che ha cercato di ridarsi un’identità collettiva si è aggregato intorno al M5S e a Beppe Grillo. Neppure se interpreta il ruolo in modo consapevole o compiacente, il leader senza il quale il Movimento non avrebbe mai saputo incanalare tanta rabbia, disperazione e speranza, può essere ritenuto colpevole del fatto che l’Italia versi in uno stato di sfacelo economico, sociale, politico, culturale e persino, in senso ampio, spirituale, da essere stato accolto come ultima spiaggia o novello salvatore in un clima sospeso tra Neofeudalesimo e Basso Impero senza fine. Nessun altro linguaggio e immaginario avrebbe saputo fare presa su cittadini tanto divisi e devastati dalla sfiducia in qualsiasi degna rappresentanza: non certo quello della sinistra governativa che si è giocata i (pen)ultimi riflessi automatici di poter essere riconosciuta come tale, nemmeno l’arco della sinistra che sta cercando di riconnettersi e ritrovare energia e visione.
All’indomani del suo attacco a Stefano Rodotà, l’ “ottuagenario miracolato dalla rete”, Grillo mitiga la sua sparata, fornendo in più una spiegazione per molti aspetti limpida.
“Rodotà non è il presidente del M5S, ha un’altra storia politica, che coerentemente, mantiene. La sua onestà non è in dubbio e neppure la sua intelligenza. Non per questo posso assistere impassibile alla costruzione di un polo di sinistra che ha come obiettivo la divisione del M5S in cui lui si è posto, volente o nolente, informato o meno, come punto di riferimento. Il M5S non è nato per diventare il Soccorso Rosso di Vendola e Civati, di Delrio o di Crocetta. E’ una forza popolare che è del tutto indifferente alle sirene della sinistra e della destra che in realtà sono la faccia della stessa medaglia.”
Sta diventando sempre più evidente che il capo del movimento preferisce andare incontro a eventuali fuoriuscite o scissioni e persino mettere in conto una parziale perdita di consenso pur di tutelare quello che immagina essere il nucleo fondante del suo potere d’aggregazione: l’immaginario di un corpo sociale né di destra né di sinistra, il corpo del Popolo (etnicamente) italiano dissanguato dalle oligarchie politico-economiche d’Italia e d’Europa.
Ma in questa luce appare ancora meno rassicurante che alle ultime elezioni amministrative l’unico a uscire visibilmente sconfitto sia stato lui e il suo movimento. Ha acceso una speranza che andava oltre a qualcosa di concreto ma che, al contempo, albergava una grande attesa che qualcosa di concreto si muovesse (il “fare qualcosa” di cui parlava Piscitello). Invece concretamente è accaduto che tutto continuasse come prima, peggio di prima. La delusione, a mio parere, trascende di gran lunga le possibili imputazioni razionalizzabili (il rifiuto di dialogo o di alleanza con il Pd, la delusione per l’inadeguatezza dei parlamentari M5S ecc). Risulta dal semplice scontro delle speranze con la realtà o il suo celebre principio. Accendere una speranza e poi deluderla crea un urto molto più forte che continuare a vivacchiare dell’erosione di promesse e identità, linea che il Pd crede (o si illude) di poter portare avanti come strategia minima di sopravvivenza, forse all’infinito.
La delusione nel M5S non è una buona notizia per nessuno: anche perché le strategie per ripararvi che si delineano all’orizzonte sono due. La prima, già avviata, è l’istruzione di una decina degli esponenti più fedeli per comparire più spesso in tv, grazie a un corso in comunicazione impartito da Grillo e Casaleggio. La seconda sembra risiedere in un calcolo più a lungo termine. La crisi si aggraverà, la disperazione aumenterà, la delusione sul “non aver fatto nulla” all’indomani delle elezioni politiche sarà dimenticata di fronte al fallimento del governo.
A quel punto, persino se si fosse costituita (cosa poco probabile) una formazione di sinistra con dentro Rodotà e Zagrebelsky, Vendola, Civati, Landini, Barca, Ingroia, i dissidenti del M5S e chi più ne ha più ne metta, questa arriverebbe probabilmente a raggranellare non più del dieci per cento; mentre Grillo, fermo sulla sua linea, presumibilmente riguadagnerebbe quota.
Sento già un commento classico: “perché questo, in fondo, non è un paese di sinistra.”
Mi pare una risposta troppo facile, autoassolutoria e in fondo vittimistica.
Il problema di come ripensare una politica di sinistra in tempi della crisi strutturale del lavoro e del welfare e nonché in un’epoca in cui c’è da tutelare anche l’ambiente e non più soltanto gli uomini, non riguarda solo l’Italia. È difficile essere aggreganti quando si hanno più domande giuste che risposte già fatte e convincenti. È difficile quando gli spunti e le spinte migliori vengono da una sorta di laboratorio o cantiere mobile, le cui elaborazioni presentano, per forza di cose, caratteri in parte poco accessibili e elitari (nemmeno Il Capitale si riassume in due slogan). Infatti è giusto, è necessario che ci sia questo sforzo di molte persone colte che parlano bene, scrivono bene, spesso vestono bene, se queste, come sta accadendo, sono comunque disposte a confrontarsi con la realtà complessa di un paese stremato e socialmente polverizzato.
Solo che non può bastare.
Forse è inutile specificarlo ma la via d’uscita non può nemmeno passare per i semplici trucchi della comunicazione, la grande scuola manipolativa che Berlusconi ha insegnato un po’ a tutti (politici e media d’ogni colore) e nel cui potere tutti ripongono una fiducia temo e spero eccessiva. Né può essere delegata a un altro leader che sul terreno bipartisan-popolare sia in grado funzionare come Matteo Renzi: perché i problemi da affrontare investono l’enorme fascia di cittadini che gli effetti della crisi sociale, economica e politica li sta scontando, perché c’è bisogno realmente di risposte che affrontino alla radice l’ingiustizia sociale dilagante e lo svuotamento di prospettive.
Forse una delle prime cose sulle quali dovremmo fare chiarezza è un aspetto all’apparenza scontato e banale, ma nella realtà parecchio difficile da mettere a fuoco e perseguire con vera convinzione. Una politica di sinistra oggi non può più limitarsi a cercare di aggregare chi in qualsiasi modo si identifica (ancora) con la sinistra. Deve tornare a occuparsi di tutti i soggetti socialmente deboli anche se la loro identificazione con la sinistra non c’è mai stata o è stata persa da qualche decennio: dai migranti ai cassaintegrati ai precari alle partite Iva ai microimprenditori che hanno prima votato Berlusconi (o Lega) e poi Beppe Grillo. La frontiera dei conflitti economico-sociali (dello scontro tra Capitale e Lavoro, se volete) si è spostata e continua a farlo; però innescando tanti conflitti parziali, scenari di guerra tra poveri o impoveriti che, come non è mai successo prima, rendono difficilissimo tutelare i bisogni e interessi di un gruppo senza ledere quelli di qualcun altro. Tenerne conto richiede uno sforzo enorme di attenzione e d’inventiva che non so nemmeno quanto potrà mai essere ripagato. In Grecia, per esempio, dove Syriza è diventato forza politica maggioritaria, abbiamo assistito alla contemporanea ascesa dei neonazisti di Alba Dorata e la loro penetrazione presso le fasce popolari più sfiancate.
Non si tratta di trovare la ricetta per vincere le elezioni o di far crescere nei termini di voti una sinistra degna della sua stessa definzione, ma di un obiettivo al contempo più modesto e più radicale: tornare a partecipare alla politica, fare politica per farla, per rompere la solitudine e l’atomizzazione delle nostre vite a cominciare da noi stessi, nella piena consapevolezza del punto della notte a cui siamo.
ps. spero di aver inserito tutti i link davvero utili per chi volesse approfondire o farsi un’idea più diretta guardando i video nominati.