I racconti del Premio letterario Energheia

Il ritorno_Giuseppe Romeo, Reggio Calabria

_Racconto finalista seconda edizione Premio Energheia 1995.

 

A mio padre, Fortunato Romeo

 

“(…) Le parole vogliono sempre dire qualche cosa. (…) Puoi raccontarle come la voce. E la voce di chi scrive E lo stile, le parole che sceglie.”

Cesare Pavese

 

Sembra passato solamente un giorno. Nel senso che mi accorgo che qui non è cambiato nulla. Tutto è esattamente com’era, a parte le frane e qualche bosco bruciato dai soliti piromani. Ma le resine hanno sempre il medesimo profumo, i fiori, gli stessi colori e la gente, il solito, tranquillo passo. Anche il cielo è di un azzurro intenso, vivo, pulito, terso. E non l’avevo, in verità, mai dimenticato. Come la luce del crepuscolo che sto vivendo, che mi riporta indietro nel tempo, quando, trentadue primavere or sono, fui partorito proprio qui, in questi luoghi onusti di memoria e di storia che quattordici anni fa lasciai per inseguire un sogno lucente, dal nome Anna.

Scoprii questa Montagna che ero ancora un bambino che pensava solo a giocare. Mi divertivo correndo tra i suoi verdissimi prati e salendo sui suoi alberi. Tiravo la coda al fedele Black, il mio cane, che mi accompagnava in tutte le mie scorribande. Poi, a sera, facevo ritorno alla casa della nonna, proprio in mezzo agli ulivi argentei. Bella la mia Montagna… quì la gente, dai visi adusti, arsi dal sole, non ti rifiuta mai un saluto. Mi dicevano calimera e calispera, secondo l’antica lingua che, ormai, è patrimonio solo dei più anziani, depositari delle antiche costumanze locali e padroni di questo territorio, vero e proprio paradiso terrestre. Capita di vederli seduti alla fontana con, in mano, vecchi bastoni nodosi che loro stessi hanno modellato, intenti a fumare, giocare a carte o, più semplicemente, usi a godere quell’aria fina e pulita mentre guardano qualche sveglia ragazzetta che si appressa al lavatoio con in testa una cesta di panni… E’ certamente bella questa Montagna. Ma anche aspra e selvaggia. A tutt’oggi, nelle case, poche sono le televisioni ma molti i caminetti. E’ attorno ad essi che le famiglie amano ancora raccogliersi; specie d’inverno , quando l’aria E più fredda o, a sera, anche d’estate. E sono i camini e non le antenne – questa sorta di moderni ed immancabili totem – che adornano i tetti di tegole delle case. Vederli dall’alto di una rupe, quei tetti così uguali ma così unici, è un vero spettacolo.

Qui tutti conoscono tutti. Tutti vivono ancora in clan, grossi nuclei familiari di venti, anche trenta persone. Ma la famiglia è vera, ancora integra e salda, al riparo da certi attuali mali e dolori. Quì, infatti, fanno vita a parte, una vita isolata, solo i pastori. È per necessità, per mestiere, non per scelta. Durante il tempo della transumanza, infatti, mancano dalle rispettive case anche per molte settimane. Soli nella Montagna… È dura la vita dei pastori, densa di avversità. Vincono la solitudine, che immancabilmente li assale, accendendo le loro rustiche pipe di legno d’ulivo stagionato, fumando tabacco di infima qualità, dal puzzo insopportabile. Poi, a sera, si accomodano alla meno peggio un giaciglio che li accolga per la notte. E attendono, pazienti e vigili, l’alba del nuovo giorno che li coglierà da lì a poco.

Ricordo che, ancora ragazzino, di poco più di dieci anni, mio padre acconsentì affinché potessi recarmi al pascolo con compare Matteo che, per l’appunto, sarebbe dovuto rimanere qualche giorno con le pecore. Stetti con lui due giorni e due notti, chè Papà mio stava tranquillo e si fidava di Matteo. Lo conosceva sin da piccolo e lo rispettava perchè da lui era rispettato. Da queste parti, d’altronde, si dice che il rispetto è misurato: se lo porti, ti viene portato. E hanno ragione, devo dire.

Me lo ricordo ancora, il compare Matteo, sebbene siano passati trent’anni. Portava quella sua coppola di lana tanto d’inverno quanto d’estate; sempre la stessa, messa storta. Era un vero uomo di rispetto, il compare: ma agiva solo a fin di bene. Questo era quanto sapevo di lui, o credevo, a quel tempo. Mi ricordo ancora come era uso nutrire e custodire le sue greggi. Aveva una tecnica molto efficace: schierava i cani a protezione dei fianchi della mandria e lui, ad imo, cercava intanto il più sicuro guado tra le burrascose onde delle fiumare. Quelle stesse, impetuose fiumare che nel 1956 travolsero con le loro piene omicide e distruttrici, armenti, case e campi coltivati. Fu il deserto tutt’intorno: i cimiteri oggi ospitano i morti di allora, pianti dai superstiti che solo per avventura, o destino, sono rimasti tali. Che bella la mia Montagna, è vero… ma anche infida, specie se non la conosci bene. E per conoscerla devi camminare tanto.  È molto estesa, impervia e povera di agili vie di comunicazione. Qui ancora ci si sposta a piedi o a dorso di mulo, alla maniera di tanti viaggiatori che nel passato secolo s’avventurarono in questa terra di briganti e banditi, veramente molti in quei tempi. E ancora oggi, mi pare di vedere che i sentieri e le strade sono quelli di un tempo. Solo di recente la forestale ne ha tracciato qualcuna nuova. Infatti, parte di questa Montagna, la mia Montagna, è stata destinata a Parco Nazionale. Sostengono che può essere un volano per l’economia di queste zone depresse… io mi auguro che la gente, compresi i tanti cacciatori sparsi per queste lande, capisca quest’idea del Parco. E non la rifiuti. E che porti, almeno, un poi di benessere per queste genti povere, spesso addirittura misere…

Tutto fu loro tolto da alluvioni e terremoti, terribili e sconvolgenti da queste parti, come quello del 1908. Poi lo Stato, e la solidarietà di altri popoli, ha ricostruito. Ha edificato, sì, nuovi nuclei abitativi, ma sulla costa, cosicchè tu che hai vissuto per tutta la vita – come prima tuo nonno e poi tuo padre – al riparo dei monti, improvvisamente ti ritrovi buttato a mare. Molti, prima d’allora, il mare non l’avevano mai visto. Tu, Stato, li hai strappati al loro mondo, lento e tranquillo, e li hai resi abitanti di un luogo ad essi sconosciuto e poco affine. Le loro anime, le loro menti ed i loro cuori, infatti, si chiedono dove siano le stalle con gli armenti, dove gli alberi di castagne, pere o noci, dove il falco con il suo roteare, dove i tanti profumati funghi che potevano raccogliere da veri padroni della Montagna… Quella Montagna che solo chi è così cieco da non capire nulla dell’animo umano può costringere, quasi, ad essere abbandonata per scelta obbligata e che tutti han dovuto lasciare, svuotandola di voci e di vita. Che desertificazione indotta!

Non si avvertì nemmeno la necessità di restituire quelle anime al loro mondo e favorire, con atti concreti, il ritorno ai vecchi borghi e paesi distrutti. Fa anche questo lo Stato, qui…

Quando vedo un camino fumare, oggi, magari dopo ore ed ore di peregrinazioni nel deserto più desertificato, mi rallegro e penso che qualcuno, a costo di sacrifici fatti di sudore e sangue, ha voluto rimanere lì dove fu partorito. Ha preferito, cioé, ricostruire, magari a caro prezzo, restituendo alla casa degli avi l’antico splendore che la furia degli elementi aveva violato. Taluno ha pure risistemato al posto antico le pietre ed i mattoni che, dopo il disastro, con pazienza aveva accumulato, come dire che presto o tardi sarebbero stati utilizzati; come dire a Madre Natura che quelle macerie sarebbero state restituite alle antiche forme, chè se si vuole si può risorgere! Con la fatica, il duro lavoro e lo squadro dei maestri muratori. Qualcuno, poi, come se rifiutasse, se si ostinasse a rifiutare gli agi dei tempi moderni non ha voluto, in casa, né la corrente elettrica nè l’acqua potabile: E allora che ti accorgi che, qui, il tempo si è fermato.

Perciò pare che solamente un giorno sia passato, mentre sono quattordici lunghi anni che mancavo da queste lontane e desolate lande. Per meglio dire, anche altri han reso lontane e desolate…

Un nodo mi stringe la gola e mi assale uno strano malessere, chè, se le racconti ad altri queste cose non ti credono, dicono che fai letteratura. Ma noi che qui siamo nati, sappiamo che è la dura e cruda realtà. Non hanno modo, infatti, i nostri telegiornali o giornali-radio, di occuparsi di queste che potrei chiamare cronache dall’oltretomba; chè proprio da lì sembrano uscire e prendere forma certi figuri e certe atmosfere. A credere non si sbaglia mai. E per credere non c’è assoluto bisogno di vedere, allo stesso modo come si fa per Dio o la sua Idea. Che poi devi credere alla Storia, fatta di anni ed anni di sfruttamento di queste povere genti, da sempre contadini, pastori o miseri artigiani. Poi diventati servi della gleba sotto i principi, vassalli e feudatari. Il latifondo: soltanto pochi, e nel corso di secoli, si sono riscattati da una storia di stenti ed umiliazioni. Sembrava un miraggio, la riforma agraria. Poi venne, ma quasi per un destino insieme beffardo ed amaro, la terra cominciò ad essere abbandonata. Dove si faceva grano, orzo, avena e fiorivano i gelsomini, da quella Madre Terra che li aveva sfamati ed occupati, quasi per nemesi, ora scappavano.

E cominciarono così, pian piano, a morire tutti i mestieri legati alla terra, all’agricoltura ed alla pastorizia. Siamo diventati tutti impiegati del catasto, uscieri, portinai e autisti. Dove sono i maniscalchi, i ferraiuoli, gli stagnari, i pastori e gli innestatori? Qui – e nella migliore delle ipotesi – a volte una famiglia va avanti con un solo stipendio. Sono molte le bocche da sfamare. E si tira avanti, i figli nascono e crescono per diventare, loro malgrado, dei disoccupati. O sequestratori. Chè bella la mia Montagna, E vero, ma vi è anche tanta gente malvagia e triste.

 

Cambia il mondo; esattamente come cambia il cuore degli uomini. Dicono da queste parti che, se non hai fantasia di lavorare, finisci male, prima o poi. E non hanno torto. Ogni tanto, poi, accade che qualcuno (ricco o semplicemente benestante, poco importa) scompaia, inghiottito dalle viscere della Montagna, sepolto vivo in qualche grotta o anfratto, quasi fosse inghiottito dal nulla. Quel nulla che si materializza in volti occultati da passamontagna e mani che recano funi e pistole… Accade, poi, sempre – o quasi sempre – che carabinieri e polizia si scatenino per salvare il malcapitato di turno. E allora si scatena la caccia: posti di blocco sulle strade, elicotteri in cielo che svolazzano come fossero libellule giganti ed impazzite. Ed i blitz. I continui blitz notturni. Ti entrano in casa. E non bussano: ti buttano giù dal letto, dopo averti sfondato la porta di casa. Sfasciano ovili e cascinali, stalle ed orti. Li vedi mascherati, a volte con strane pitture sulla faccia: E la guerra dello Stato (lo stesso che ti ha costruito i paesi sulla costa) contro l’antistato, come dicono loro. Di questa guerra contiamo solo i morti. Che non finiscono. Gli ultimi sono due giovani carabinieri, trucidati sull’autostrada in un vile attentato a colpi di mitraglietta. Alla memoria l’Arma ha conferito loro due medaglie; alle vedove, la pensione ed un assegno…

Don Pasquale, che ho incontrato appena entrato in paese, vecchio parroco da sempre di quel borgo, mi raccontava di un giovane, un bravo giovane, tale Stefano, che s’era, suo malgrado, cacciato nei guai. Questo Stefano, che all’epoca dei fatti aveva appena tredici anni, stava di guardia nei pressi dell’ovile del padre. Notte e giorno lo potevi trovare lì o nelle immediate vicinanze. Lui guardava le pecore e le capre del padre, mentre, di solito a quell’età si va a scuola. Stefano non ci andava, perché doveva guardare ed accudire il bestiame…

Accadde che una notte, fredda e buia più del solito, Stefano, uscito per la consueta ronda attorno all’ovile, t’incontra un uomo. Era ferito e sanguinava. Stefano ebbe un sussulto: l’uomo imbracciava un fucile; il ragazzo, dominandosi, riuscì a restare, almeno in apparenza, alquanto calmo. Allora l’uomo, con la mano destra, alzò la lupara e domandò a Stefano chi mai fosse. Sicuro rispose che lui era Stefano, figlio del Massaro Luca, il figlio piccolo.

“Ah, ecco perché non ti conosco”, disse l’uomo. Allora, stanco, abbassò l’arma e si sedette, appressandosi al fuoco, quasi spento peraltro. Rivolgendosi al ragazzo disse: “Stefanino, prendi un po’ di legna e mettila sul fuoco. Non vedi che è quasi morto, come te che stai morendo dalla paura, eh Stefano? … E’ vero, no, che stai morendo dalla paura?… Ma ora non devi averne più, chè tuo padre è un amico! Se hai un poco di ricotta prendine, per favore, che la mangerò col poco pane che è rimasto. Poi, stai tranquillo, me ne andrò. E mi ricorderò che Stefano, figlio di Luchino Manolesta, mi ha curato quando ero ferito, mi ha dato da bere quando ero assetato e mi ha dato la ricotta quando avevo fame. Ora vai e non ti spaventare, Chè ormai sei un uomo fatto. Vai!”. E posò, scaricandola, la doppietta mozzata accanto a sè.

Stefano, in verità, moriva dalla paura. Gli veniva da pisciare. Sapeva, però, che doveva resistere, tanto alla paura quanto al bisogno. Andò, allora, nella casetta e fece esattamente quello che l’uomo, venuto dal buio e figlio del silenzio, gli aveva chiesto di fare. Dopodichè, senza dire una parola, s’accomodò sul suo giaciglio. Stefano fece tutto questo senza mai sollevare gli occhi da terra, per non guardare in faccia l’ospite inatteso. L’altro rimase vicino al fuoco, tirò fuori dallo zaino una vecchia coperta e se l’accomodò sulle spalle.

Era inutile, Stefano non riusciva a prendere sonno. Si girava continuamente in quel pagliericcio. Era in pensiero. Temeva per la sua vita e per le pecore. E se fosse stato un ladro? O, magari, peggio…? Preso da questi turbamenti, decise di alzarsi. Andò a vedere. S’avvicinò al fuoco e… l’uomo non c’era. Non c’era più, se n’era andato! E non lo aveva nemmeno salutato…

Il mattino dopo Stefano ricevette un’altra visita inattesa. Era il padre, Luchino Manolesta. Il Massaro, vedute delle bende insanguinate, s’allarmò, credendo il figlio ferito. Ma non ebbe il tempo di preoccuparsi che lo vide poco più in basso, intento con una piccola verghetta di mandorlo a governare la mandria. Ma, avvicinandosi, lo notò scuro in volto.

“Cos’hai, Stefanino? Cosa ti è successo? Di chi sono quelle bende vicino al fuoco?”

Allora Stefano parlò e raccontò al suo genitore – a quel padre che a tredici anni lo aveva messo di notte a guardia delle pecore e delle capre, solo e lontano da casa, in un posto ad almeno quattro ore di cammino dalla più vicina casa del paese – raccontò, dicevo, tutto quello che gli era accaduto. Ecco che il Massaro diventò di mille colori e cominciò a rimproverare il figlio. Si agitò, si alzò, prese il bastone e menò. Menò due pesanti randellate sulla schiena di Stefano.

“Dovevi scappare, che dovevi, fesso di un caprone di figlio”, gli disse. E poi: “Non dovevi farti trovare. Che ne sai, se ti voleva ammazzare?” e giù un’altra randellata. Ancora: “Che ne sai, se era un latitante? Lo sai che ti può succedere se era un latitante? Lo sai cosa succede a chi dà rifugio ai latitanti? Te lo dico io, bestia di un figlio ed io che ti ho fatto, cosa succede: si va in galera per favoreggiamento. Ed è meglio, perché se ti pigliano, bestia che sei, quelli dell’altra cosca non ti mettono i ferri ai polsi. Quelle cose le fanno gli sbirri. Quelli no!… Ti chiudono la bocca con duecento grammi di piombo, animale di una bestia. Lo capisci o no, che poi non c’è rimedio?” Lo picchiò forse per mezz’ora. Stefano sanguinava. Dalle spalle, dal naso e da ogni dove…

Li trovarono morti, padre e figlio, qualche tempo dopo. Li videro due tecnici dell’acquedotto in fondo ad una scarpata, nei pressi di un’ansa di quella fiumara in cui Stefano si divertiva a pescare le grosse trote salmonate, come prima di lui anche suo padre Luca aveva fatto. Li trovarono legati l’uno all’altro, attorniati da una grossa fune. Sgozzati come capretti.

La comare Lina, mi diceva ancora il rotondo “previttocciolo” di paese, teneva sconsolata due fotografie sul comò. In quei ritratti c’erano Luca, il marito, e Stefano, il figlio. Morto, quest’ultimo, per avere dato rifugio ed ostello all’uomo venuto dal buio e figlio del silenzio. Piangendo, la donna pensava che non sarebbe successo quello che invece era accaduto se solo Luca avesse sentito i desideri di Stefano. Chè il ragazzo voleva andare a scuola e magari lavorare, per mantenersi. Ma non voleva guardare e governare le pecore. Manco sue, ma di quel padre. Poi, mestamente, la vecchia donna s’asciugava le lacrime e, con l’afflizione di chi è tagliato dal dolore folle, s’avvicinava verso il fuoco, seduta sull’uscio di casa, con lo scialle riverso sulle spalle ed il rosario in mano. Questi gesti e questi pianti l’avrebbero accompagnata fino alla fine dei suoi giorni. Dall’alba al tramonto, ogni santo giorno, con quello sdrucito e nero vestito che non volle mai levarsi di dosso.

È bella, è vero, questa Montagna. Ma anche piena di avito dolore. Lo respiri nell’aria, lo vedi nei volti delle donne. Un dolore che si perde nella notte dei tempi, quando sbarcarono dal mare i primi coloni greci; e poi gli albanesi e gli occitani. Quante culture, quante anime abitano questa Magna Grecia!

E più camminavo, più pensavo. Pensavo, in particolare, che aveva ragione il mio vecchio professore di latino. Sosteneva che molto spesso solo camminando si chiariscono le idee. Perciò oggi, che per hobby faccio trekking, dico ai miei amici che il sentiero è, in realtà, un percorso dell’anima. Per strada, infatti, l’anima si espande e raggiunge ampiezze impensabili. Ti accade di dare spazio a certi pensieri ed ingresso a certe sensazioni che solo qui, in mezzo a faggi, abeti e larici, hai e possiedi. Tutto questo perché te li suggerisce l’ambiente in cui cammini. A piedi o a dorso di mulo. Tutti questi piccoli miracoli del creato ti parlano: basta saperli ascoltare e vedere, nel volo radente del martin pescatore o in quello stridulo della cornacchia, il tuo essere uomo. Creato nel creato e parte attiva, pensante, di questa creazione che è il mondo. Allora sgombri la mente da quelle nubi che la ottenebrano. Ti fermi, appoggi il bastone ad una roccia piena di scagliette di quarzite e pensi… e, se lo hai, tiri fuori un quaderno che ti aiuta a fermare nel tempo quei pensieri e quelle sensazioni.

Dai forma a quei colori che la mente percepisce attraverso i tuoi occhi. E ti capita di ringraziare per tutto questo. Ringraziare chi ti fa godere questo mondo che sta, spesso, a pochi chilometri da casa tua.  È come un riscoprire sentimenti che parevano scomparsi. E dare consistenza a certi aneliti che, credevi, non albergassero in te. Ed invece erano come sopiti. Come il fuoco che sempre cova sotto le ceneri: basta poco, un fiato di vento, a sollevare quella cenere. Ed è allora che le fiamme si liberano. Esattamente come le tue pulsioni.

Noi, noi tutti del villaggio globale, di questo mondo fatto di sondaggi e di media, stentiamo a riconoscere questi sapori e questi sentimenti della vita, che sono i più veri ed imperituri. Siamo impegnati, indaffarati a sapere cosa fanno il marco o il dollaro e ci dimentichiamo i colori, le luci ed i profumi di una vita che abbiamo conosciuto fino all’altro ieri, prima che fossimo inghiottiti dal cemento e dai gas di scarico. Solo se ne esci per un tempo apprezzabile te ne accorgi. E scegli di tornare là da dove eri partito. Ritornare a quei sapori, quegli odori, quei colori. Ritornando, poi, a scoprire te stesso, con le tue ansie e le tue poche certezze, con quel non so che di limitato che tanto ci dà fastidio, ma che è umano possedere. Scopriamo di avere perso la genuinità, la semplicità: tutte, cioé, quelle autentiche doti della personalità che, come la fede, ti sorreggono nei momenti di crisi, di ombra, di cambiamento.

Solo se fai appello a questo senso del ritorno, solo se fai appello a questo, torni ad essere te stesso. Noi del villaggio globale ci crediamo perfetti: ma a volte siamo dei perfetti imbecilli imbalsamati!

Tutto questo insieme di pensieri mi roteava nella testa, quando un mese fà mi capitò di fare ritorno alla terra che mi vide nascere. Pensare che qualche tempo prima era morta mia madre. Non volli tornare allora; lo feci un mese dopo, quando morì il nonno. Se fosse solo dipeso da me, chissà se mai sarei partito da Adelaide per ritornare quaggiù… Questa terra, questa landa del Sud Italia, mi ricordava tante, troppe cose. Insieme belle e brutte: nascite e morti, funerali e matrimoni, vittorie e sconfitte, amici e nemici. In una parola, diciotto anni di vita; esattamente fino alla fine del liceo, quando decisi di raggiungere in Australia, ad Adelaide, una giovane zia materna. Era una scelta di vita, tanto significativa per me. Ed ora mi accorgo di non avere avuto per quattordici anni mai il vero desiderio di ritornare. Non ho mai avuto voglia di rivedere i miei fratelli ed i miei terreni; né gli amici di un tempo. Ma ora è strano: ora che ho fatto ritorno, non vorrei più ripartire. E scopro di non essere immune da quella insidiosa malattia dell’animo umano che chiamano nostalgia… Che mai ho avuto fin quando sono rimasto nella terra dei canguri. Ma che ora mi attorciglia il cuore e che so, sì lo so, mi assalirà tra i grattacieli di laggiù…

Ah, se non fossi mai tornato!… Se fossero ancora vivi i miei genitori, non avrei certo mai preso quel Boeing. Ah, se non avessi rimesso piede in questo luogo!

Credevo potesse resistere ed esistere solo nell’immaginazione. Mentre ora so che è reale, questa Montagna, la mia Montagna dagli ulivi argentati, i terreni colmi di patate, i campi coltivati a grano, i suoi boschi di conifere delle resine dai mille profumi… Ti capita di vedere la ghiandaia, con le sue ali policrome, volare ad un palmo dal tuo naso; assiso sulla riva del ruscello vedi guizzare la trota. E sui prati dove ruzzolavi da bimbo, puoi fermarti a vedere crescere le margherite. Ed anche il tramestio di due scoiattoli giocherelloni, agili sul tronco del vecchio pino, ti pare musica… E poi da qui vedi due mari, lo Ionio ed il Tirreno, fondersi in uno; ti puoi sedere tranquillo all’ombra del grande abete ad aspettare, fino a che ti colga la Morte. E pensi che solo da lì non farai più ritorno. Solo lì sarà inghiottita la tua anima inquieta e non camminerai per quei sentieri che solo poche ore prima attraversavi e percorrevi. Non vedrai più l‘azzurro del cielo, non annuserai il forte odore dello stabio spandersi nel vento. E non vedrai più l’amico falco volare sopra di te. Perché il vento ti coglierà ai piedi di un verde, verdissimo abete, il grande abete della tua Montagna ai cui piedi sempre sostavi per riprendere fiato dopo l’erta assolata. Ed allora il grande sonno ti prenderà e non ti sveglierai e, sorridente, ti vedrai finalmente ritornato proprio lì da dove eri partito, soddisfatto.