Notte del Sud_Fabio Cerretani, Prato
_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia 1999.
È proprio vero che la gente del Sud è più ospitale. Più cordiale, più disponibile ad esibire in pubblico tutto quello che la riguarda. Così diversa da noi settentrionali, freddi e rinchiusi nella nostra supponenza spesso smentita dalla realtà dei fatti. Certo, le nostre città sono più ordinate, spesso avvolte dalla nebbia come da una cortina che le preserva da peccaminosi contatti. Ma il sole del meridione, quel sole cocente che a noi uomini venuti dal nord fa bollire la testa, risveglia nella nostra mente, interrogativi ai quali, mai avremmo pensato di essere chiamati, un giorno, a cercare una risposta. Come quella volta in Basilicata, quando mi si bloccò la macchina lungo una strada secondaria tra Gioia del Colle e Matera. Era maggio, e da quelle parti a maggio il sole picchia già forte.
Laggiù il cielo è di un azzurro più intenso del nostro. Ricordo che, quando lo osservavo attraverso il mirino della macchina fotografica, mi appariva negli angoli di un blu scuro che era già quasi siderale. Tra Bari e Matera non ci sono più di un centinaio di chilometri di strada diritta, quasi completamente senza curve. Ricordo che quando attraversai Gioia del Colle, che non era prevista nel mio itinerario, compresi che avevo sbagliato percorso, allungandolo di non so quanti chilometri. Il paesaggio non è che differisse granché, immagino, da quello che avrei voluto attraversare: dappertutto una polverosa distesa di campagna monotona e uniforme, appena a tratti, leggermente ondulata, e spesso ricoperta di ulivi, altre volte seminata a grano. D’improvviso, quando già cominciavo a pianificare il resto della giornata – la ricerca di un albergo, un buon ristorante, un giro tra i Sassi – il motore della macchina emise un lamento, dette due o tre strattoni e si spense. Continuai ad andare per inerzia per un altro centinaio di metri, e feci appena in tempo ad accostarmi sulla destra per non intralciare. Ricordo che rimasi incredulo dentro l’abitacolo per qualche lungo istante, senza saper che fare, poi scesi dalla vettura e alzai il cofano del motore. Chissà che cosa mi aspettavo di vedere: io non capisco niente di meccanica, dunque quell’atto fu solo un riflesso condizionato, il formale riconoscimento dello stato di panne.
Toccai qualche filo, stando bene attento a non scottarmi con le parti roventi. Guardai un po’ tra i meandri del motore, come se fosse possibile comprendere in quel momento tutto quello che non avevo mai imparato sui funzionamenti e malfunzionamenti. Provai anche a girare di nuovo la chiavetta dell’accensione, a intervalli regolari e con pazienza, ma non servì a niente. Non usciva più alcun suono, l’auto era completamente morta. Tutto questo armeggiare durò circa una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo. Quando finalmente mi rassegnai all’evidenza del fatto che l’auto non sarebbe ripartita, mi guardai intorno. Ero sul lato destro di una piccola strada provinciale, che si snodava in una campagna leggermente ondulata e molto verde. C’era un silenzio forse inconcepibile altrove, e fu in quel silenzio che sentii uno strano rumore. Mi voltai incuriosito verso il bordo della strada e guardai in direzione dei campi, cercando di indovinare la provenienza di quello strano suono. C’erano delle mucche che stavano mangiando: con la bocca strappavano l’erba dal terreno, proprio lì dove pareva che di erba non ce ne fosse più, e così facendo causavano quel suono che, allora lo ricordai, era quello dell’erba strappata. Rimasi per un po’ a guardarle, come incantato dal quel rumore che sapeva di pace e di silenzio, e incapace di pensare che in fondo ero piantato in mezzo a una strada del profondo sud e per di più di domenica, e che questa non era proprio la situazione che mi sarei aspettato.
Dopo un poco che ero lì, sulla sinistra del mio angolo visivo inquadrai una mucca che mi stava fissando. Masticava coscienziosamente, senza smettere mai, e intanto mi guardava, e fu a quel punto che mi venne in mente quella domanda. L’animale non aveva un’espressione particolarmente intelligente, raramente ne hanno, del resto, le mucche, di espressioni intelligenti. Certo non l’aiutava il fatto che, mentre mi guardava, continuasse a masticare. Neanche gli uomini hanno espressioni acute mentre masticano, figuriamoci gli animali. Eppure, nonostante queste rapide considerazioni che pure feci, quella domanda mi si insinuò nella mente con la consistenza di un dubbio: che cosa starà pensando?
Sì, perché non è che la bestia guardasse qua e là senza realmente vedere niente, come accade di solito mentre si mastica, quando gli occhi appaiono come scollegati dal cervello che deve raccogliere e analizzare le immagini, e guardarsi intorno non è altro che un sistema per assaporare meglio il gusto del cibo. La bestia, invece, mi fissava intensamente, o almeno così mi sembrò, sotto quel sole e in quel silenzio che mi aveva permesso di cogliere perfino lo strappo dell’erba. Cercai così di immaginare le domande che la mucca doveva stare formulando, più o meno coscientemente, dentro di sé, e magari di arrivare alle risposte.
Tanto avevo tempo. Ma non è facile calarsi nella mente di un bovino, provateci e vedrete che proprio non è facile. L’unica domanda possibile che mi venne in mente fu che stesse pensando: “Vuoi vedere che questo si è fermato proprio qui per venire a pisciare sulla mia erba?”
Sì, questa era una domanda plausibile, e se non mi fosse accaduto di avvertire il rumore di un motore che si avvicinava, l’avrei senz’altro fatto, di pisciare sulla sua erba. Fosse solo per ricacciarle negli occhi quel suo sguardo sfrontato.
Quando fu più vicino, il rumore assunse le sembianze di un vecchio camioncino scoppiettante, dal quale si affacciò il viso cordiale e cotto dal sole di un contadino.
“Si è fermata?”, mi chiese nel suo dialetto, e senza attendere risposta scese dal mezzo e cominciò a girare intorno alla mia Volvo con arie di competenza. Per un po’ temetti che pretendesse di infilare le mani nel motore.
“Bella macchina -, mi disse, – però oggi non c’è niente che possiamo fare. E’ domenica, e i meccanici sono tutti chiusi.” Proprio quello che temevo.
L’uomo continuò a guardare la Volvo ancora per un po’, ma già con uno sguardo diverso, non più da intenditore, piuttosto da persona che stia cercando una soluzione. La trovò e me la sottopose:
“Senta, perché non raccoglie le sue cose e viene da me? Sarà mio ospite, e domattina poi l’accompagnerò da un meccanico. Ad Altamura c’è un’officina autorizzata. ”
Rimasi piuttosto sorpreso, perché una cosa del genere da noi non sarebbe mai potuta succedere. Raccogliere uno sconosciuto sul bordo di una strada e portarselo in casa, e offrirgli da mangiare e da dormire: figurarsi. L’invito mi rese anche un po’ sospettoso, e mi vennero in mente tutti i luoghi comuni sul Sud.
Le mie perplessità dovettero risultare visibili al brav’uomo, che però equivocò, scambiando la mia esitazione per il timore di lasciare l’auto lì, incustodita in mezzo alla campagna:
“Non si preoccupi, non gliela toccherà nessuno”, mi disse.
Così, per non offenderlo, mi lasciai convincere. Aprii il portellone posteriore, presi le valigie e la macchina fotografica e mi diressi verso il camioncino dove, nel frattempo, il contadino era tornato a sedersi.
Il contadino, che poi si sarebbe presentato come Lopopolo Gino e quindi d’ora in poi è così che lo chiamerò, stava guardando con aria perplessa verso la mucca di poco prima. Continuò a farlo durante tutto il tempo che mi ci volle per sistemare me e il mio bagaglio, poi mi chiese:
“Conosce quella mucca?” Intendeva la mucca di prima.
“La stavo guardando poco fa. Ma conoscerla… no, non posso dire di conoscerla.” Ed era l’unica risposta che potessi dare, perché come si fa a dire di conoscere una mucca? Poi aggiunsi:
“Perché me lo chiede?”
“Ho visto che la guardava in un modo strano. Chissà che cosa stava pensando…”
Girò la chiavetta, il motore emise un lamento d’oltretomba e il camioncino partì. Ma si vedeva che Lopopolo continuava a riflettere sullo sguardo della mucca. Disse che non dovevo meravigliarmi della domanda, le mucche da quelle parti avevano strane abitudini e strane inclinazioni.
Io gli chiedevo: in che senso: “strane”?, e lui non sapeva fare altro che ripetere l’aggettivo: strane bestie, che avevano strani itinerari.
Perfino il latte che davano, poteva definirsi strano. La campagna che andavamo attraversando, liberata dalle polverose asprezze del Cilento, risultava un paesaggio molto verde e molto riposante. Dopo una decina di minuti di viaggio, Lopopolo svoltò in una stradina laterale non asfaltata e prese a percorrerla a velocità elevata. Mi disse che stavamo per arrivare, e che per il resto del pomeriggio lui aveva da fare nei campi, ma nessuno mi avrebbe disturbato. In casa avrei trovato solo Aristide, un vecchio in pieno delirio arteriosclerotico che era tutto quello che la moglie, morendo, gli aveva lasciato in eredità.
“E’ suo padre, mio suocero. Ma non le darà fastidio. Al massimo le racconterà qualcuna delle sue storie. Ha sempre molta voglia di parlare, e non ha mai nessuno con cui farlo. Dovrà solo avere un po’ di pazienza.”
In lontananza apparve una di quelle costruzioni che qui chiamano masserie. Spiccava bianchissima come un fortino in mezzo a quel mare di verde che l’assediava da ogni lato. Capii che era lì che ci stavamo dirigendo, e ne fui contento. Mi sembrava veramente un bel posto: isolato in mezzo alla campagna, e con qualcosa di arcaico che subito mi colpì, e che mi ripromisi di afferrare e definire meglio durante il tempo che sarei rimasto.
Entrammo nel cortile attraverso un cancello spalancato. C’era una costruzione principale, che doveva essere l’abitazione, e poi diversi altri edifici, più o meno, in buono stato. Soprattutto c’era quel muro piuttosto alto che delimitava il perimetro quadrato della masseria, non so bene se per proteggerla da intrusioni esterne o per rinchiudere chi vi si trovasse dentro. Era alto e isolato da tutto, il muro. Solo con la casa principale, quella che verosimilmente faceva da abitazione, e che stava in un angolo del perimetro, si confondeva per un tratto. Come se la casa fosse un torrione, un luogo di avvistamento. Scesi dal camioncino guardandomi attorno, mentre Lopopolo scaricava le sue merci dal cassone. Quando mi avvicinai per aiutarlo mi disse di non sporcarmi le mani, che avrebbe fatto da solo. Così mi limitai a prendere le mie cose, aspettando poi che lui fosse pronto. Aristide comparve quasi subito, con la curiosità dei vecchi che non hanno niente da fare. Era un uomo dal volto scavato e con la barba bianca e ispida, quasi l’iconografia del vecchio contadino del sud cotto dal sole. Sporse la testa dalla porta di uno degli edifici del cortile, forse un vecchio porcile in disuso, Lopopolo lo chiamò e lui, prima di avvicinarsi, mi guardò ancora un poco. Non era uno sguardo cattivo, e neppure inquietante come quello della mucca. Direi che non era neanche uno sguardo curioso, in definitiva. So che è strano dire una cosa del genere, ma mi sembrò che mi guardasse, come si guarda qualcuno che era finalmente arrivato, o tornato, e che un po’ mi volesse già bene. Quando mi fu vicino, prima ancora di sentire le spiegazioni del genero, allargò la bocca popolata di pochi denti in un sorriso affettuoso, disse qualcosa che più dal tono, che dal significato compresi essere un sussurro affettuoso, mi chiamò figlio e mi carezzò una guancia.
“Chissà per chi l’ha scambiata…” disse Lopopolo.
“Forse per un suo figlio? Ho sentito che mi chiamava così…”
“Non ha mai avuto figli maschi. Solo una figlia, che era mia moglie.”
Continuava a parlarmi in un dialetto oscuro, un gramelot che mi sembrava riunisse tutte le tonalità meridionali, e con il quale riusciva comunque a comunicare. Come se il dialogo si svolgesse in tempi precedenti alla codificazione dei suoni, quando quello che contava, per farsi intendere, era solo ciò che ciascuno metteva nella propria voce. A complicare il tutto stava quella sua bocca quasi priva di denti: le labiali uscivano a fatica dalle labbra, innaturalmente serrate e con le gengive quasi a contatto tra loro, mentre le dentali venivano sputate fuori prive di segni di riconoscimento. La lingua non incontrava la barriera della dentatura sulla quale frangersi, ma solo qualche scoglio isolato, intorno al quale il suono si avviluppava in un abbraccio liquido, e per il resto fluiva via senza incontrare ostacoli. Parlava, sorridendomi, nel suo linguaggio incomprensibile, alternando suoni aspri che sapevano di arabo ad altri più dolci che sembravano napoletano, in una stratificazione di epoche e luoghi disparati. Lopopolo stette a guardarci per un po’ senza intervenire, poi si rivolse ad Aristide spiegandogli che ero un signore del nord rimasto fermo con la macchina, e che sarei rimasto lì fino alla mattina seguente.
Gli raccomandò di non disturbarmi, perché ero stanco e volevo riposare, e non stare a sentire le sue storie. Gli parlò a voce piuttosto alta, ma non credo che lo facesse perché il vecchio era sordo. Sembrava invece che la sua intenzione fosse quella di imprimere bene in quella mente annebbiata pochi fondamentali concetti. Non fu sgarbato, anzi gli si rivolse con una delicatezza, direi quasi una dolcezza, che non mi sarei aspettato da lui. Aristide lo stette a sentire, e con la testa e con la voce faceva sì. Sì, non ti preoccupare. Sì, senza riserve. Il sì più ampio e incondizionato che un uomo potesse desiderare. Mi accompagnò nella mia stanza, che era all’ultimo piano della casa più grande, e Aristide ci venne dietro parlottando fra sé e sé, ma forse era un discorso che nelle sue intenzioni era indirizzato a me. Il tono era quello di chi raccontava i patemi e le ansie di una lunga attesa. Faticò un poco sulla scalinata, che era fatta da una ripida successione di gradini stretti e alti, e ci raggiunse con il suo sorriso sdentato quando il genero aveva già spalancato la porta ed eravamo entrati all’interno. La camera dove avrei dormito quella notte era come ci si aspetta che sia una camera in una casa di contadini.
Un comò scuro con sopra uno specchio, un paio di sedie impagliate, un tavolo anch’esso scuro e un letto alto e bianco, con la testiera in ferro battuto e le lenzuola che scommisi sapevano di fresco. Non c’era altro, né altro mi sarebbe servito, del resto, per una notte. Lopopolo mi avvertì che avremmo mangiato alle otto, e che, se intanto volevo lavarmi, il bagno era in fondo al corridoio. Poi avrei potuto riposarmi un poco. Se ne andarono, e andandosene Aristide sorrideva e annuiva, intendendo riposa, sì, riposa, che sarai stanco, figlio. Sarà stato il caldo, sarà stata la novità di quell’avventura, fatto sta che mi tolsi le scarpe e mi sdraiai sul letto, abbandonandomi con il corpo e con la mente a quel senso di pace che provavo dentro di me. Nell’assenza di rumori sentivo provenire dal piano di sotto suoni ovattati. Non propriamente rumori, ma solamente grumi di silenzio più intenso, che nel silenzio generale si incastonavano con una grazia che mi cullava. Ricordo che appisolandomi avvertii dei muggiti in lontananza, e forse devo proprio a questo il fatto che sognai di essere nuovamente di fronte alla mucca, ancora con tutti i suoi pensieri da decifrare, e sotto quello sguardo a cui la masticazione non toglieva nulla della sua perfetta e indeformata fissità. Dormii profondamente per tutto il resto del pomeriggio. Erano ormai le sette di sera quando mi affacciai alla finestra e aprii le persiane. Sotto di me, nel cortile, c’era Aristide intento a un’occupazione che mi incuriosì. Ho trascurato di dire che le costruzioni della masseria erano in parte inutilizzate e in parte anche in rovina. Aristide si spostava da un cumulo all’altro di mattoni e calcinacci, correndo con la velocità che l’età gli permetteva.
Arrivato in un punto, stava un po’ dritto in piedi e poi, come se la sua attenzione fosse stata richiamata da un suono o da qualcosa che aveva visto, sempre di corsa e sempre con la velocità che l’età gli permetteva, si dirigeva verso un’altra rovina. Pensai che stesse dando la caccia alle lucertole, oppure addirittura a un serpente. A qualche bestia, insomma, che più che cercare la salvezza si divertisse a prendersi gioco di lui.
Scesi a pianterreno – Lopopolo non c’era – e uscii nel cortile, e chiesi al vecchio se aveva bisogno di una mano. Annuì con gratitudine, sì, figlio, vieni, e mi indicò il punto dal quale dovevo cominciare.
“Che cosa stiamo cercando, Aristide?”
Con il braccio teso fece un gesto ampio, diretto verso l’alto. Forse era il suo modo di circoscrivere il teatro delle operazioni, oppure di introdurre un argomento facendo piazza pulita di tutto il resto. Quello che diceva non tentai neanche più di comprenderlo alla lettera: facevo come un cane, che capisce il discorso del padrone dal tono che usa. In quel linguaggio schematico di sentimenti e stati d’animo, ero arrivato quasi subito a riconoscere l’affetto, il mistero, l’inquietudine. Questo in fondo era sufficiente, perché Aristide non credo narrasse mai veri e propri avvenimenti.
Ora, per esempio, riconobbi l’ansia di concludere un lavoro, e la preoccupazione di svolgerlo bene. Ci mise un po’ a spiegarmi che cosa c’era da fare. Il sole; era del sole che si trattava. Il sole durante il giorno si infilava dappertutto, si divertiva a illuminare da angolazioni diverse anche i posti più riparati, si disperdeva in anfratti e pertugi.
Spesso poi la sua luce rimaneva là sotto a riposare fino a tardi, perché è pigro e indolente e ostinato, il sole del sud. Più il tempo passava, più il disco luminoso si avvicinava alla linea dell’orizzonte, e più la sua luce radente si allungava dovunque: dentro la stalla fino alla parete opposta all’entrata; sotto le lastre di marmo accoppiate come in un gioco di carte in equilibrio; sotto gli archi del porticato… insomma: c’erano un’infinità di posti che potevano offrire rifugio alla luce rossa ed estenuata delle ore serali. C’era il rischio che il sole tramontasse dimenticando di portare con sé tutta la sua luce, se nessuno gli dava una mano, e tutto doveva avvenire entro ben precisi limiti di tempo, perché la notte doveva essere buia, o al massimo illuminata dalla luna. Vedi come si fa?, mi diceva, e correva a mettersi davanti all’entrata della stalla. Allora notavo che effettivamente quando lui era lì davanti la luce nella stalla diminuiva, salvo poi ritornare a illuminare la parte opposta quando Aristide si spostava.
Ma già meno di prima, appena percettibilmente più in basso. Certo, per fare un lavoro come si deve sarebbe occorsa molta più gente, magari una persona per ogni posto dove la luce era andata a infilarsi. Invece c’era solo Aristide, e il suo affannarsi da un posto all’altro alla lunga otteneva, sì, lo stesso risultato, ma la luce del sole era come se si prendesse gioco di lui. Tornava a occupare lo stesso posto di prima appena lui si spostava per stanare altri raggi radenti. L’unica differenza era che un po’ diminuiva, e che sembrava un poco più rassegnata ad andarsene.
E’ una grande fatica per il sole, cercava di spiegarmi, radunare ogni sera tutta la luce sparsa sul mondo. Il sole è vecchio, bisogna aiutarlo, e con il gesto ampio di un capo indiano Aristide circoscrisse l’ambito di nostra competenza al quadrato interno alle mura della masseria. Corremmo come due scemi per un tempo che mi parve lunghissimo, ma che non dovette durare più di una mezz’ora. Mi parai davanti allo spicchio di luce tra la casa e il pollaio, mi inginocchiai per svuotare della luce alcuni recipienti dalla funzione sconosciuta, aderii con il corpo pezzo per pezzo a tutta una parete per ridurre nell’ombra le sue porosità, mentre Aristide ogni tanto mi guardava, mi sorrideva e annuiva. Fu un lavoro faticoso, che conclusi in un bagno di sudore e con le gambe stanche per tutto quel correre. Con Aristide alla fine ci ritrovammo fianco a fianco vicino a una larga crepa che si insinuava profondamente verso la base del muro di recinzione, la breccia attraverso la quale avevamo scaraventato all’esterno l’ultimo raggio di luce. Osservammo il sole che scompariva dietro le basse colline e il cortile che ne era ormai libero, sospeso tra il giorno e la notte.
Mi venne spontaneo chiedere:
“Aristide, la notte viene da sé o dobbiamo andare a prenderla noi?”
Ma non intendevo fare dell’ironia, a quel punto lì ero sinceramente curioso di saperlo.
Iiiihhhhh, la notte… la notte: iiihhhh. Come dire: la notte era tutto un altro discorso, la notte era il bello che doveva ancora venire, la notte era il mistero, una luce imprendibile e un silenzio di vento, e noi non potevamo farci niente. La notte veniva da molto lontano, da più lontano ancora del luogo definito col movimento del braccio da capo indiano. Veniva da un luogo individuato con un gesto di scavalcamento delle mani che voleva dire là, e ancora più là, e ancora molto più in là… un posto che non si può neppure immaginare. Da tali irraggiungibili distanze veniva la notte, e noi non potevamo farci niente. Ma possibile che non lo sapessi, figlio? Dovevi venire qui, per scoprirlo? Mi preparai a riceverla, quindi, la notte misteriosa e odorosa del sud. Intanto si sentì in lontananza lo stesso motore scoppiettante del pomeriggio, ed era Lopopolo che tornava da qualche posto senz’altro più vicino di quello dal quale la notte si stava già muovendo.
“L’ha disturbata con le sue storie?”, mi fece appena sceso dal camioncino, e io no, dissi, non mi aveva disturbato affatto, e anzi ero io a sperare di essergli stato utile.
“Ha visto, è un vecchio inoffensivo, ha solo certe sue manie… Vieni, Aristide, prepariamo la cena. Se lei, intanto, vuole rinfrescarsi, perché la vedo accaldato… Si mangia tra un po’…” Aristide si alzò dallo scalino dove stavamo seduti e prese l’andatura di un vecchio cane imbolsito dagli anni, che segue il padrone verso il pasto con uno stanco dimenare di coda. Quando fui pronto per andare a tavola, Aristide era già seduto che mangiava, ma non trascurò di annuire, quando mi vide. Maneggiava un vecchio coltello a serramanico, tagliando tocchi di formaggio da una grossa fetta che teneva in mano e portandoseli alla bocca con il coltello stesso. Masticava con un movimento esagerato, forse a causa dei pochi denti che gli erano rimasti, e in un modo che il mento toccava quasi la punta del naso. Gino aveva preparato quello che definirei un pasto freddo e molto adatto per l’estate, fatto di un tipo di pasta che chiamano cavatelli, condita a crudo con basilico e pomodori molto rossi. Poi c’erano verdure e delle piccole mozzarelle. Ma sia io che Aristide mangiammo poco, proprio come due bambini che hanno fretta di tornare a giocare all’aperto. C’era la notte che stava per arrivare, e lui era ansioso di insegnarmela, io di impararla. Ero l’ospite inatteso che la mattina dopo sarebbe partito, trascinato via dagli eventi degli adulti. Loro si curano sempre così poco delle profonde relazioni che si instaurano occasionalmente tra i figli propri e altrui. Oppure era un vecchio padre che aveva qualcosa di urgente da tramandare. Voleva spiegarmi tutto nel poco tempo che aveva a disposizione, prima che sparissi di nuovo, e intanto annuiva, mi guardava e annuiva, buono, vero?, mangia, che poi torniamo fuori. Figlio.
Fu Aristide che finì per primo, si alzò e uscì nel cortile con la sua andatura malferma.
“Eccolo lì. Adesso se ne va a girare fuori. Tutte le sere, uguale, chissà che avrà da fare…”, disse Lopopolo. Osservai che con i vecchi è così, non sanno stare fermi, vogliono rendersi utili, dormono poco. Io stesso, del resto, non avevo sonno, perché avevo dormito per tutto il pomeriggio, quindi potevo capirlo.
“Anzi – feci – penso che lo raggiungerò.”
Fuori, intanto, la notte era arrivata. Aristide era seduto su uno dei gradini della breve scala che portava al cortile. Aveva già cominciato a parlare, senza neanche aspettare che io arrivassi e mi sedessi vicino a lui. Sospettai che non per me stesse parlando: non faceva gesti, infatti, mentre, invece doveva aver capito che soprattutto con quelli potevamo comunicare. Teneva le mani dentro le tasche della giacca, ed emetteva una sequenza di parole che sembrava ininterrotta. Cercai di interpretarlo come un suono uniforme che avrebbe dovuto introdurmi nella realtà della notte. Mi accesi una sigaretta, la prima della giornata, e il profluvio di parole di Aristide assunse tonalità timidamente incuriosite e interrogative.
Gliene offrii una, lui la prese con pollice e indice e la maneggiò a lungo come se avesse paura di spezzarla, come se volesse controllarne l’effettiva capacità di resistere al contatto della sua pelle indurita.
L’accese avvicinandola alla fiamma che gli porgevo, e prese a fumarla intensamente, sempre reggendola con le due dita e portandola frequentemente alla bocca per tirate brevi e nervose. Stavolta non sorrideva, sembrava invece incline a qualche considerazione generica non so bene se sul paesaggio, sugli edifici della masseria o sulla notte del Sud. Cominciò con ampie movenze del braccio sinistro, solenni semicerchi tracciati nell’aria di fronte con la mano tesa. Voleva indicare la vastità del paesaggio, forse, e intanto parlava, ma io non lo capivo fino in fondo.
Scuoteva la testa, allora, perché la sua non era una conversazione di circostanza. Aveva proprio qualcosa che ci teneva io comprendessi bene.
In quello spazio, in quella contrada, in quella regione che lui delimitava con il braccio teso, quasi accarezzandola, avveniva da tempo immemore qualcosa che io, dovevo assolutamente sapere. La storia del vecchio mi incuriosiva e, premendomi maggiormente assodare quale fosse l’uso, la costumanza, il barbaro rituale che in quel panorama aveva luogo, mi ripromisi di circoscrivere in un secondo tempo entro esatti confini la zona indicata. La voce indaffarata di Aristide ebbe un guizzo, e una parola finalmente riconoscibile emerse come la scheggia di un relitto sommerso da quello spumeggiare di fonèmi borbonici. C’era dentro di tutto, e mi sembrò di riconoscere perfino un aoristo della Magna Grecia, rimasto abbracciato come un calamaro a quella parola che cominciavo a temere: mucche. Era una storia di mucche, dunque. Sarà stato il caldo, o forse il vinello generoso che avevo bevuto, ma queste mucche pugliesi e lucane cominciavano a rendermi allarmato.
“Mucche, signor Aristide? E cosa fanno le mucche? Giusto stamani…”
Mi interruppe posandomi una mano sul braccio e annuì totalmente come faceva lui, come per assicurarmi che lo sapeva, forse era stato Gino a dirglielo, proprio per questo volevo avvertirti, figlio. La notte.
Mi chiedevo cosa fosse per lui la notte, e cosa c’era che voleva farmi vedere. Si preannunciava un’attesa lunga, e per questo forse aveva pensato di ingannarla cominciando subito a spiegarmi. Avevo atteso così tanto, per decidermi a capire, che non potevo più perdere ancora tempo.
C’era abbastanza luce per vedere tutto il cortile, e lo guardavo come osservando una foto in bianco e nero stampata male, bruciata da un’esposizione troppo lunga. Mi sentivo un po’ autore di quella notte, perché insieme ad Aristide avevo contribuito a creare l’assenza di luce del sole.
Ora lei era arrivata dal suo lontano e irraggiungibile luogo di partenza, aveva trovato il cortile proprio come era necessario che fosse, e mentre mangiavamo si era distesa silenziosamente sulla masseria e su tutto quello che da lì dentro potevamo vedere. Restammo seduti sullo scalino per molto tempo. Venne Lopopolo per dirmi che andava a letto, e di tenermi pronto per la mattina dopo alle sette, che mi avrebbe accompagnato all’officina autorizzata di Altamura. Lo ringraziai e gli augurai la buona notte. Mi sembrò che il commiato del genero fosse il momento che Aristide aspettava, perché subito ricominciò a parlare. Guardai l’orologio ed erano ormai quasi le undici, e anche se mi sentivo stanco, non posso dire che avessi voglia di dormire.
Il protrarsi dell’attesa di qualcosa rendeva ansioso il vecchio. L’ansia di un evento gradito, però: un appuntamento galante, il ritorno di una persona cara, il progressivo riaffiorare di un ricordo che si credeva dimenticato, e che ora si tenta di ricostruire fin nei minimi particolari.
Cominciò ad aggirarsi nel cortile, chinandosi ogni tanto, come se raccogliesse qualcosa. Io lo osservavo dalla stessa posizione di prima, solo che avevo appoggiato la schiena e sedevo un po’ di sbieco. Sembrava che controllasse se tutto era in ordine; ogni tanto sollevava lo sguardo al cielo, e immagino lo facesse come lo fa un navigante, per leggere nel cammino delle stelle il trascorrere del tempo.
Tornò in fondo alla scala e mi chiamò con la mano, e quando lo raggiunsi, mi fece vedere che in mano stringeva un ciuffo di fili d’erba.
Indicava il cortile, me e lui, con la bocca emetteva suoni che esprimevano la volontà di escludere tutti gli altri, non so se dal cortile o da quello che aveva intenzione di fare. Capii che intendeva dire che era nostro: il cortile, e l’erba che ci cresceva.
“Il cortile e l’erba sono nostri, Aristide? Ma io…” Mi interruppe: no, il cortile no, era di Lopopolo, ma l’erba sì, era nostra. E mi fece cenno di seguirlo.
Arrivammo fino in fondo al cortile e ci fermammo un paio di metri fuori del cancello, sulla strada polverosa che avevo percorso al mattino arrivando sul camioncino. Si tratterà di aspettare qualche minuto, sembrava dirmi Aristide, e per farlo non si indicava il polso come facciamo tutti noi uomini del ventesimo secolo, ma incassava la testa tra le spalle e allargava le braccia nel gesto dell’uomo rassegnato. Indicava il cielo notturno, che era l’unico quadrante sul quale sapesse leggere le ore. Attendemmo, quindi, e ogni tanto Aristide mi faceva cenno e mi diceva ci siamo quasi, vedrai, ancora due minuti. Finché effettivamente non accadde che dal campo coltivato a grano, che rimaneva nascosto dal muro della masseria, cominciò a provenire il rumore di qualcuno che procedeva camminando lentamente, e come trascinando i piedi. Era uno scalpiccio indistinto che poteva appartenere a chiunque, a persone o animali armati di qualunque genere di intenzioni. Ma non provai paura, non potevo avere paura in quella notte odorosa che sembrava avere la stessa temperatura del mio corpo, tale era l’inavvertibile naturalezza con cui mi scivolava addosso. Aristide non si mosse, non andò incontro al rumore di passi, ma mi guardò sorridendo per dire ecco, e rimase lì sul cancello come se quello fosse il punto esatto, stabilito attraverso anni e anni di consolidata abitudine, in cui dovevamo attendere. Dopo un poco dall’angolo spuntò fuori una mucca. Cosa strana, perché indubbiamente una mucca a quell’ora non se ne va in giro per i campi a fare visite di cortesia nelle masserie dei dintorni. Però fatto sta che proprio di una mucca si trattava, e vederne comparire una a conclusione di quell’inattesa giornata fu proprio ciò che in fondo mi aspettavo. Era dalle prime ore del pomeriggio che pensavo a loro, e una mucca era quindi la benvenuta, l’elemento che mancava per la soluzione finale dell’enigma, per lo scioglimento di quella leggera incertezza dell’anima che mi aveva preso.
Tutto tornava, finalmente. La osservai quasi con sollievo, quando apparve da dietro il muro di cinta, e lei osservò noi, con quel suo sguardo di bovino curioso sul senso del quale già al mattino mi ero interrogato.
Ci guardava e restava ferma, non so se fosse sorpresa di trovare Aristide in compagnia di uno sconosciuto o se ubbidisse piuttosto a un protocollo che imponeva una certa rigidità di cerimoniale. Propendo per la prima ipotesi, perché l’animale si mosse solamente quando Aristide si fu rivolto a lei con un tono che più che di incoraggiamento seppe di spiegazione.
Tra i due dovette correre una trattativa rapida e impercettibile, nella quale il vecchio, ebbe la meglio. L’animale si avvicinò al cancello lentamente e con quella che poteva sembrare riluttanza, dando ad Aristide il tempo di guardarmi tutto. Mi esaminò dalla testa ai piedi per vedere se ero in ordine, per valutare se e quanto fossi degno di prendere parte a quello che stava per accadere. Superai la prova. La mucca si fermò di fronte al vecchio, ignorandomi completamente e in un modo che avrebbe potuto anche indispormi. Lui prese a carezzarla sulla testa e sul naso.
Sapevate che il grosso naso tumido delle mucche è tutto cosparso di peli corti e ispidi? Io no, non lo sapevo, prima di allora, e così rimasi a guardare quel naso che un po’, ammettiamolo, mi faceva senso, mentre gli altri due si intrattenevano in un fitto conciliabolo di vecchi amici. Dopo un po’ Aristide dovette cominciare a parlarle di me. Lei ascoltava quello che lui le diceva vicino all’orecchia, e volgeva ogni tanto la testa nella mia direzione, come per controllare a chi con esattezza si riferissero le parole del vecchio conoscente, e se potessero risultare attendibili. Se non temessi di esagerare troppo, in questa storia già esagerata, direi che ora aveva le sopracciglia aggrottate, proprio come fanno gli uomini quando si tratta di prendere una decisione. Ma questo no, non potrei giurarlo.
Ogni tanto anche Aristide si voltava a guardarmi, e mi faceva un segno come per dire non temere, le sto parlando bene di te, so come prenderla, vedrai che la convinco. Io ero sinceramente in ansia, speravo che la cosa andasse in porto, anche se non sapevo di cosa con precisione si trattasse.
Fui contento quando vidi che la mucca si staccava da Aristide. Aveva preso la sua risoluzione, e mi si avvicinò fino a sfiorare con quel grosso naso peloso la camicia che indossavo. Mi annusò. Il vecchio sorrideva, sapeva di avercela fatta. Mi indicò che dovevo alzare una mano, così, figlio, mi fece vedere, e su quella mano la mucca passò senza preavviso la lingua scura, spessa e bavosa in una leccata che ebbe qualcosa di rituale. Mi trattenni dal compiere l’atto che il primo istinto mi dettava, cioè di asciugarmi la mano sui pantaloni, e fu un’ottima idea perché senza dubbio in quel modo avrei vanificato la paziente opera di persuasione del vecchio. Ora toccava a me, mi fece capire, e quello che dovevo fare un po’ mi ripugnava, proprio per quei motivi che ho detto prima: così, figlio, così, mi mostrava Aristide, devi ricambiare leccandola sul naso. Ma proprio sul naso? Sì, figlio, sul naso. C’era qualcosa di rituale, dunque: si trattava di un’affiliazione, un patto di saliva stipulato tra uomo e animale che mi rendeva accettato non capivo da chi: forse dalla mandria, oppure dall’intera specie bovina, o magari, più probabilmente, dalla indefinibile e silenziosa notte del sud, nella quale avvengono cose strane e difficili da raccontare. Mi avvicinai alla grossa testa di bovino, non ne avevo mai vista una da così vicino, ne avvertii l’alito e l’alito non era ripugnante, sapeva di buono, di latte e letame. Il naso era a due centimetri da me, viscido e irsuto. La mucca non si muoveva, attendendo la conclusione con rigidità massonica. Aristide mi guardava sorridendo, con il mento che gli toccava la punta del naso, e si stava avvicinando.
Estrassi la lingua, la spianai per renderla più estesa che puntuta, perché già che c’ero volevo che fosse un’affiliazione con tutti i crismi, e la passai sul naso dell’animale in una leccata lunga e lenta… fatto! La mucca fece due – tre passi indietro con un’aria che definirei soddisfatta, e mi guardò con i suoi grandi occhi tondi e pieni. Aristide mi stava vicino, adesso, e vidi che in pugno stringeva ancora il ciuffo d’erba, l’erba del nostro giardino che aveva scelto con tanta attenzione. Aprì la mano davanti al muso dell’animale, e lui ne assaggiò qualche filo, lasciando il resto. Nessuno si aspettava che avesse fame, del resto, e poi di erba avrebbe potuto trovarne ovunque. Quello era solo un atto dettato dal sacro dovere dell’ospitalità. Entrambi, intendo, sia il dare che il ricevere.
Se ne andò via, la mucca, in un modo che sembrò come quando uno se ne va senza salutare, e posso anche capirla, perché va bene fermarsi da un amico, va bene accettare di fare una nuova conoscenza, va bene anche leccarsi a vicenda, ma per una mucca che gira da sola di notte è consigliabile non dare mai troppa confidenza, e non fermarsi mai a lungo in un posto. Aristide la guardò allontanarsi sporgendosi con tutta la persona; poi io feci uno sbadiglio, lui guardò l’orologio delle stelle e concluse che era ora di andare a dormire, figlio.
La notte proseguì la sua corsa verso altri luoghi.