OUA (Unione degli Stati Africani), l’incompiuta
Sorta sotto la spinta della decolonizzazione e del panafricanismo, l’Organizzazione per l’unità africana è stata una realtà intergovernativa, preoccupata di salvaguardare sovranità, integrità territoriale e indipendenza dei suoi stati membri. Ma incapace di gestire crisi, guerre civili e di difendere i diritti umani.
_di Paolo De Stefani_
Il 25 maggio del 1963, nel mezzo del processo di decolonizzazione che aveva investito l’Africa con la formazione di decine di nuovi stati indipendenti nel giro di pochi anni, si costituiva ad Addis Abeba l’Organizzazione per l’unità africana (Oua). Sono tre i fattori di forza che all’epoca premevano nella direzione della creazione di un’organizzazione internazionale regionale di questo tipo. In primo luogo, appunto, l’onda lunga e rivoluzionaria della decolonizzazione: il riconoscimento del diritto dei popoli all’autodeterminazione come pietra angolare del nuovo assetto internazionale nato dopo il collasso europeo della seconda guerra mondiale. La seconda carica di energia veniva dal panafricanismo, un movimento politico, culturale e ideologico che ambiva a riunire i popoli africani e della diaspora africana nell’affermazione di un’identità da far valere anche nella sfera internazionale. Infine, condizionava tale sviluppo l’autorità morale e politica esercitata dalle Nazioni Unite. La nuova organizzazione doveva essere un’esemplare “organizzazione regionale” ai sensi dell’art. 53 della Carta dell’Onu, in grado di collaborare con l’organizzazione universale e con il suo Consiglio di sicurezza al perseguimento degli obiettivi comuni di pace, sicurezza, sviluppo e tutela dei diritti umani. La stessa denominazione della nuova entità internazionale segnala la sua affinità con l’Onu.
Queste forze politiche e ideali hanno trovato tuttavia limitata espressione nell’Atto istitutivo dell’Oua. Forse ha pesato la scarsa dimestichezza dei leader politici africani dell’epoca con il fenomeno dell’organizzazione internazionale. Non va dimenticato che la presenza dell’Africa nella “comunità internazionale” era stata pressoché nulla fino a quel momento. Ha contato naturalmente l’attenzione che in quegli anni prioritariamente doveva essere prestata alle esigenze interne dei nuovi, fragilissimi stati.
Il risultato è che tra il modello di organizzazione internazionale fornito – già all’epoca – dall’Europa (una “comunità” votata all’integrazione tra i suoi membri, attraverso un percorso “funzionalista” di progressivo superamento delle sovranità nazionali) e il modello dell’Onu (un “forum” tra stati sovrani, privo di poteri sovranazionali), la scelta è andata certamente verso la seconda opzione. L’Oua nasce sostanzialmente come una struttura volta a preservare quanto gli stati africani avevano acquisito: l’indipendenza politica, in primo luogo, e il ripudio degli apparati istituzionali e ideologici colonialisti e segregazionisti che avevano avvelenato il continente per secoli.
Il primo e fondamentale atto politico dell’Oua fu, in effetti, la dichiarazione del Cairo del luglio 1964, con cui venne affermato l’impegno a non modificare le frontiere ereditate dal colonialismo. Il principio “uti possidetis” sarà strenuamente difeso dall’Oua e anche dalla successiva Unione africana, fino ad anni recentissimi. Del resto, il processo di decolonizzazione era ancora in corso: nel 1963 gli stati africani indipendenti che potevano accedere all’Oua erano 32. Oggi sono 54 – nel frattempo c’è stato il ritiro del Marocco (1984), irritato per l’ingresso accordato alla Repubblica araba sahrawi democratica (Sahara Occidentale), defezione compensata con l’ingresso dell’Eritrea, prima, indipendente dall’Etiopia dal 1993, e del Sud Sudan, poi, indipendente dal 2011.