I racconti del Premio letterario Energheia

L’ascesa di Asmodeo_Giovanni De Astis, Valenzano(BA)

_Racconto finalista terza edizione Premio Energheia_1996. 

Prologo

 

Si svegliò sudato. L’immagine senza contorno di un interminabile viale alberato gli era davanti. L’unico fotogramma che ricordava ormai da settimane era questo. L’insistenza con cui il sogno si ripresentava si compensava con la dimenticanza del sogno stesso. La sua memoria ancora lo tradiva e questo lo innervosiva tanto da essere di cattivo umore per il resto della giornata. Era tardi. Tra pochi minuti sarebbe cominciata la lezione di catechismo e se non voleva essere sgridato doveva muoversi. Si infilò in fretta le scarpe da ginnastica, diede una veloce stirata con le mani alla tuta che aveva addosso, prese al volo un quaderno, una penna nera e la Bibbia, spalancò la porta della sua stanza da letto e si precipitò giù per le scale. Prima degli ultimi due gradini vicino all’ingresso, rimbalzò in corsa sul pianerottolo davanti alla finestra completamente aperta, e uscì di casa senza passare dall’uscio, mentre sua madre gli gridava dietro la solita tiritera su una probabile caduta e sulla sua presunta maturità, lui che ormai non era più un bambino: aveva già 13 anni. Ma questi erano discorsi che cercavano di inibirlo, e lui lo sapeva benissimo, per cui non dava ascolto. Si lasciò alle spalle il giardino di casa con le palme sottili ed alte mosse dal vento che spirava a tratti. Contava tutte le ville che superava pronunciando il nome degli inquilini mentre spiccava salti ogniqualvolta la sua corsa incrociava i pneumatici delle auto in sosta a destra e a sinistra: un gioco che ormai faceva inconsciamente. Il pomeriggio era ancora all’inizio e l’idea di passarlo seduto in una delle aule colorate dell’asilo della confraternita francescana su una piccola sedia con le ginocchia sotto il mento, lo faceva sbuffare. In verità era l’unico a lamentarsi. La colpa era anche sua, avrebbe dovuto fare la comunione almeno tre anni prima, ma l’idea non lo aveva sfiorato minimamente. Se il parroco non fosse andato a prelevarlo direttamente, non avrebbe mai detto nulla ai suoi genitori che d’altra parte se ne disinteressavano essendo cattolici per nascita e non per scelta. Ma la verità era un’altra: quattro anni prima aveva frequentato i corsi di preparazione per la confessione in un’altra chiesa dello stesso paese, quella di S. Rocco. Adorava quella chiesa, si recava a messa ogni domenica solo perché quel luogo lo travolgeva. Non riusciva a capire come un luogo dall’esterno così tetro, potesse essere trafitto da così tanta luce all’interno. Non seguiva la messa, guardava solo la luce filtrare dalle vetrate colorate, spandersi sui confessionali e sugli stucchi che incorniciavano e delimitavano il perimetro. Quando i catechisti seppero dove abitava, gli dissero che poteva tranquillamente andarci quando meglio desiderava, oltre alla domenica s’intende, ma che i sacramenti doveva prenderli nella chiesa di appartenenza: quella di S. Francesco. Chiese ingenuamente spiegazione. A lui non piaceva. Troppo piccola, buia, umida, spoglia di tutti quei decori che lo divertivano e sbalordivano ogni volta. Perché no? In fondo un sacramento è tale e tale rimane indipendentemente dal luogo in cui lo si riceve. Burocrazia, qualcuno disse in fretta per porre fine a quella stupida ed inutile conversazione. Fu scacciato e dietro di lui rimase solo il rumore di una porta chiusa. Inutile dire che Matteo non mise mai più piede in quella chiesa.

Era nervoso ma continuava a correre. Un gruppo di giovanotti ridacchiavano in cerchio. Sette, otto. Li contò con la stessa distrazione con cui contava i pneumatici saltati. Incrociò lo sguardo di uno di loro e d’improvviso annegò nel ricordo del suo sogno, un brandello di quell’immenso tessuto che la sua mente aveva filato nell’ultima settimana. Strani personaggi parlano con fare sospetto e ogni tanto si voltano per essere sicuri di non essere visti. Lui li osserva. Può farlo perché è padrone del suo sogno e può quindi ascoltare senza essere visto. La vittima. Sì, parlano di una vittima… il suo nome, parlano di lui. La pioggia tenue dissolse l’immagine. Aveva cominciato a ricordare. Troppo poco, o forse molto. Non lo sapeva, non poteva pensarci ora, era tardi. Prese una scorciatoia passando per il prato recintato di una casetta dietro la chiesa. Avrebbe scavalcato il muretto e sarebbe arrivato nel cortile. In seguito passando da una porta che tutti credevano chiusa avrebbe raggiunto il chiostro. L’immagine del sogno lo tormentava. Ora aveva visto qualcosa in più, qualcosa che suonava però come un presentimento. Forse aveva paura.

Erano ancora tutti là. Gridavano, ridevano scappavano. Non aveva molti amici, almeno in quell’ambiente. Erano troppo piccoli per i suoi gusti. Dio, facevano ancora le elementari… inaudito. Se solo avesse voluto, poteva essere il capo di quel branco di agnelli. Si sarebbe imposto con molta facilità. Era maestoso. Una maestosità insita nella sua assoluta indifferenza per gli altri. La sua bellezza scaturiva da quel sentimento che alcuni dicono essere timore ma che lui preferiva fosse chiamata devozione. Queste erano le principali componenti di quella assoluta regalità che tutti gli invidiavano ma che nessuno osava non attribuirgli. Tutto questo prostrarsi lo lasciava indifferente. Non aveva bisogno di una corte che gli ricordasse quanto fosse superiore, lo sapeva benissimo da sé. Ormai c’erano proprio tutti. Si passò una mano tra i capelli rintanandosi in una nicchia bassa ricavata sul muro del porticato. Un modo per stare il più lontano possibile dagli altri. Fece un lungo respiro. L’odore dell’erba umida lo avvinse. Chiuse gli occhi. Di nuovo il suo sogno. Questa volta era seduto su di un piccolo tronco, basso e scomodo. L’odore dolciastro dell’aria gli scorreva addosso, ciò nonostante avvertiva un forte senso di disagio. Sapeva perché ma solo nel sogno, ora non riusciva a spiegarlo. Di fronte a lui molti alberi innaturalmente sagomati quasi come fossero stati ritagliati sullo sfondo grigio-nero dell’oscurità del bosco in cui si trovava. Qualcuno lo tirò fuori di forza. Sentì una presa stretta e dolorosa che gli stringeva un braccio. Il suo catechista lo guardò con occhi pieni di stupore. Non capiva il motivo per il quale cercasse di autoescludersi dai giochi e dal chiacchiericcio che gli altri facevano nell’attesa. “Mi detestano. Mi odiano perché sanno che posso fare a meno di loro!” “Ma io non ho detto nulla. Volevo solo sapessi che la lezione sta per cominciare.” Lo strinse forte a sé dandogli un bacio sul collo. Era già abbastanza alto per la sua età e Luca in fondo aveva solo 19 anni. Quel bacio lo elettrizzò… in seguito capì il perché. “Guardali!! Guardali adesso. Dicono che i miei voti sono alti solo perché sei tu a correggere i miei compiti. Sono invidiosi delle tue attenzioni.” Era pieno di disgusto e gli altri se n’erano accorti. “È questo che dicono?” – chiese Luca ridendo. “Allora oggi avrai un bel dieci!” Sentenziò divertito. Matteo lo guardò con un po’ di incredulità, poi disse “Mi odino pure!” I suoi occhi brillavano trionfanti.

 

L’Ascesa di Asmodeo

atto I

 

Luca divideva le ore di lezione domenicale in due parti: durante la prima ora esponeva le dottrine fondamentali cristiane in forma di domanda e risposta, nella seconda invece si dedicava ad aspetti più inconsueti per un catechista, parlava cioè della bivalenza dell’angelo-diavolo affrontando via via le varie mitologie e classificazioni dei demoni di diverse civiltà. Il parroco sapeva di questo suo interesse, così come sapeva che teneva lezioni su tali argomenti, ma non immaginava che fossero oggetto di un’intera ora di discussione, né tantomeno con quanta morbosità ciò lo attraesse. Luca non ne parlava in tono fiabesco o dottrinale. Le sue lezioni sui demoni erano come la vita dei santi, degne di menzione e forse un po’ meno noiose. D’altronde sembrava che i ragazzi gradissero, forse perché suonavano un po’ come divagazioni sul concetto di bontà e misericordia. “Oggi parleremo di uno dei sette arcangeli della mitologia persiana, un angelo che apparteneva all’ordine dei serafini. Sapete chi sono i serafini? Lo abbiamo già detto… Matteo?” “I serafini sono l’ordine più vicino a Dio, l’ordine più nobile degli angeli.” Non gli era difficile ricordare certe cose anche perché Matteo era l’unico che seguiva non solo con interesse visivo ma anche mnemonico. Soffriva, infatti, di un forte complesso di ignoranza nei confronti di tutto ciò che non capiva. Più volte gli era stato detto che col tempo avrebbe imparato tutto, o quasi, ma non se n’era affatto convinto, per questo accumulava, immagazzinava frasi, nomi, modi a volte senza saperne il significato preciso, o meglio, aveva imparato il contesto a cui riferire tutte le parole che ascoltava. Questo lo faceva sembrare già adulto, e fisicamente lo era, solo che gli mancavano le esperienze… ma sarebbero arrivate presto. Luca, quando ascoltava Matteo ordinare i concetti in frasi sempre precise e puntuali, non riusciva a nascondere quel senso di piacere che tutti proviamo di fronte alla lucidità e alla chiarezza, e spesso si abbandonava completamente e visibilmente alla contemplazione di questo corpo, di fatto adulto, ma ancora intimamente innocente. “Quest’angelo si chiama Asmodeo.” Questa volta Luca lo introdusse con fare incantatore, sommessamente quasi a volerne sottolineare una potenza che dovesse incutere rispetto per il terrore e la distruzione di cui era capace. Tutti risero, Matteo no! “Dopo la sua caduta dal paradiso Asmodeo divenne un demone potentissimo, descritto come un uomo disgustoso con grandi ali. Si dice infonda negli uomini tanta lussuria, che bruci le loro menti col desiderio.”

Quasi nessuno sapeva cosa fosse la lussuria. Matteo ne aveva sentito parlare una volta in chiesa durante la predica del parroco e fra sé, corrugando la fronte, cercava di ricordare. Dapprima il vuoto, poi spiragli di luce da una vetrata colorata piantati sul pavimento marmoreo. Odore di incenso e di cera, lui distratto dal sole, qualcuno lo scuote ed ecco: «La lussuria, lo sfrenato desiderio sessuale», sentenziò il parroco. Si, era questa la lussuria. Cancellò i suoi ricordi e fissò nuovamente Luca che continuava la sua lezione. “ … Appare in sella ad un drago con una spada ed una lancia, con tre teste: una di toro, una di uomo e una di ariete. Ha i piedi di un’oca e la coda di serpente.” Quel serpente sibilò sinuoso nella memoria. Matteo lo sentiva strisciare nei suoi ricordi. D’istinto chiuse gli occhi: rieccolo il suo sogno. La stanza è poco illuminata e lui è avvinto da un forte torpore, una stanchezza piacevole, con fremiti sulle gambe, piccole scosse solleticose. Qualcosa si muove vicino alle sue ginocchia tenute strette su di una sedia di legno. Procede strisciando lenta, ora a destra ora a sinistra. È stravolto da un senso di piacevolezza confusa. Chino verso il basso spalanca con grande sforzo gli occhi umidi… “ahh!!” l’urlo fu breve, ma intenso. Dopo svenne. Luca si precipitò tirando su dal tavolino giallo e basso il corpo addormentato del suo prediletto. Gli altri guardavano divertiti, alcuni anche compiaciuti, pensavano fosse morto. “La lezione è finita… tornatevene a casa!” Nessuno batté ciglio e in meno che non si dica quella piccola stanza mostrò il suo nudo perimetro. “Matteo!! Matteo, sveglia!” Di peso lo sdraiò sulla cattedra, prese le gambe lunghe e snelle e le tirò sù. Matteo era svenuto con una particolare posizione delle braccia: in avanti, con le mani strette fra le gambe. Luca cercò lentamente di sciorgliergli le dita intrecciate sui genitali. Gli mise un cuscino sotto i piedi, sciolse il laccetto che stringeva la tuta e gli abbassò i pantaloni. Ai bordi dello slip, candido, la peluria nera sfuggiva a quella gabbia. per un attimo l’attenzione di Luca si fermò su quell’organo cilindrico che premeva delineando tutto il suo contorno sul cotone tramato. Inspiegabilmente trattenne il fiato, si guardò intorno e tirò via tutto. Matteo non era più un bambino, e questo da molto, ma era ancora integro, puro, vergine. Aveva le stesse possibilità e gli stessi mezzi di tutti gli uomini. Bisognava solo insegnargli le modalità di utilizzo. Luca rimase in silenzio, strinse le sue mani intorno a quei fianchi secchi poggiando la testa sul ventre mentre i suoi occhi, colmi di lacrime, bruciavano alla vista di tanta innocenza corrotta dal suo sguardo troppo adulto. Rimise tutto a posto, come si fa con gli oggetti ordinatamente riposti in piccoli cassetti segreti, guardando tutto ed evitando di toccare quello più prezioso per paura di sciuparlo. “Matteo… avanti svegliati.” – Il tono era basso non per premura ma per colpevolezza. – “Che ti è successo? Perché hai urlato?” Matteo prima si rese conto di dove fosse poi bisbigliò… “Un serpente… c’era un grosso serpente che strisciava tra le mie gambe… nero…con cinque teste.” Luca lo guardava sul petto, non aveva avuto il coraggio di incrociare il suo sguardo seppur addormentato. “Avanti … cerca di scendere. Sarà stato un sogno … sicuramente lo è stato. Ti sarai addormentato, succede sai. Ti accompagno io a casa. Sarà solo stanchezza … vedrai!” Matteo aveva avvertito questo nuovo tono di voce, sommesso ma nervoso, preciso ma distratto. “Dove sono andati gli altri?” Chiese spedito, mettendosi di fronte a lui.

“A casa! Mi hai spaventato… poi ho visto che respiravi così… ” “Così cosa? Perché guardi altrove? Sono qui, di fronte a te!” “Ti ho dato qualche schiaffo e così ti sei ripreso. ” “Le gote però non mi fanno male. ” “Non dovevo mica punirti… e poi ormai stai bene, anzi non c’è bisogno che ti accompagni. Vai a casa! Io devo correggere alcune cose… non ti spiace, vero?” “No! non mi dispiace.” Matteo era disorientato. “Comunque non era un sogno. Era il ricordo di un sogno.” Luca non lo ascoltava. Col volto fisso sulla vetrata della finestra guardava Matteo riflesso. Lo amava. E questo gli annodava fastidiosamente la gola! Matteo si congedò un po’ irritato. Uscì di fretta e con la stessa velocità la stanza si fece sfumata, perdeva lentamente definizione. La luce gialla del lampadario era una palla enorme sospesa al centro della stanza trafitta da fili sottili di un argento vibrato. Luca era un contorno scuro, esile, proiettato su una vetrata grigia, col volto ovale segnato da ininterrotte lacrime, fredde come la lucidità del momento. Spense le luci poggiando la fronte sulle grate della finestra aperta agli odori della sera, quando le tenebre, gelide, ridono di noi che ci stupiamo del loro arrivo. Nel silenzio, solo le immagini nitide dei suoi desideri, e su ognuna di questa aleggia l’ala laida di Asmodeo, trionfante, divertito, soddisfatto. Non vi era stata premeditazione, pensava, ma solo una misteriosa casualità. Il Dio cristiano era lontano, la sua fede bruciata e questo lo divertiva. Rise di sé con una smorfia di dolore. Poi svenne.

 

Il gioco

atto II

 

Erano le tre e mezza del pomeriggio ma, Matteo, era convinto fossero già le quattro. Quando arrivò davanti alla porta che si apriva sul chiostro, la trovò chiusa. Non c’era nessuno. Colpa degli orologi di casa. Sua madre aveva addobbato le stanze con dozzine di orologi a pendolo di tutte le età e di tutti gli stili. Alcuni suonavano ogni ora, altri ogni mezz’ora, la maggior parte ogni quarto d’ora. Per evitare che le melodie si sovrapponessero, gli orologi erano stati tutti sfasati di pochi minuti e alcuni, rispetto ad altri, portavano anticipi anche di un’ora. Era praticamente impossibile sapere l’ora esatta, ma questo non creava nessun problema visto che Matteo, ma soprattutto i suoi genitori, consideravano l’orologio un elemento decorativo e non la scansione imperturbabile dell’infinito. Questi erano padroni assoluti del loro tempo. Il sole riscaldava abbastanza. Il cielo era limpido, a tratti chiazzato da cumuli di panna in veloce movimento. Nell’attesa Matteo si sdraiò su una panchina del parco volgendo lo sguardo distratto a quell’immenso blu, trafitto dalla croce piantata alla sommità del campanile di pietra. Era arrivata un’altra domenica: solare, calda, dolciastra. Se Luca non fosse stato il suo catechista, forse tutta questa serenità sarebbe stata offuscata, resa noiosa dalla presenza di qualche prete bavoso con l’alito pesante, severo e pignolo, basso e unto. Luca era magnetico, posato, conciso, fiero. Matteo sorrise mentre le nuvole gli marchiavano l’iride. Era impaziente di cominciare la sua lezione. Mentiva. Voleva vedere, parlare, contemplare Luca. Ne aveva bisogno, ma non capiva il perché. Forse sì. Era curioso. A volte se lo immaginava nudo che gli parlava dalla cattedra: un petto definito, un ventre incavo, forti braccia, spalle ampie. Ma la cosa che più lo incuriosiva era il dettaglio anatomico. Quelle trasformazioni che ti costringono, ad un certo momento della tua vita, a fare il bagno da solo, lo avevano colto impreparato ormai quattro anni or sono. Da allora aveva superato tutte le fasi, quale stupore, sorpresa, senso di diversità, vergogna grazie al cugino Marco che gli mostrò il motivo per il quale quei cambiamenti erano non solo naturali, ma addirittura necessari. La prima volta che vezzeggiò il suo arnese rimase sgomento. Durante la risoluzione dei suoi sforzi continui e a volte selvaggi perpetrati al suo coso, pianse stordito dalla magia di quelle plurime e diffuse sensazioni e dalla gioia per la scoperta di un gioco da adulti. Ora, più che mai avvertiva il bisogno di confrontarsi con chi, gioco forza l’età, aveva concluso le sue trasformazioni, se non del tutto, almeno nella sostanza. Certo, un uomo troppo adulto lo avrebbe imbarazzato. Aveva bisogno di un giovanotto che non superasse i ventidue anni, e con cui potesse divertirsi ad osservare le differenze giocando con complicità. La riteneva una cosa giusta. Luca era la persona più adatta con quel volto da eterno bambino distinto da due occhi grigi, profondi e sensuali. “Che ci fai qui? Oggi non c’è catechismo.” Luca parlò stringendogli una caviglia per poi sfiorargli le ginocchia. Matteo si alzò mordendosi distrattamente le labbra. Provava imbarazzo. Temeva che gli si potesse leggere negli occhi quello che tra sé pensava. “Hai sentito cosa ho detto?” Luca si espresse con più incisione e meno dolcezza. “Se oggi non c’è lezione… tu che ci fai qui?” Matteo si alzò con innaturale flemma. “L’ho chiesto prima io!” Luca rise distratto dai piccioni in volo. “Sai che giorno è oggi?” Continuò. “Sono stufo dei tuoi giochetti. Parla!” “Dio come siamo suscettibili.” Matteo lo fissò allora con sguardo di sfida. “D’accordo, d’accordo. Non c’è catechismo perché oggi è il 1° maggio!”. “Scusami. Ormai dormo molto poco. Sono molto nervoso. Non riesco ad addormentarmi perché sono tormentato da un sogno ricorrente… mi fiacca psicologicamente.” “Vuoi parlarne?” Come poteva non risponder sì di fronte a tanto amore. “Mah, ricordo poco e niente!” Mentiva. Avrebbe voluto dirgli tutto quello che era riuscito a ricordare… ma erano frammenti così inquietanti. E poi c’era sicuramente qualcosa di fortemente personale nel significato di quell’incubo, e per quanto Luca potesse essere oggetto di contemplazione da parte di Matteo, l’idea di parlargli a cuore aperto non era mai stata preventivata. “Ora… che farai?” Luca ormai credeva che la conversazione si sarebbe conclusa con la successiva risposta. “Il pomeriggio è lungo ed io non ho nulla da fare. Tu cosa mi consigli? ” La domanda apparve un tantino retorica. Luca non perse tempo. “Devo fare una delle mie ricerche. Se mi stai intorno in silenzio… non daresti molto fastidio.” Nessuno rise. Erano seduti sulla panchina guardandosi sott’occhio, mentre giocavano ognuno con i rispettivi sfoghi d’ansia. Luca si mangiava le unghie, Matteo faceva delle smorfie assurde con il naso. Il vento aveva l’odore delle mele mature. Matteo pensò al peccato originale: rise e annuì.

 

La notte di Belial

atto III

 

“Perché siamo venuti in quest’aula? La solita la gradisco di più.” Matteo fece un giro intorno a sé guardando dal pavimento al soffitto. “Nell’altra l’intonaco cade a pezzi. Per ora è stata chiusa. E poi questa è la stanza più lontana dal dormitorio dei frati. Nessuno ci disturberà.” Luca chiuse frettolosamente il discorso. Matteo fissava le pareti colorate. Sarebbero state più intense, vive con la luce del giorno. La stanza era piuttosto buia. Stava per dire qualcosa quando fu preceduto dal rumore di due sedie trascinate sul pavimento. “Mettiamoci qui, dietro questa scrivania.” Disse Luca mentre fece cenno a Matteo di sedersi. Accompagnò la sedia come si suole fare con atto di solerte cortesia e non di rispetto, con la propria dama. Matteo ringraziò in silenzio con veloci e leziosi movimenti ottocenteschi. Divertiti si sorridevano. L’aula era molto grande. Un numero consistente di tavoli circolari non più alti di 60 cm, variopinti. Giallo, rosso, blu, verde, marrone. Negli angoli e sotto le finestre armadietti enormi, ora per larghezza, ora per altezza, traboccavano di giocattoli. Qualche soldatino di plastica si intravedeva per terra, relegato in uno dei quadrati bianchi che formavano il pavimento. La stanza era in un ordine apparente. Tutto aveva la sua collocazione, ma si intuiva che fosse provvisoria. A sinistra della porta d’ingresso un modesto impianto hi-fi con l’equalizzatore ancora acceso. Su di una mensoletta gialla, a poca distanza dal piatto, vecchi dischi di musica classica con copertine scorticate e scolorite. Matteo sorrise all’idea di un asilo infantile dove le urla dei bambini venissero coperte da un concerto d’archi o trombe. Pensò fosse davvero bizzarro e che la sedia fosse davvero scomoda. Sembrava d’essere seduti su di un tronco d’albero… rimase perplesso. Rifletteva. Per un attimo volse lo sguardo verso Luca. Rovistava insistentemente nella sua borsa come un prestigiatore imbarazzato che non riesce a trovare il coniglio nel cappello. Tornò a guardare di fronte a sé. Sulla parete strane figure contorte, sagome di carta colorata scura a formare il paesaggio cupo e misterioso di un bosco prospettico sull’intera parete piana. Quella composizione, quell’artificio rappresentativo, rendeva la stanza allungata e in lontananza sembrava che tra i rami annodati dell’ultimo arbusto, due occhi, fissi, lo osservassero. D’istinto si alzò dirigendosi verso la mensoletta gialla; fece scorrere il dito a caso sulla lunga fila alta e stretta, si fermò a metà, mosse l’indice ad uncino e tirò a caso un disco. J.S. Bach: concerto per violino ed archi bwv 1041, 1042, 1043, 1056. La puntina incise il tracciato dell’adagio del concerto 1042. Lo ascoltò per un po’ … provò un altro a caso. Questo lo lasciò scorrere interamente. Il volume era intimo e distinto, le luci tenui, l’aria secca e danzante sulle corde straziate di un violino che confondeva gli sguardi e i pensieri. Matteo tornò a sedersi misurando i suoi passi sul tempo che l’andante del concerto 1041 imponeva, turbato ma deciso, con gli occhi annegati e fluttuanti nella melodia. Con le mani spalancate si tirò indietro i capelli corvini. Chiuse gli occhi. Luca lo osservava incuriosito, attento ad ogni più piccolo movimento. Riprese a mangiarsi le unghie. Nessuno parlava. Quel brano… così spaventosamente esplicito. Per alcuni istanti Luca rivide Matteo correre fiero lungo il viale alberato antistante alla chiesa fra i cipressi mossi da un vento alto che scuoteva le cime. Si inginocchiò ai piedi del suo disperato amore poggiando il volto sulle gambe. Matteo lo tirò sù per le spalle, facendogli mettere la faccia sul torace con un braccio intorno al collo. Lo strinse forte a lui. Ancora schiuse le labbra facendo scorrere la punta della lingua sulla pelle tesa del collo alternando lievi pressioni delle labbra a delicate incisioni con la punta dei denti. Luca piangeva inerme, in silenzio, senza nessuna contrazione del volto con gli occhi sbarrati mentre cercava di concentrarsi psicologicamente sulle sensazioni per amplificarle fisicamente. Serrò dolcemente con le labbra un orecchio. Matteo ebbe un sussulto. Pian piano roteava la lingua nel buco stretto del padiglione per poi pizzicare il lobo ovale. I corpi si contorcevano, gli occhi si cercavano tra i nasi stretti a narici larghe premute l’un l’altra, mentre a labbra chiuse due uomini si baciavano in una stanza della casa di Dio, perfetto amore, trascinati da un personale egoismo mascherato da contingenze affatto casuali. Un’interpretazione superlativa quella di far credere a se stessi di essere pronti a sacrificarsi per l’altro quando entrambi si usavano senza il benché minimo rimorso. Ma questo era un senso di colpa cristiano che Matteo non conosceva e che Luca ormai aveva rimosso. L’ago strisciava sul tracciato vuoto amplificando granelli di polvere che scoppiettavano. Matteo scostò Luca, costringendolo ad alzarsi, si precipitò verso la porta, alzò il braccio dal piatto e piombò il silenzio più assordante, quel vuoto scandito dal battito ora agitato di un cuore in corsa. Si mise una mano sulla fronte per nascondere la violenta pulsazione di una vena sulla tempia destra, e respirando piano lanciò uno sguardo al suo catechista. Era seduto per terra con la testa fra le ginocchia e le braccia dietro il collo. Sembrava dormisse. Uscì senza far rumore ridendo del suo comportamento. Aveva osato. Tutto quello che era successo lo aveva consapevolmente premeditato e subdolamente realizzato. Era soddisfatto, compiaciuto. Si sentiva terribilmente amorale. Nessun rimorso, solo sollievo. Pensò al suo sogno, premonitore fin dove? Aveva già cambiato il suo destino o lo stava semplicemente assecondando? Non gli importava… si stava divertendo un mondo. Il corridoio dell’Asilo era in penombra. Si appoggiò ad una porta pensando a quelle dita che gli scorrevano addosso. Tirò la maglietta stropicciata fra le mani verso le narici, diede un lungo respiro e si perse nella fragranza di un corpo levigato e fresco. Aveva addosso l’odore del suo Luca. Si sentiva euforico, pronto a tutto, a qualsiasi cosa. Avvertiva una forza che gli scorreva dentro, una febbre che esasperava pensieri morbosi. Corse fuori per respirare tutta la lascivia di una notte memorabile. D’un tratto ricordò un nome: Belial, demone padre dei figli dell’oscurità, amante del vizio per il vizio, di aspetto bellissimo, testardo, ingannatore, suadente. Rise! Aveva deciso: quella sarebbe stata la notte di Belial, suo padre!

 

Esodo

 

Passarono solo due mesi e Luca morì suicida. Lo trovai nell’aula in cui io conobbi il piacere della carne e lui quello del tormento. Non c’era sangue. Dondolava appeso al lampadario con gli occhi sbarrati di fronte al terrore dell’ultimo istante prima della fine. Pensai che fosse un modo ridicolo per morire. Era grottesco e forse anche volgare. Troppo livido. Il parroco dietro di me rimase di sasso. Non riusciva a chiudere la bocca ma riuscì comunque a coprirmi gli occhi. Dopo un po’ arrivarono un paio d’uomini con due barelle, una per Luca, l’altra per il parroco che nel frattempo era svenuto. “Portate via questo bambino!” Urlò quello più alto al compagno baffuto, ma io non riuscivo a staccare gli occhi da quella corda. Nel trambusto sentii uno scoppiettio sommesso. Mi voltai verso la mensoletta gialla: c’era un disco fuori posto e vicino alla porta l’hi.fi. ancora acceso con la puntina sul solco vuoto del disco contenente il concerto 1041. Ritenni macabra la scelta della colonna sonora, non per il brano in sé quanto per il fatto che quel concerto mi avrebbe fortemente legato a quell’evento. Non mi sentii mai responsabile e in fondo Luca fece una scelta, che all’epoca pensai stupida ma che, ora credo, fosse comoda. Comunque non lo giudicai peggio di quanto non lo fossi stato io. Sono cresciuto con questo ricordo: il suo amore, la sua morte. Entrambi per me. Ero troppo piccolo per poter discernere piacere da sentimento, li provavo insieme con estrema confusione. Ora sono troppo adulto per non ammettere che ero già fortunatamente cinico e consapevolmente colpevole. Non sono più entrato in una chiesa. Non sono neanche cresimato. Di solito a primavera faccio una passeggiata nel parco davanti al campanile, forse per ricordare frammenti di episodi senza importanza. Continuo a contare qualsiasi cosa: alberi, macchine, pneumatici, persone, fiori, pietre … così come allora, sono assetato di esperienze e uso gli altri come fossero pedoni, pezzi senza valore, degni di sacrificio, necessari per lo scopo del gioco: conoscere me stesso in ogni mia parte. Per me che ho una diversa morale è normale, quasi divertente; per gli altri abominevole e questo rende il tutto ancora più entusiasmante. Non so con precisione cosa pensino gli altri di me. I miei amici intendo, o quantomeno quelli che mi conoscono. Non si sono mai espressi a riguardo e personalmente non mi sono mai interessato. Di una cosa sono certo: a tutti è piaciuto il concerto 1041, sin dal primo momento!! Bach, bisogna saperlo apprezzare.