I brevissimi 2013 – Per un posto… di Gabriele Druetta_Torino
Anno 2013 (I sette peccati capitali – l’invidia)
Fermata 1293. Piazza Solferino.
Salgo sul pullman dopo una giornata straziante di lavoro.
Il 14 come al solito è affollato; provo comunque a cercare un posto per sedermi. Mi avventuro tra le mille posizioni delle gambe delle persone attorno a me: allungate, incrociate a forma di quadrato,
triangolo o chissà che cosa; e tra il puzzo delle ascelle e degli aliti della gente. Malgrado ciò, con un po’ di disgusto, concludo la mia avventura poco epica ma molto coraggiosa.
Arrivato al fondo del pullman mi accorgo che non c’è nemmeno un posto libero. Non ci voglio
credere, dopo una giornata di lavoro stremante, non riesco nemmeno a godermi il mio viaggio di ritorno da seduto!
Ad un certo punto mi accorgo che sale un gruppo di anziani.
Non hanno nemmeno il tempo di tirare fuori dalla tasca il biglietto che, immediatamente, tre ragazzi si alzano per farli accomodare.
Io mi sono fatto mezz’ora di viaggio in piedi, dopo aver lavorato per un’intera giornata. Mentre
loro, col bastone, i capelli bianchi e la dentiera, tenuta attaccata alle gengive miracolosamente con quella colla tanto pubblicizzata in televisione, possono accomodarsi tranquillamente!
Ingiustizia, vorrei andare da loro a chiedere la tessera gialla, quella che danno alle persone invalide.
Inoltre vorrei vedere se sono veramente così stanchi, malati e vecchi, da essere prontamente fatti accomodare. E poi, io avrò solo vent’anni in meno rispetto a loro e, in più, io ho lavorato, io.
Passano ancora dieci minuti ed entra un signore grosso e sudato, si piazza davanti a me, alza il braccio e… Non ce la faccio più.
Sfilo la mano dalla maniglia e vado dai vecchietti a domandare, con tono scocciato e nervoso:
“Cosa avete in più rispetto a me per rimanere seduti tranquilli a godervi comodamente il viaggio?”
Uno di loro, quello più anziano e seduto sulla sinistra, risponde pacatamente:
”Speta d’arivè a nostra età, e it capirass mej*.”
Imprecando contro di loro, esco di fretta e con fare stizzoso.
Sposto lo sguardo prima a sinistra e successivamente a destra. Riesco solo a vedere immagini
sfocate e poco chiare.
Sento la voce di una donna che mi chiama per nome e mi chiede “perché?”.
Dopo cinque minuti, passati a non capire il senso di quella domanda, imploro una spiegazione.
Silenzio.
Altri dieci minuti. Mi ricordo di un ragazzo. Una frenata brusca. Una domanda già sentita.
“Cosa hai più di me?”.
Silenzio.
Era un silenzio diverso, calmo, irrequieto. Quasi irreale.
Trascorsi in tutto una ventina di minuti, almeno credo, riesco a ricordarmi perfettamente chi sono, dove sono, e perché sono qua.
Oggi, ritornando a casa dalla mia partita a bocce, salgo sul pullman, trovo un posto e mi seggo.
*“Aspetta di arrivare alla nostra età, e tutto ti sarà più chiaro.”.
Ad un certo punto sale un giovane che pretende il mio posto. Io, per riscattare ciò che avevo detto e fatto vent’anni fa, l’ho fatto sedere.
Mi alzo, appoggio la mano sul palo posto alla mia destra, sento frenare il pullman in modo assai brusco, cado… Vuoto.
Adesso mi pare tutto più chiaro.
Mi trovo in ospedale, su una barella ad aspettare la mia morte.
Forse avrò sbattuto la testa, si sarà leso un polmone, si sarà rotta… O forse niente di tutto ciò.
Sento dei pianti, una mano, degli impulsi elettronici.
Sempre più freddo, non riesco a respirare, pensare.
“Chiedete scusa. Per favore. Siamo intesi? Fatelo per me.”
Sento mormorare delle parole confuse. Sempre più deboli. Poi niente.
Non so se i tre vecchietti mi concederanno le loro scuse.
Non lo saprò mai.