I racconti del Premio letterario Energheia

Riflessi_Federico Bagni, Cucciago(CO)

_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia 1999.

Fa caldo. È la prima cosa che avverto smontando dalla macchina.

Nonostante abbia parcheggiato all’ombra. Un caldo appiccicoso, mi impregna la camicia e rallenta tutto quanto. Per questo giro i miei film in primavera, appena posso cerco di fuggire le temperature inarrivabili.

Scende dall’altra parte, quasi appoggiando lo sportello al resto della Ford senza veramente sbatterlo o chiuderlo, solo sfiorandolo con dita sottili. Fotogramma per fotogramma.

“E’ bello qui”, dice guardandosi intorno senza mai posare lo sguardo su qualcosa di definito, indugiando su particolari insignificanti, “c’è questo senso di antico, di storico…”

Inserisco l’antifurto. La guardo appena. Le indico la strada, su per una salitella incassata fra edifici vecchi di secoli. Cammina agile su scarpe dal tacco basso, giusto qualche passo davanti a me. Le guardo il sedere, le gambe magre, le caviglie scoperte. Devo essere pazzo. Mi lascio travolgere da sensazioni dimenticate, riscopro gli odori che un tempo mi portavano qui. La ragazza ha fretta di camminare, di raggiungere la piazza. A me non importa granché, non in questo momento.

Preferisco soffermarmi sulle persone, sulla gente che mi passa accanto parlando tutta lo stesso accento, inspirando profonda, volti allegri e rubicondi, colli taurini, camicioni fuori stagione. Ad ogni bivio segno il cammino, mi guarda come un guru irraggiungibile. Metà mattinata, con un cielo così le strade sono piene. Domani è domenica, c’è la fiera, i commercianti stanno smontando la mercanzia, preparano le bancarelle, sgombrano vicoli e accatastano cassette di legno bagnate – tre giorni di pioggia, aria profumata -. Qualche ragazzina mi riconosce, sussurra il mio nome alle amiche, si formano capannelli di adolescenti tutti, mano nella mano e sguardo aperto, comunicativo. Mi specchio in una vetrina lasciando proseguire da sola la ragazza, permettendole di pavoneggiarsi e di rifarsi il trucco. Porto occhiali da sole dalle lenti tonde e piccole, ambrati. Mi piacciono, fanno un bel riflesso. La camicia di seta è un’esagerazione, il suo umore cangiante si specchia nel mio in un rapporto reciproco.

“Walter?” mi chiama la ragazza, annoiata. Ha i capelli lunghi, troppo lunghi, le arrivano a metà schiena. Se li è tinti di biondo, da un paio di settimane. E ha queste labbra carnose. Ci hanno fotografati insieme, su una rivista, mano nella mano. Non so se l’ho fatto per divertimento o cosa. Mi piace nascondere ciò che penso, i miei sentimenti. Nessuno riesce mai a capirci niente, di me. Figuriamoci lei.

“Arrivo.” Mi muovo agile e snello con uno stile da sfilata. Un po’ è colpa di tutta questa calca, di questo ambiente, di una città che anni fa conoscevo come le mie tasche e adesso mi sembra solo ciò che deve essere, una buona location per le prime scene del film. Mi viene naturale, di muovermi come una rock star. E’ una difesa naturale a tutti quegli sguardi assetati, mi portano in alto, mi sento leggero, come una piuma. Sono Dio.

La piazza è piccola, a dispetto del nome. Cerco di non dare troppo spazio alle diapositive sbiadite, alle cartoline che ho chiuso, tutte insieme, da qualche parte, in un cassetto. Una gran confusione anche qui, le bancarelle non si contano, quasi non si riesce a camminare. C’è movimento ma, soprattutto, c’è attenzione. Quando metto piede lì, sopra tutti si fermano a guardarmi. La ragazza si frappone tra me e il mondo, vive di luce riflessa. Sorride ai primi scatti di fotografi, assume pose da diva. Mi sono stufato di questo circo, a volte mi vien voglia di abbandonare tutto, di andare a fare l’eremita in qualche posto sperduto.

Mi ispira il Perù. La Sierra Nevada, magari. Una bambina mi chiede l’autografo. Mi accovaccio alla sua altezza, mi tolgo gli occhialini e le chiedo come si chiama. Le faccio uno scarabocchio sul cartoncino. Illeggibile la dedica, illeggibile la firma ma, tant’è, è questo il bello degli autografi. La bambina si allontana con uno sguardo da domenica del villaggio. Inizio ad avvertire un senso di oppressione, di oscuramento.

Devo muovermi. Non ne ho voglia, ma so quello che c’è da fare. Me lo sono ripetuto cento volte, guidando in autostrada. Vai lì e la saluti. Punto. Non puoi continuare a ignorare il passato. Ci sono cose che non si perdono fra le pieghe del tempo, lo so benissimo. Se solo non ci fosse il mio orgoglio. Mi ha dato fama e ricchezza. Ma a volte mi rende irrimediabilmente stronzo.

“Walter?” Lo ha detto con la stessa voce di prima. Mi sembra perfetta per le riviste patinate. La odio e non posso farci niente.

“Ci sono tanti negozi, qui intorno. Quello, per esempio”, le indico un negozietto sul lato opposto a quello della fontana, giusto all’imboccatura della piazza, “Facci un salto e comprami qualcosa di tipico.

Uno sbalzato, una terracotta. Qualcosa.”

Mi guarda dubbiosa. “Tu non vieni?” Mette il broncio. Mette il broncio a me.

“Devo salutare un vecchio amico.” Le lenti mi velano lo sguardo, non c’è possibilità che si accorga di niente. Perché non c’è niente, alla fine. C’è solo questa, triste verità, che devo andare a salutare qualcosa di simile ad un vecchio amico.

“E quando ho comprato il souvenir?”

Non sono souvenir, penso. Sono opere d’artigianato, non souvenir.

Le guardo la scollatura del vestito, il seno rigoglioso. Devo essere pazzo.

“Poi ti siedi qui, sul bordo della fontana. Ti rilassi, prendi un po’ di sole, che sei bianca, come il latte.”

Le è sempre piaciuto abbronzarsi. Forse perché restare immobile con gli occhi socchiusi, è una delle poche cose che le riescono veramente bene. Mi allontano senza aspettare una sua risposta. Scendo lungo il corso, sento i piedi pesanti come ferri da stiro. Assumo una camminata irregolare, procedo a scatti. D’un tratto mi infastidisce questo essere sempre al centro dell’attenzione, vorrei starmene in pace con me stesso, vorrei poter guardare una persona senza dovermi sentire due spanne sopra agli altri. Abbasso il cappellino della Levi’s fino a coprire interamente la fronte. Mi calco gli occhiali sul viso. Sto sudando freddo. Rallento il passo, quasi ci siamo. Mi rendo conto che è una follia, ma devo sapere. Dopo tutto questo tempo… quando mai ci ritorno, da queste parti? Conto le porte che mancano. Un negozio, due. Tre. Poi ci sono davanti, e le gambe mi tremano, e non mi sento più Dio, né il grande regista che tutti dicono. Sono solo un uomo. Fosse soltanto per le scariche di adrenalina che mi attraversano il corpo, sono un uomo come gli altri. Il mondo mi scompare da dietro, persino i rumori, i suoni si dissolvono lentamente in un decrescendo morbido e spontaneo. Alle mie spalle, buio e silenzio, non colgo più neppure i riflessi dei flash nelle vetrine. Smuovo le Tod’s, entro nella penombra con ancora i brividi addosso. Non vedo niente, con gli occhiali. Li tolgo, una voce mi dice ciao ma non c’è nessuno. Abbasso lo sguardo, c’è un ragazzino sui dieci anni che sorride.

“Io ti ho visto alla televisione! Sei famoso?”

Riparto la mia attenzione in frazioni disuguali. Tutto me stesso va alla ricerca di dettagli da ricordare, di luci nella giusta angolazione, di personaggi che tornino a muoversi sul set recitando la stessa sceneggiatura, le stesse battute. Ma devo rispondere al ragazzo, non posso ignorarlo, far finta di niente. “Sì…” accenno, “a volte vado in tv.”

“Forte!” mi dice lui, e so che devo prenderlo come un complimento.

“Be’, grazie. Senti…” Mi fermo un istante, resto in silenzio nella speranza di cogliere un rumore, una parola, un risuonare di tacchi sul pavimento. Niente. Guardo meglio il ragazzino. E’ alto, per la sua età.

Ha degli splendidi capelli biondi, spessi e luminosi, del color del grano. Indossa una Lacoste verde. Ha uno sguardo sveglio. Mi sforzo di ritrovare il filo del discorso. “… non c’è nessuno qui?”

“Certo che c’è. Mia mamma, ma adesso è in bagno, se aspetti arriva subito.”

“Aspetto.”

Il ragazzo torna verso il fondo, lasciandomi solo. Non sembra minimamente interessato al mio personaggio. Non so se gioirne o rammaricarmi.

Respiro l’odore, quello me lo ricordo. E anche la disposizione degli oggetti. Non è cambiato molto. Penso a quanti anni sono passati…

Che cosa ho fatto in tutto questo tempo? Tre film e qualche miliardo, d’accordo, ma nient’altro. Niente di davvero importante. Nulla di memorabile. Sento il rumore dello sciacquone.

“Adesso arriva” mi rassicura il ragazzo.

“Grazie. Com’è che ti chiami?”

“Mattia.”

“Bel nome.” Anche il mio è un complimento, ma lui non se ne accorge.

Si mette a scartare un Kinder Sorpresa. Divide a metà il cioccolato, lo addenta senza offrirmelo.

“Tu la conosci, la mia mamma?” mi chiede con la bocca piena e le labbra sporche di Kinder.

“Sì, io… siamo amici.”

Non ci crede. Non riesco a darla a bere neppure ad un ragazzino di dieci anni. Mi rimprovera con lo sguardo e – quant’è vero Iddio – mi mette in soggezione. Abbasso gli occhi, arranco nel tentativo di giustificarmi.

“Cioè, lo siamo stati. Voglio dire, è da tanto che non ci vediamo.”

“Allora sarà felice di rivederti.”

“Già…”

Sento il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino. Quello della luce del bagno che si spegne. La maniglia si abbassa, la porta si apre, ne esce la punta di uno stivaletto. Vorrei fermare il tempo, indugiare su quel fotogramma. Vorrei che la storia finisse lì. Invece la pellicola continua a scorrere e lei esce completamente dallo stanzino del bagno. La guardo; credo di sentirmi male. Mi riprendo, appoggiandomi al muro.

Lei mi fissa con interesse, non mi riconosce subito. Per via dei capelli lunghi, forse. Per i vestiti eleganti. Poi, però, distendo la fronte nel sorriderle. Non può non riconoscermi, non se le sono di fronte e le sorrido come so fare solo con lei. Magari non è esattamente lo stesso sorriso di quattordici anni fa, forse è più timido ed impacciato adesso. Timoroso. Ma rende l’idea.

“Oh… pensa un po’…”, è tutto quello che riesce a dire. Sorride cauta. Ha un viso più maturo. Qualche ruga, un diverso modo di truccarsi, fattosi più sottile e leggero. Ha smesso di tingersi i capelli, ora del colore delle sopracciglia. E’ magra come allora, un filo di vento la porterebbe via.

“Ciao. Quanto tempo, eh?”

“Anni.” Mi si avvicina, la bacio sulle guance prima, sulla fronte poi. Mentre la bacio sulla fronte lei abbassa gli occhi, mi sembra di rivedere sul suo volto lo stesso ingenuo sguardo di sempre.

“Matti, per piacere, vai fuori a giocare con i tuoi amici.”

“Sì, mamma”, obbedisce il ragazzo. Fa per uscire, ci ripensa e torna indietro. “Ehi, tu sei quello che fa i film che vanno tutti a vedere!”

“Indovinato…” Mi mette in imbarazzo questa improvvisa ondata di notorietà, di fronte a lei.

“Forte. Me lo fai un autografo, dopo?”

“Come no, certo che te lo fa” gli risponde lei, abbracciandolo. Esce tutto contento.

C’è una sottile incomprensione nell’aria, residuo ultimo della Grande Incomprensione, quella che ci aveva portati così lontani. Basta un niente perché anche quella traccia di rancore scompaia, un sorriso o poco più.

“Ti trovo bene.” Le dico, e so di essere sincero.

“Grazie, ma è meglio che stai zitto. Voglio dire… il grande Walter Luna! Il miglior regista degli ultimi dieci anni… sei un mito, ormai.

Anzi, mi stupisce che nessuno ti abbia seguito fin qua dentro per chiederti un autografo…”

“Be’, a dire il vero c’è tuo figlio che me l’ha chiesto…”, scherzo io.

“No, comunque è vero, sto messo bene. E tu? Il lavoro come procede?”

“Anch’io non mi lamento. I clienti ci sono, i soldi anche. E’ tutto un circolo.”

“Già…”

“Allora, che ci fai da queste parti?”

“Indovina…”

“Lavoro? Stai girando un film?”

“Qualcosa del genere, sì. Non si tratta proprio di girare. Per il momento viaggiamo, studiamo dei luoghi che potrebbero andare bene per alcune scene. E’ tutto, ancora nella fase iniziale, ed è anche la cosa che mi piace di meno.”

“Cosa, il contatto con la gente?”

“Lo chiami contatto? Oh, Gesù, non direi proprio. E’ come essere sempre nel mirino. Cazzo, dovresti vederli. No, io preferisco quando si gira sul serio, e sul set c’è solo chi dico io, e il set è quello che dico io. Solo allora sento davvero la storia, le dò vita.”

“Be’, è il tuo lavoro, del resto.” Ha conservato quella capacità di smontare tutti i miei entusiasmi. Non lo fa per cattiveria, fa parte del suo carattere aggressivo. “E così hai pensato di venire a trovare la tua vecchia fiamma, no?”

“Ho fatto male?”

“Hai fatto benissimo. Si rischiava di non sentirci più.”

“L’ho fatto… non so, mi è venuto spontaneo. Non sarei proprio riuscito a passare di qui senza salutarti. Volevo sapere qualcosa, sapere come stai, come vivi, cose così.”

“Vuoi che usciamo, che andiamo a bere qualcosa?”

“No davvero. Quando metto piede fuori di qui ricomincia la giostra. Qui possiamo parlare in pace.”

“Vieni di là, allora. Almeno ci sediamo.”

Mi offre una sigaretta, la rifiuto. “Ho smesso. Tre anni fa.”

Muove la testa compiaciuta. “Cavolo. Non sei mai stato bravo a resistere alle tentazioni. Non con me.” Si accende una Camel, sbuffa alto il fumo. Mi siedo su uno sgabello, lei resta in piedi appoggiata al bancone, c’è questa luce tagliata che arriva lateralmente dal fondo, una luce che scompone ogni cosa in mille frammenti più piccoli, instabili.

“Le persone cambiano” le dico, e in questo momento mi sento davvero una rock star, mi sento un filosofo di fine millennio. Lei non dice niente. Fuma e mi guarda. E’ bella.

“E’ un bel ragazzino. Conosco il padre?”

“No. L’ho incontrato dopo. Ci siamo sposati quasi subito. Sai com’è, col lavoro e tutto il resto.”

“Sì, so com’è.” Lo so anche troppo bene. E’ per quello che me n’ero andato. “Non vedo fedi al dito” butto là, non mi aspetto niente di particolare, mi basta guardarla e pensare Cristo, che bella che è. Lei continua a non parlare, ha finito la sigaretta, se ne accende un’altra con movimenti diluiti nel tempo e nello spazio. Galleggiamo nell’aria.

“Ma sei sposata, no?”

“Lo sono stata.” Non sembra dispiaciuta. Ha un viso spigoloso, quando vuole.

“Che è successo?”

“Non so” risponde, cercando l’accendino. Prendo in mano gli occhiali da sole, li pulisco con un lembo della camicia. Mi passo la mano tra i capelli. Lei riprende a fumare.

“I tuoi?”

“Mia mamma, vorrai dire.”

“Cristo, mi dispiace.” Suo padre era in gamba. Uno di quelli che ci arrivano un attimo prima degli altri e stanno lì ad aspettare. Un vecchio dalla pelle dura, con la voce roca e due occhi troppo indulgenti che stonavano sul suo volto maculato, inflessibile.

“Come si dice, è la vita…” Potrebbe piangere, ora. Se solo lo volesse, potrebbe piangere, appoggiarsi a me. Abbracciarmi, perfino.

“Stronzate” le dico con un tono duro, sprezzante, un po’ la voce che uso sul set quando qualcuno non vuole saperne di fare come dico io.

“Avresti dovuto chiamarmi, ecco cosa. Sarei venuto di corsa.”

“Davvero? Saresti venuto di corsa? Ne sei proprio sicuro?” Mi grida in faccia, ha schiacciato la cicca di Camel in terra, sotto al tacco della scarpa. E’ rossa in viso, scorgo le vene del collo, le labbra che si aprono appena per riprendere fiato. “Non te ne è mai fregato un cazzo, ecco cosa. Ruotava tutto intorno a te. Il resto, non è mai contato niente.”

Il fumo sale lento a spirale. Non parliamo e non ci guardiamo. Restiamo concentrati sull’immagine che abbiamo di quello che si era, cerchiamo di confrontarla con quel che siamo diventati, magari solo per vedere se combaciano o qualcosa è cambiato. Ma è un gioco difficile, laborioso. E c’è troppo poco spazio, troppa poca aria, la luce è quella di un cinematografo di provincia, i rumori fuori sono più tangibili.

“Devo andare” dico io. Lei si scosta dal bancone, torna in equilibrio sui tacchi.

“Sei con qualcuna?”

“Sì, io… sono con una ragazza, sì.” Mi passo la mano sulla fronte ma non c’è sudore da asciugare. C’è solo questo freddo gelido che si insinua in me, che si riflette in lei.

“E’ quella bionda che ho visto nelle foto sui giornali?”

“E’ tinta” mormoro a me stesso.

“Come?”

“Ho detto che se li tinge, i capelli” ripeto, ora con voce fin troppo udibile. “Come si dice, è la mia futura ex.” Sorrido e non c’è niente di cui sorridere. C’è da aver paura, semmai.

“Quanto sei stronzo. Ti diverti a farle soffrire, vero?”

“Loro lo sanno. Non è amore ciò che cercano. Loro cercano cene con gente famosa. Cercano la discoteca col paparazzo. Il passaggio televisivo. Questo è quello che cercano.” Pronuncio quelle parole e mi rendo conto di quanto squallido sia il quadro che ho appena descritto.

“E tu?” mi chiede, e qui non posso non amarla.

“Io cosa?” Mi sto già rimettendo gli occhiali, sono quasi in fondo al corridoio, a tre metri dal mondo di fuori.

“Tu che cosa cerchi?”

Mi fermo, ascolto il battito del mio cuore. C’è un pulsare irregolare, un timido accenno sincopato che non so distinguere, un rumorino da nulla, ma Dio solo sa che può degenerare.

“Mi ha fatto piacere rivederti.” La bacio sulle labbra, sfiorandole appena la lingua. Lei chiude gli occhi e lascia le labbra socchiuse. Mi stacco e prendo un foglio dal bloc-notes, ci metto sopra un autografo e la dedica per Mattia. Tutto scritto a lettere grandi, comprensibili. Tutto stupidamente leggibile. Lascio il foglio sul bancone, esco e la luce mi investe, facendo scomparire lei e le sue labbra socchiuse.

La ragazza mi aspetta sul bordo della fontana. Sta prendendo il sole come le ho detto, con in mano il souvenir. La gente mi spia dai portici, qualcuno cerca di salutarmi. Ignoro tutto e tutti, come al solito.

“Andiamo” le dico.

Lei apre gli occhi, si rialza. “Hai fatto?”

“Ho fatto. Andiamo.”

La sua mano cerca la mia senza trovarla.

“Che c’è, sei nervoso?”

“Sto solo pensando al film.”

“Andrà bene” garantisce. Mi ferma con un braccio. Mi lascio baciare due o tre volte, la gente ci guarda e sorride, qualcuno ci indica dicendo che siamo una bella coppia, che stiamo bene insieme. Molti invidiano la nostra felicità. Mi scappa da ridere, mi trattengo. Abbraccio la ragazza solo per staccarla da me e riprendere il cammino. Faccio scivolare una mano lungo la sua schiena, mentre raggiungiamo la Ford.

Fa caldo. Il sole è a picco e nel cielo non c’è traccia di nuvole.