I due lati di Cronauer_Vanni Schiavoni, Manduria(TA)
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia 2000.
Era splendida. E quel che è peggio, è che sapeva di esserlo…
La Bellezza è l’unica cosa contro
cui la forza del tempo sia vana.
Le filosofie si disgregano come la sabbia,
le credenze si succedono l’una all’altra,
ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni,
ed è un possesso per tutta l’eternità.
(O. Wilde)
Passeggiava tra i tizi decadenti del Kensington market usando come un archetto di violino nel freddo la sua pelliccia. Andava con quell’aria da puttana costosissima, lo sguardo mascarato, tagliato da una ciocca androgina dei suoi capelli a caschetto. Camminava ancheggiando la bellezza dei suoi ventitré anni. Tanti ne aveva in quel febbraio del 1971. E Londra era la solita Londra di febbraio. Magari appena più euforica, più sculettante, ma in fondo era sempre Londra…
Era un mattino svogliato, con nuvole alquanto kitsch e tutto il resto.
Sembrava l’ultimo sopravvissuto, il mago di una qualche arte tramandata da millenni. Era un millennio svogliato, con vento alquanto kitsch e presagi di rivoluzione…
Dave passeggiava tra i tizi annoiati del Kensington market usando tutto ciò che poteva muovere o lasciare fermo per scioccare e mettere tutti gli altri ai lati del suo andare o dietro, ad abbassare lo sguardo, ad ammirarlo, dirne male, dire…
Gli altri intorno, gli camminavano vicino, in mille direzioni diverse, indicavano, ridevano, si avvicinavano ai pittori da marciapiede.
Dave avrebbe voluto fargli dipingere un’altra estate, un’altra sua infanzia, altri ricordi, magari felici. Con un pennello a coprire la vergogna per quel piccolo dai modi effeminati, dai capelli lunghi e con la mania dei trucchi; gli avrebbe fatto dipingere una profezia diversa da quella del fallito ed ogni giorno la sua sfida era contro quella fine prevista da tutti. L’atmosfera era appena decadente e annoiata come i tizi del Kensington market e Dave ci sfilava nel mezzo affascinante, melanconico, effimero come quel febbraio del Settantuno, come quella Londra del Settantuno, appena più euforica e sculettante… Londra era infinite vie curve e parchi nel centro storico, Londra era una ragazza che ciondolava tra le offerte impolverate e le bancarelle improvvisate, senza senso nei suoi passi, senza scommesse nei suoi pochi anni; tornava ad abbracciare il suo ragazzo rimasto poco distante e insieme indicavano, ridevano, si avvicinavano ai venditori di qualcosa. Dave era già più lontano, per altre strade e per altri pensieri. Lasciò volentieri il Kensington market ai suoi tizi decadenti, al suo resistere sciatto, al suo sopravvivere nonostante.
Dave era già lontano a muovere il culo e la pelliccia, muoveva esageratamente le ciglia e l’odore di mascara intorno. La sua vita era una sciarada, sparita dietro uno di quegli incroci. E Londra era la solita Londra di febbraio…
O si è un’opera d’arte
o la si indossa.
O. Wilde)
Il laboratorio-sartoria-atelier-negozio-club-tempio-ritrovo di Isabel Underpil era in Old Bond street. Dave si muoveva tra le giacche e i colori usando come un archetto di violino tra gli specchi la sua pelliccia. Guardava con quell’aria da puttana costosissima alcuni abiti di lamé, ideali per continuare ad ancheggiare la bellezza dei suoi ventitré anni. Tanti ne aveva in quel febbraio del 1971. Ma la Londra che faceva mostra di sé in quella sala non era la Londra del Settantuno, non era la città di Carnaby street e Portobello road.
Isabel, stilista e mecenate, gran madre di età imprecisata, amava circondarsi di amanti e artisti e nuovi adepti del culto antico della teatralità, spesso giovanissimi, le cui anime vestiva di strass non meno di quanto facesse con i corpi. Si avvicinò a Dave con parole artificiali.
Lo guardava più che parlare, gli era addosso e lo travestiva. Dave la lasciava fare, appendeva la propria identità ai manichini e l’accorciava o allungava a colpi veloci di forbici ed ago. Isabel lo guardava, Dave si guardava nello specchio. Sentiva di evolversi più di ogni altro. E non gli dispiaceva affatto. L’immagine gay era ormai l’aver alzato il ponte e lasciato fuori il passato ed ogni idea cieca di umanità.
Era l’immagine di un universo elettrico, di un mondo alieno, caldo carne e freddo-maschera. Aveva avuto paura per troppo tempo di essere quello che voleva essere, fino a non riuscire ad esprimere i suoi pensieri. Tutto questo era molto più naturale. Cos’altro avrebbe potuto fare?
Dave volteggiava nello specchio, Isabel gli parlava. Se il mondo è un palcoscenico lei la sua parte la recitava per intero. Recitava, nella maniera volutamente meno naturale e meno reale possibile. Dave la lasciava fare, appendeva la propria fantasia ai manichini e la colorava e profumava con spruzzi leggeri di ieri e domani. Erano entrambi il prodotto delle loro stesse incertezze. Erano fantastici. Erano due illusioni immagazzinate. Immaginazione in scatola. Estremamente coerenti con la propria incoerenza. Si allontanò da Dave con parole artificiali.
“Tu potresti contenere ogni cosa… E forse la contieni”
“Non mi interessa contenere tutto. Ho quello che mi serve: questa faccia, queste mani, queste labbra, questi genitali, questa testa, questo cuore, questo carattere, tutti gli schiaffi presi e tutta la tenacia con cui gli ho restituiti. Queste sono le sole cose che mi servono. Non mi interessa contenere ogni cosa”. Confondevano in ogni parola essere e volere essere, apparire ed essere visti.
“C’è sempre nel mondo un’immagine di noi che noi non conosciamo e che non controlleremo mai”
Poi si portarono fuori da ogni altra parola inutile, dalle camicie inutili e con un bacio inutile sulle labbra si salutarono.
La disobbedienza,
per chiunque conosca la storia,
è la virtù originale dell’uomo.
Il progresso è stato realizzato con la disobbedienza;
con la disobbedienza e con la rivolta.
(O. Wilde)
Era un giorno svogliato, con cielo alquanto kitsch e sbornia di odori. Dave percorreva gli ultimi metri di asfalto svogliato, con marciapiedi alquanto kitsch e tutto il resto, usando come un archetto di violino tra i passanti la sua pelliccia. Poi arrivò. Era il negozio di dischi di Eric Williams, messo lì, proprio nel cuore della Londra medievale, la città degli assassinii e dei tradimenti, delle vendette, delle lotte sanguinarie per il potere. Nessuno da fuori poteva vedere la sacralità di quel luogo.
Dave entrò per consumare un rituale che da fuori nessuno poteva capire. Un ragazzo che passava e andava chissà dove fermò un sorriso davanti a quella vetrina, guardando per strada e dentro. Poi entrò in quel santuario e raggiunse Dave seguendo i segnali scivolati di lui che maneggiava già Elton John e Alice Cooper e i Mott the Hoople fino a trovare “Unicorn”, l’ultimo album con Steve Took del suo dio, Marc Bolan. Scorreva ad alta voce i titoli.
“… Chariots of Silk…The seal of Seasons…Warlord of the royal crocodiles…”
Il ragazzo si era fermato a un passo da Dave e non sapeva perché e non sapeva chi fosse. Stava lì e lo fissava: era glamorous nel tenere quel long playing così glamorous e nel leggere quei titoli glamorous in quel negozio tanto glamorous e il suo respiro glamorous era vicino, più vicino, era un bacio glamorous. Eric li guardava da lontano e un sorriso legò i suoi basettoni nostalgici.
Dave si avvicinò a Mr Williams, con Bolan tra le mani e quel ragazzo sempre a un passo. Se ne era accorto. Non si era voltato
“Dave, girano strane voci su di te…” gli fece Eric contando i soldi.
“Del tipo?” chiese lui, senza distogliere lo sguardo dalle mani testardamente hippie di Eric.
“Mah, di tutto… La gente ama parlare di te… Molti che vengono al negozio mi chiedono… Non hanno le idee chiare… Si aspettano che sappia io qualcosa…”
“E tu?” chiese, senza distogliere lo sguardo dall’autografo di Ritchie Blackmore appeso al muro.
“Io cosa? Io ne so ancor meno… In fondo non so proprio nulla di te, di voi… Ma a me sta bene così… A me state bene così… Ma per la gente tu sembri essere diventato un gioco, un parco divertimenti per la fantasia che altrimenti lascerebbero tranquilla a riposare in qualche angolo dei loro miseri cervelli…”
Dave lo ascoltava in silenzio, senza distogliere lo sguardo da una stampa che raffigurava la Londra di un secolo prima. Normalmente andava sopportando una vita anonima, schivando le cose senza nome e le notti di segatura sparsa ad asciugare il piscio e la sete. E per fare altro di quel silenzio si voltò verso quel ragazzo che fece un passo indietro. Gli sorrise, poi continuando a guardarlo disse all’altro: “Come fa il cielo a stare con noi? Ti sembra che questo mondo si meriti il cielo che ha? Se ti chiederanno ancora chi o cosa io sia, rispondi loro così: Dave è una nuvola; ogni attimo diverso, ogni momento inspiegabile, ogni giorno nuovo… Digli che sono uno innamorato della vita, della bellezza della vita, in ogni sua manifestazione. Non faccio distinzione tra i sessi: ho il doppio delle tue possibilità, tesoro” e soffiò dalle mani un bacio verso Eric.
Mr Williams ristette poi guardò quel ragazzo silenzioso che aveva negli occhi tutto e aveva Dave negli occhi e stupore e già voglia e ancora silenzio. Dave sorrise e prese l’uscita.
Dalla porta ebbe un bacio volante anche per il giovane sconosciuto che non riusciva a muoversi né a seguirlo. Poi quella pelliccia sparì oltre la vetrina.
Dave si innamorava in continuazione. Altre volte voleva possedere. Non faceva mai l’errore di confondere le due cose.
Ci sono momenti in cui uno si trova a dover scegliere
fra il vivere la propria vita piena, intera, completa,
o trascinare una falsa, vergognosa, degradante esistenza
quale il mondo, nella sua grande ipocrisia, gli domanda.
(O. Wilde)
Ronnie era il leader dei Play on words una piccola band che cominciava ad avere un seguito nei circuiti underground della capitale.
Lui e Dave si erano conosciuti ai tempi dell’Empireal College.
Il giovane vocalist aveva comprato la sua prima chitarra folgorato da Hendrix e più tardi dai King Crimson di Robert Fripp. Li aveva visti suonare dal vivo nell’estate di due anni prima di spalla ai Rolling Stones nel loro concerto all’Hyde Park.
Da due settimane Ronnie era andato a vivere con Gloria in una casa su Oxford street. L’aveva conosciuta in un locale un mese prima. Ronnie veniva da una famiglia della jet-society. Nella sua nuova abitazione Cartier e porcellane, quasi il naturale continuarsi di quella fuga e quegli spasmi di rock che erano la sua provocazione infinita. Contro tutto, contro il destino che gli aveva riservato alla nascita una fortuna che lui non aveva mai accettato. Contro sé e il suo nome che aveva trasformato in un altro. Sembrava condividere con Dave la stessa evoluzione, la stessa velocità. Mostrava all’amico dei libri comprati da poco e spiegava: “Le filosofie orientali stanno mettendo in dubbio tutto ciò che l’occidente crede di aver costruito. La musica pop deve cominciare ad aprirsi a nuovi contributi”.
Dave rispondeva come avrebbe fatto una sibilla, sembrava parlare d’altro.
“Bisogna essere pinacoteche ambulanti: colori, cornici, odore di olio, pennellate, soldi”
Evadevano dai discorsi troppo reali con un salto cinico di sorrisi.
Ronnie il lord sedeva come un gatto persiano. Dave era un rottame della strada. Entrambi stavano di fronte a un continuo specchiarsi.
Era la loro natura: lo guardava e Ronnie si sentiva già scopare. Gloria stava lasciva, seduta in terra tra una poltrona e il linoleum. Morbida, leggera. Seguiva con lo sguardo azzurro ogni gesto che Dave calcolava ed eseguiva. Leggero, morbido. Le rispondeva con virgole di occhi che lanciavano baci capaci di far vibrare chiunque, uomo o donna o altro che fosse. Guardava come per scrivere frasi o dirle in un altro tono di voce. Ronnie cavalcava le occhiate di Dave fino alle labbra rossettate di Gloria. Lei muoveva la sua attenzione dall’una all’altra orchidea. Li vedeva gareggiare in profumo e splendore. Come Botticelli e Michelangelo nella National Gallery, come due flauti traversi nella Royal Albert Hall. Si aprivano a un gioco di sensi, al di là dei discorsi, perché a volte tocca anche ai sensi dire. Coglievano o non coglievano tutti i verbi del corpo, pronti a dimenticare la fisica, a tenersi la fisicità. Era un gioco capriccioso di brividi allusi, gesti vibranti.
Era entrare nella psicologia dei desideri disordinati e desiderarsi, desiderare l’uno, lei, l’altro. Desiderarsi, sospirarsi, cercarsi, volersi, lottarsi, ferirsi, sfiorarsi, prendersi, desiderarsi. Lei, lui, l’altro. Sulla stessa sedia, sullo stesso letto, nella stessa auto, per terra, per strada. Per lo stesso unico e devastante desiderio. Desiderio. Le mani sul petto, le mani sul sesso, la bocca sul sesso, la bocca sulla bocca, la bocca sul seno, il seno sulla faccia, la faccia fra le gambe, le gambe intorno alla schiena, le unghie sulla schiena, le mani tra i capelli, i capelli sulle labbra, le labbra sulle piccole labbra, le piccole labbra sull’anima. Dell’altro, di lui, di lei. In ciò che non era, in ciò che poteva essere…
Quasi sfiniti, quasi sudati. Non si erano mossi di niente. Parlavano ancora.
“Le overdosi di coraggio sono prerogativa degli eroi, ma nessun comune mortale dovrebbe rinunciare a una dose appena sufficiente a passare un altro giorno”
Gloria si alzò. Andò a far danzare la punta delle sue dita tra vinile e cartone. Scelse e mise su un disco di Emerson, Lake & Palmer.
Iniziò a muoversi. Aveva un modo eccitante di farlo, di fare qualsiasi cosa; aveva un corpo minuto, il seno accennato, le gambe sottili. I lineamenti fini del volto la rendevano oltremodo desiderabile; ma era un desiderio più sottile di un soffio erotico, più invadente di un istinto sessuale. Era eccitante, come il fiore di un giorno solo, mentre ballava e Ronnie rideva, mentre Dave la guardava ballare, mentre lei muoveva la musica…
Il campanello della porta li svegliò come da un sogno. Sulle facce dei tre nessuno nascose il disappunto. Gloria andò ad aprire, camminando quasi senza muovere le gambe, come su un tapis roulant. Era Brian. Salutò, lanciò sul tavolino una copia del Sun e andò dritto a versarsi da bere. Cercò di intuire l’atmosfera e i discorsi. Cominciò a rovesciare notizie trovate per strada o nei pub. Dave prese il giornale, cominciò a sfogliarlo. Poi, infilandosi in un momento in cui gli altri tacevano, lesse ad alta voce.
“Barry Cronauer, già in servizio presso l’ambasciata inglese in Svezia, è stato sorpreso dalla moglie mentre, con addosso abiti femminili, si lasciava andare in atteggiamenti inequivocabili con un ragazzo di diciassette anni…” poi li guardò e quelli non capivano.
Prese a dire:
“Lo scandalo di una notizia come questa sta in ciò che non è detto, in tutti i nomi che non vengono fatti. Quanti Barry Cronauer ci sono oggi in Inghilterra? Io dico che ce ne sono molti e ce ne saranno sempre di più, tanti come Cronauer, ognuno con due facce, come le due facce di Cronauer… E’ il segno di un cambiamento inarrestabile… Bisogna cantare questo cambiamento e dipingerlo e narrarlo e danzarlo, vestirlo…”
“Le due facce di Cronauer…” Brian ad alta voce “Suona bene…Suona bene, no?”
Gloria fece sorridere gli occhi poi gli chiese:
“Hai portato con te solo il giornale?”
“Ho una fornitura speciale, mia regina”
“Sei uno schifoso drogato” gli sorrise Ronnie, tra l’eroina e l’ironia.
Ma Brian era immune dall’una quanto immerso nell’altra.
“Quando si cade si hanno due modi di guardare la faccenda: o si pensa di precipitare o si pensa di volare. E io dico di volare”
Tutte le persone affascinanti sono viziate.
Ecco il segreto del loro fascino.
(O. Wilde)
A tarda notte Dave e Ronnie sedevano al tavolo equivoco dello Xenon, alienati da tutto, dal giorno finito, dal giorno che non li riguardava.
Provocavano con la sola presenza. Attorno, travestitismo e trans e tacchi a spillo. A Londra si trovava tutto, da qualsiasi parte del mondo provenisse. Conoscevano bene la fiera delle depravazioni londinesi, dei night club a Piccadilly, delle feste perverse con ragazze e ragazzi e tutto quello che c’era nel mezzo. C’era una sorta di autocompiacimento nel loro modo di stare assieme e farsi compagnia. Dave vedeva Ronnie, più o meno, così: come se il treno del successo fosse partito mentre lui lavorava ancora alla strada ferrata. Doveva essere abile e veloce. Delle due l’una: o sarebbe stato in grado di allineare rotaie e traverse più in fretta della locomotiva o ne sarebbe stato travolto! L’uno e l’altro erano un’orgia di colori, l’uno edonista, esteta l’altro. Sembravano sbriciolarsi al tavolo equivoco dello Xenon e mischiare i pezzi, sciogliersi nell’alcool e poi nel fumo leggero.
Ridevano, indicavano, si baciavano, una mano sul sedere della cameriera, l’altra sulla patta del barman. Credevano nella libertà totale. Erano certi che il maschilismo, lo sfoggio di virilità non avesse mai liberato nessun uomo ma che ne avesse invece mostrato i complessi, rese goffe le incertezze, lo avesse obbligato ad attenersi sempre a quegli atteggiamenti, a preservare quell’immagine, ne avesse decretato infine la solitudine.
“Sono queste le due facce di Cronauer di cui parlavi oggi?”
“Sono le nostre Ronnie. Siamo noi quelli che stai vedendo. E poi non lo siamo neanche e non sono nemmeno loro stessi. Il sipario si apre, il sipario si chiude. Nella totale indifferenza” nella completa assenza di fischi e di applausi.
Ronnie fece un lungo sorso. Guardava intorno i tanti Cronauer, poi disse:
“Conosci Steve Burton? E’ un produttore. Ci ha visti dal vivo. Ci ha fatto una proposta interessante. Vuole scommettere su questo… Decadentismo, lo ha chiamato…Vuole che registriamo per lui… Ha delle buone idee”
“Sei pronto a diventare un oggetto, a essere considerato merce da vendere?”
“Lo sono da sempre” con un sorriso di sfida.
Dave gli mise una mano al collo e quasi stringeva.
Lo guardò negli occhi con rabbia.
“Ma non sarai più tu a venderti, a decidere il prezzo”.
Lasciò la presa. Cambiò gesti e pensieri. Voleva pensare ad altro, tornò a guardare intorno i tanti Cronauer. Fece un lungo sorso.
Dave combatteva la normalità da anormale, l’ignoranza da pazzo, il perbenismo da ambiguo, l’inquietudine da ossesso. Non si rassegnava ad essere una storia soltanto, la stessa storia per tutta una vita.
Trasformarsi continuamente nell’idea che si potrebbe essere e nel mutare delle idee trasformarsi ancora. Era nato, contro volontà. Il modo di usare la vita era il suo riscatto, la sua vendetta. Accarezzava ogni corpo ma come se la pelle non importasse e la religione dei peli avesse nel profano e nella bestemmia i propri comandamenti.
“Sincero e falso… Cos’è ciò che vedi? Identità? Essenza? Apparenza? Vedi solo ciò che è bello, mio caro…”
Il mondo era multiforme, l’Universo lo è sempre stato, l’uomo è multiforme. Quello che gli altri avrebbero pensato potevano cominciare a deciderlo da loro.
“Sai qual è il potere più grande? Non quello del denaro, né quello politico e neanche quello delle religioni. Il potere più grande è il potere delle risposte: chi ha le risposte ai miei dubbi più angoscianti mi tiene nel palmo della sua mano e fa di me ciò che vuole. Insinuare dubbi atroci, poi dimostrare di essere l’unico ad avere le risposte. Ecco il potere. Ecco il mio Halloween. Ecco il caos”.
Ronnie lo guardava e lo ascoltava direttamente con le orecchie dell’anima; beveva al suo bicchiere e alla sua vita.
“La mia forma è forma. Io sono puro stile”.
Sedevano a un tavolo equivoco dello Xenon, alienati da tutto, dal giorno finito, dal giorno che non li riguardava.
Il passato non importa. Il presente non importa.
E’ l’avvenire che ci riguarda.
Il passato è ciò che gli uomini avrebbero
dovuto non essere.
Il presente è quello che gli uomini
non dovrebbero essere.
L’avvenire sarà ciò che gli artisti sono.
(O. Wilde)
A un anno da quella notte una folla incredibile di ragazzi in velluto e smalto nero e su zeppe altissime, faceva mostra di sé e vociava forte ai cancelli del Marquee. Aspettavano sempre meno pazienti di entrare per assistere al concerto dei Cronauer’s Two Sides. Dopo un lancio in sordina, An Acid Rainy Day, il loro album d’esordio, con una spaventosa impennata aveva conquistato acidamente la top ten inglese. Giornali e TV preferivano occuparsi d’altro mentre Ronnie J. Clever, classe 1948, un miscuglio imprecisato di possibili evoluzioni del genere umano, passava di parole in vocalizzo, ansimando o strisciando la sua voce androgina sul vinile. Ed ora portava la sua voce e i suoi lustrini e le paillettes sui palchi del Cronauer’s Acid Tour.
All’apertura dei cancelli onde di seta plissettata e make-up invadevano ogni spazio disponibile e gridavano il nome del loro idolo come in un rito pagano. Con la musica era cambiato il guardaroba e quei maschi rubavano volentieri alle sorelle.
Neanche dopo tanto, tra luci e decibel e fate largo, Simon Foggy iniziò a picchiare sulla batteria e Brian Bloch al basso come un mago, Elias Hundee con la sua chitarra come in un grandguignol e infine il messia, ambiguo ed aggressivo. Arrivò sull’orlo del palco. Cantando.
“Sono un poeta del corpo / vieni al mio spettacolo / metto in scena la poesia violenta / ti offro un verso / solo un verso / infinito / avanti e indietro / e ti sono già dietro / e dentro se vuoi…”
Il suo look oltraggiava la moda dei gruppi rock, scatenava fenomeni di isteria collettiva in quel mare di facce dall’estetica preconfezionata, già calcolata nello show-business del tutto. La musica riempiva ogni cosa ed era la musica dei reietti, agitata nell’aria come un fucile. Ma la rivoluzione di quei suoni e versi e immagini era sessuale; aveva in sé i germi della ribellione che sarebbe seguita di lì a qualche anno, anzi, il punk sarebbe stato semplicemente più esplicito, più ingenuamente diretto ma, probabilmente, non altrettanto efficace.
Tutto sembrava possibile, persino che si stesse celebrando l’unica idea di futuro possibile. I pavoni del rock sapevano bene cosa fare e mostravano lingue e amplessi polistrumentali. Prendevano tutto quello che c’era da prendere, senza chiedere.
In fondo al Marquee, nel punto più lontano dal palco, Dave dava quasi le spalle a tutto. La testa china e viola e oro sugli occhi chiusi, lui vedeva tutto dentro di sé. Su quel palco avrebbe potuto starci lui.
Ma per Dave la musica, le canzoni stesse erano superflue. Era una popstar e lo era, semplicemente, senza fare. Pensava panta rei, forse, o solo per lungimiranza sapeva che non sarebbe durata; aveva lanciato la coscienza oltre il tempo. Quell’ubriacatura di libertà non poteva autocontrollarsi ed erano pochi, troppo pochi i non-costruiti. Pure Ronnie lo era; e lo aveva costruito lui…
Dave era una coppa di champagne. Cominciò a farsi largo tra i tizi decadenti del Marquee usando come un archetto di violino nella folla la sua pelliccia. Andava verso l’uscita con quell’aria da puttana costosissima, lo sguardo mascarato, tagliato da una ciocca androgina dei suoi capelli a caschetto. Camminava ancheggiando la bellezza dei suoi ventiquattro anni. Poi si fermò, prima di uscire; si voltò verso l’urlo nichilista di Ronnie, verso il suo apparire eretico, il suo affittarsi erotico. Lo guardò con le labbra in un quasi sorriso e quasi in un bacio d’addio.
“E’ splendida” disse mentre nessuno badava a lui “E, quel che è peggio… Sa di esserlo”
Sparì, senza aspettare la fine del concerto, la fine di qualcosa, la fine di quella notte, di quella stagione…
Faceva freddo in quella notte del 1972. E Londra era la solita Londra notturna, quando tutto diventa scuro, anche il Tamigi, anche la cupola della cattedrale di St. Paul. La città tutta era appena più euforica, più sculettante, ma in fondo sarebbe rimasta sempre Londra…
Ogni arte è immorale.
(O.Wilde)