Elezioni in Kenya: vincitori, perdenti e scomode complicità
Il nuovo presidente e il suo vice eletti nonostante le accuse della Corte penale internazionale.
Uhuru Kenyatta, 51 anni, figlio del primo presidente del Kenya, e il suo socio William Ruto hanno vinto le elezioni che si sono svolte in Kenya lunedì 4 marzo.
Per tentare di capire il significato di questa vittoria bisogna richiamare alcuni fatti. A fine dicembre 2007, vigente un’altra costituzione, correvano per la presidenza Mwai Kibaki, sostenuto fra gli altri da Uhuru Kenyatta, e Raila Odinga, con William Ruto come braccio destro. Ci furono molti brogli da entrambe le parti, come ebbero modo di appurare in seguito commissioni nazionali e internazionali. Alla fine, per una manciata di voti, prevalse Kibaki, che aveva già guidato il Kenya nei cinque anni precedenti e che aveva, quindi, il vantaggio di occupare già la residenza presidenziale. Raila portestò, parlò di elezioni rubate, e immediatamente si scatenarono due mesi di violenze, che provocarono, secondo le stime più credibili, almeno mille e cinquecento morti e trecentomila sfollati, la maggioranza dei quali contadini kikuyu costretti ad abbandonare le terre della Rift Valley. Molti degli sfollati non stati mai risarciti e non hanno potuto rientrare nelle loro case.
Un altro punto focale delle violenze fu Kibera, il più grande slum di Nairobi, dove Koinonia aveva appena aperto un centro di prima accoglienza per bambini di strada. Ricordo le telefonate notturne di Jack, l’educatore, rimasto il solo adulto con una quindicina di bambini: “Padre, stanno sparando vicino a casa. Cosa faccio? Forse domani sarebbe meglio spostare i bambini in un’altra struttura”.
Gli scontri avvennero solo fra poveri, per il controllo delle terre e in nome dell’appartenenza etnica. I quartieri ricchi di Nairobi, le proprietà terriere e le aziende agricole appartenenti all’elite politica di entrambe le parti non ne furono minimamente toccate.
La posizione geopolitica del kenya fece sì che la “comunità internazionale” intervenisse con sollecitudine. Le economie di Sudan, Uganda, Rwanda e Burundi che dipendono dal porto di Mombasa per tutte le loro importazioni, carburante incluso, stavano per crollare. La comunità internazionale convinse – in particolare gli americani usarono i loro mezzi di “convinzione” – le due parti a formare un governo di coalizione, creando per Raila il posto di primo ministro.
Nei mesi successivi nella grande coalizione si crearono nuove alleanze e nacquero nuovi partiti. Nell’agosto del 2010 veniva approvata con un referendum popolare la nuova costituzione, sul modello americano, con un presidente e un vicepresidente; la carica di primo ministro veniva abolita. Intanto si affermava, localmente e internazionalmente, la volontà di punire i responsabili delle violenze post-elettorali del 2007, per assicurarsi che fatti simili non si sarebbero più ripetuti, e farla finita con l’impunità di cui avevano goduto tutti i potenti keniani sin dall’indipendenza. Si ripeteva, inoltre, all’infinito che si doveva affrontare il problema della terra, o della ridistribuzione delle terre, che è alla radice di tutti i conflitti in Kenya, e inestricabilmente legato all’identità tribale.
Ma ogni tentativo di investigare i crimini in Kenya fallì, e così, sotto la spinta dell’opinione pubblica, intervenne la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja. La Corte incriminò inizialmente sei persone, tre di ogni campo, indicate come i maggiori responsabili delle violenze. In seguito però, le accuse contro due di loro non furono confermate. Dei quattro rimasti, che tra poche settimane dovrebbero presentarsi all’Aja, i più importanti per la posizione che detenevano al momento dei fatti sono appunto Uhuru Kenyatta e William Ruto. Che nel frattempo, da acerrimi nemici che erano, sono diventati alleati, e rispettivamente presidente e vicepresidente…
La porcedura seguita dalla Cpi non è esente da critiche ed p stata certamente influenzata da criteri politici. Come mai prima tre e tre accusati, e poi due e due? Forse un tentativo di equilibrismo per non aumentare l’animosità e dare l’impressione d’imparzialità. È una sfida al buon senso pensare che Uhuru e Ruto siano responsabili di crimini contro l’umanità e che i loro capi, Kibaki e Raila, non ne sapessero niente. E questo, soprattutto nel caso di Raila, che ha la reputazione di controllare il suo partito nei minimi dettagli e dove non c’è promozione o rimozione, anche ai livelli più bassi, senza il suo accordo. I fatti e la logica avrebbero voluto che i primi accusati fossero Kibaki e Raila. Tutti in Kenya immaginano che Ruto abbia documenti che provano il coinvolgimento di Raila nel programmare le violenze di cinque anni fa, e che sarebbe pronto a svelarli se la sua posizione dovesse peggiorare. A maggior ragione potrebbe farlo ora che Raila ha perso ogni carica istituzionale. Insomma, i quattro personaggi sono irrimediabilmente legati da scomode complicità.
Nel frattempo, in cinque anni, nulla di sostanziale è stato fatto per risolvere le questioni della terra e della crescente “negative ethnicity” – termine politically correct inventato per evitare di parlare di tribalismo. Non è stato neppure completamente risolto il dramma degli sfollati, considerati quasi fastidiosi testimoni, piuttosto che vittime di una situazione non creata da loro. Il tribalismo è cresciuto in maniera esponenziale: più ci si sente minacciati dalle rivendicazioni degli altri, più ci si chiude nella propria comunità etnica. È un processo che ho visto crescere negli ultimi 20 anni, da quando il presidente Moi ha cominciato a mettere kalenjin contro kikuyu per controllare il crescente potere economico e politico di questi ultimi. Conosco molte persone ragionevoli che non erano tribaliste, ma che lo sono diventate o che comunque alle scorse elezioni hanno votato secondo linee tribali.
Mi diceva un professore di filosofia con esperienza di insegnamento anche in università estere: “Come posso votare per un presidente luo che cinque anni fa ha scatenato la caccia alla mia gente nella città che lui controllava con le sue squadracce?”. D’altro canto Otieno, un ragazzo di Kibera, protesta: “Qui siamo in maggioranza luo, ma viviamo in una città controllata da avidi kikuyu”. Sono affermazioni che vent’anni fa non si sentivano. Gli stereotipi si consolidano in generalizzazioni tanto ingiuste, quanto inoppugnabili per chi le pronuncia.
Purtroppo la geografia del voto e la matematica confermano. Il calcolo è semplice; Uhuru e Ruto rappresentano i due gruppi etnici che in termini di numeri sono il primo (kikuyu) e il terzo (kalenjin). Raila (luo) e il socio Kalonzo Musyoka (kamba), rappresentano il quarto e il quinto gruppo etnico, e si erano assicurati una certa forza sulla costa, presentandosi come difensori dei diritti della comunità musulmana. I luhya, numericamente secondo gruppo etnico, non avevano un rappresentante forte e i loro voti sono andati dispersi. Gli altri sei candidati venivano percepiti come troppo deboli e senza possibilità di vittoria. È un’analisi brutalmente tribale, ma difficile provare il contrario.
E adesso?
Raila ha impugnato i risultati, ma la Corte Suprema, così come avevano già dichiarato gli osservatori internazionali, ha decretato che le elezioni sono state sostanzialmente libere e giuste. Nessuno vuol vedere il Kenya diventare instabile e magari precipitare nel caos. Il fragile processo di pacificazione in Somalia, la ricostruzione nazionale in Sud Sudan, le tensioni in Uganda, Rwanda, Burundi, la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, mancando il perno di un Kenya stabile, potrebbero esplodere e precipitare tutta l’Africa orientale nel caos.
Per le stesse ragioni la comunità internazionale sarà molto cauta nel sostenere i processi in corso alla Cpi dell’Aja. Usa e Gran Bretagna e Francia, che avevano fatto sapere che avrebbero limitato all’essenziale i contatti con Kenyatta, in caso di sua vittoria alle presidenziali, hanno già assunto atteggiamenti molto più concilianti. L’impressione è che si troverà il modo per fare marcia indietro completa e svuotare di sostanza il processo dell’Aja. Non solo il Kenya è un alleato fondamentale nella guerra contro il terrorismo di Al-Qaeda – come ha dimostrato vincendo contro Al-Shabaab in Somalia – ma compagnie multinazionali hanno investito pesantemente in Kenya nei settori bancari, delle costruzioni, turismo, agricoltura, sicurezza, telecomunicazioni, informatica.
Certo, Raila non si darà facilmente per vinto, perché l’alternativa è sparire completamente dalla scena politica ed economica del Kenya. La costituzione, infatti, prevede che una persona può candidarsi a una sola carica. Se perde, in questo caso la presidenza, non può accedere né al Senato né al Parlamento, e non gli resta altro che aspettare un’altra opportunità, ma fra cinque anni. Ha detto che comunque guiderà l’opposizione, ma potrà farlo solo come leader del suo partito, al di fuori da ogni carica istituzionale.
Così il 9 Aprile i due indiziati per crimini contro l’umanità hanno assunto la Presidenza e la Vicepresidenza del Kenya. Qualcuno dice che allena dosi, Uhuru e Ruto hanno superato la rivalità fra kikuyu e kalenjin e posto le basi per il superamento di altri tribalismi. Ce lo auguriamo tutti, anche se rimane il timore che due personaggi così complicati e ambiziosi non possano cooperare molto a lungo.