I racconti del Premio letterario Energheia

Il giorno incompleto_Giuseppe Fiore, Napoli

_Racconto finalista settima edizione Premio Energheia 2001.

 

Claudia era incinta.

Non mi aveva detto che nel pomeriggio era stata dal medico; durante la cena, mentre mi metteva un pezzo di carne nel piatto, mormorò senza guardarmi negli occhi: “Sono al secondo mese”.

Non la vidi in faccia, perché aveva la testa piegata, ma intuii il fremito di gioia che la scuoteva tutta.

Naturalmente, non seppi cosa risponderle; con una certa goffaggine aggirai il tavolo e l’abbracciai, semplicemente.

Parlammo per tutta la sera dei preparativi importantissimi che avremmo dovuto fare, dei cambiamenti che ci avrebbero trasformato.

Ci addormentammo ripetendo i nomi che avevamo scelto da tempo.

Qualche giorno dopo, le dissi che avevo pensato ad una cosa. “Vorrei che nascesse vicino al mare”

“Il mare?”

“Sì. Ci ho riflettuto: potremmo andare a Santa Margherita per tutto il periodo della gravidanza”

La mia è una famiglia di nobiltà antichissima. Nelle generazioni, la fortuna che si diceva possedessero i miei avi si è andata sbriciolando: dei baroni Fileni è rimasto solo il nome, e una minuscola isola nello Ionio, Santa Margherita.

In casa mia si è accettata da più di cent’anni la forzata appartenenza alla condizione di borghesi, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di rinunciare a quel centinaio di ettari di terreno galleggiante. Un mio trisavolo ci fece costruire una piccola casa di mattoni bianchi; adesso un traliccio la collegava alla terraferma con un cavo lungo quattro chilometri.

“E dovrei partorire là?”

“Mi pare che volessi partorire in casa, o sbaglio?”

“Si, certo. Ma con un parto assistito…”

“E allora? Quando sarà il momento, chiameremo l’ostetrica. Santa Margherita non dista dal continente più di venti minuti: non ci vuole di meno per arrivare dall’ospedale a qui”

“In effetti. Ma il bambino ha bisogno di cure”

“Avremo con noi tutto quanto ci potrà servire. Niente di meno di qui. Ma se non te la senti di partorire in casa”

“No, no, lo sai: è fondamentale”

“Quindi?”

“Non lo so, non sono sicura”

“Non voglio forzarti a fare niente. Solo, pensavo a quante volte ho desiderato di esser nato da qualche altra parte”

“Come se poi cambiasse qualcosa”

“Lo so, è una cosa irrazionale. Non fa niente, hai ragione tu: meglio di no”

Il giorno dopo, quando la svegliai, mi parlò con la voce ancora impastata di sonno.

“Va bene” disse: “Possiamo partire anche domani”

Non le chiesi altre conferme, e lei affrontò la partenza come tutte le cose che faceva.

Con una razionalità ostinata, quasi professionale: la guardavo compilare liste interminabili delle cose da portare e sentivo la sua solita, dolce sicurezza che mi trascinava.

Arrivammo a Santa Margherita su un barcone grigio. I due terzi del carico erano rimasti a terra: volevamo fare spazio in casa e mettere ordine, prima di trasferire lì le nostre esistenze.

Avevo visto l’isola solo un paio di volte, molti anni prima, quando i miei erano ancora vivi.

Il fico che cresceva accanto alla casa era diventato enorme: adesso proiettava un’ombra lunga e contorta. Alle spalle della casa, le sterpaglie avevano lo stesso colore dorato, macchiato di verde smeraldo in certi punti.

Era quasi estate, le mura, bianco sporco, sembravano germinare dal terreno, come creature primordiali.

Tutto sembrava assolutamente vasto, invece bastava salire sulla piccola altura nel mezzo per vedere il mare dall’altra parte.

Dopo tre giorni, potevamo dire di vivere lì.

Il piano inferiore della casa era costituito da un unico stanzone tinto dello stesso bianco dell’esterno, di sopra c’erano un bagno e due stanze da letto.

A Claudia piaceva: solitamente, per entusiasmarsi, le bastava sapersi impegnata. Mi parlò spesso di come avrebbe sistemato le cose del bambino, di come avrebbe fatto in modo che non avesse freddo.

Avevo con me il cellulare, che non usavo quasi mai: ogni mattina, alle nove, veniva Rocco nella stessa barca che ci aveva portato sull’isola.

Rocco era un pescatore che viveva in città, ci portava tutto quello di cui avevamo bisogno.

Quando il sole era già alto, sentivo il ronzio tossicchiante del motore avvicinarsi dalla parte del mare; uscivo, pagavo e portavo in casa le buste con le provviste.

Poi consegnavo a Rocco un pezzo di carta su cui la sera precedente Claudia aveva scritto ordinatamente quello che ci serviva per il giorno dopo.

A volte capitava che io e Claudia salissimo con lui sulla barca, per andare in città.

Intanto, continuavo a lavorare: ogni venerdì, andavo alla posta per spedire gli articoli che avevo scritto durante la settimana.

L’ultimo giorno del mese, insieme alla lista della spesa, consegnavo a Rocco trecentomila lire. “Per il disturbo” dicevo ogni volta. E Rocco prendeva i soldi, con una specie di sorriso imbarazzato, nonostante avessimo pattuito da subito quanto gli spettasse.

La pelle della sua faccia era rossiccia, pareva bruciata, ma lui doveva essere ancora giovane. Una volta gli chiesi se era sposato e si limitò ad allungarmi la mano, mostrandomi la fede.

Aveva dita enormi, spatolose, le nocche screpolate. Sembravano mani di un vecchio gigante.

La casa continuava a riempirsi, settimana dopo settimana, dei nostri gesti.

L’odore selvatico che si spandeva per le stanze mi era diventato familiare, adesso sentivo di portarlo addosso, dappertutto.

E un senso di appartenenza sconosciuto aveva legato me e Claudia all’infinita immobilità che ci circondava.

Restavo sulla riva quando lei nuotava in mare; il suo corpo prendeva gli stessi riflessi dell’acqua, aveva imparato la circolarità delle onde.

Ogni giorno scoprivo in Claudia nuovi modi di appropriarsi degli spazi: spesso la vedevo scomparire dietro il monticello, e la trovavo addormentata nell’erba.

Vedemmo insieme, io e Claudia, l’estate spegnersi in silenzio.

Poi l’autunno, che per me e per lei significava i frutti gonfi del fico che raccoglievamo insieme.

E il mare diventava settimana dopo settimana appena più fosco, qualche volta lo vedemmo spumeggiare, quasi in tono di minaccia.

Alla fine di Novembre, però, per due giorni interi aveva continuato a gonfiarsi di onde alte e scure.

Avevo telefonato a Rocco di non venire finché non fosse tornato il sereno, perché in ogni caso avevamo provviste per un mese. Lui rispose semplicemente che era impossibile mettersi in mare con un tempo del genere; ci consigliava di starcene chiusi in casa, perché dicevano che sarebbe peggiorato.

Così, Claudia si sedette davanti alla finestra e restò tutto il pomeriggio a guardare le onde.

A sera, il mare diventò una massa indistinguibile in movimento costante. Sembrava un animale enorme che si agitava tormentosamente; di tanto in tanto, si intuiva il biancheggiare della spuma che scompariva subito. Quelli erano i denti, pensavo sorridendo.

Alle tre della notte, Claudia ebbe le doglie.

Mi svegliò strattonandomi il braccio: vidi che boccheggiava, aveva le lacrime agli occhi.

Chiamai l’ospedale, e al telefono dovetti gridare perché il rumore del vento e del mare era fortissimo. Una donna mi rispose che avrebbero mandato quanto prima un elicottero, ma che, in ogni caso, bisognava aspettare che si calmasse la bufera.

A Claudia dissi che l’elicottero stava per arrivare, e che non doveva preoccuparsi perché era quasi sicuramente un attacco spastico: eravamo solo al settimo mese.

Lei non rispondeva: mugolava, in lacrime, e mordeva la coperta dal dolore.

Il bambino nacque morto; il cordone ombelicale gli si era attorcigliato attorno al collo.

“Può succedere” mi disse il dottore, mentre scriveva i miei dati su un foglio. Poi, senza alzare lo sguardo, aggiunse: “Specie se ci si comporta in modo così sconsiderato”. E mi consegnò con un’espressione neutra, una specie di ricevuta fiscale che attestava la morte di mio figlio.

Riuscii a vedere Claudia solo tre giorni dopo.

Avevo comprato un mazzo di fiori gialli: quando non rispose al mio saluto, pensavo stesse dormendo, e misi i fiori sul piccolo tavolo vicino al letto.

Lei era girata di spalle. Mi sedetti sulla sponda e le accarezzai i capelli, aveva ancora la flebo infilata nel braccio.

Mi disse a voce bassa, senza voltarsi: “Vattene. Spedisci la mia roba a casa e non cercarmi più”

Tolsi istintivamente la mano, il tono della sua voce era perfettamente naturale: “Claudia”

Si girò lentamente, aveva un paio di forbici in mano. “Vattene o mi ammazzo” disse semplicemente. Non piangeva.

Tornai a casa immediatamente.

Il mare era immobile, poteva sembrare ancora estate.

Vidi Santa Margherita da lontano perché il cielo era limpido: una macchia color terra con un punto bianco nel mezzo.

L’isola mi stava aspettando, pensavo. La sua bellezza s’era fatta più malinconica, ma sembrava un chiaro invito.

Quando Rocco mi lasciò sulla riva, gli tesi dei soldi per il viaggio; era stato in silenzio per tutta la traversata.

Guardò sorridendo le banconote, e fece un gesto vago con la mano. Lo presi come un segno di mesta complicità, e rimisi in tasca i soldi mentre lo guardavo allontanarsi.

Salii subito di sopra: la casa aveva un odore nuovo, ferroso.

La camera da letto era rimasta come la avevamo lasciata tre giorni prima.

La tinozza nel mezzo della stanza era piena di acqua arrossata: la svuotai in mare.

Bruciai le coperte; il sangue che le macchiava, ormai, era secco.

Pulii con attenzione, in ogni angolo; spostai l’armadio e misi da parte tutte le cose di Claudia.

Quando avevo finito, ormai era sera: scesi di sotto a guardare il mare.

Naturalmente, ritrovavo in ogni angolo della casa, in ogni oggetto, le parole che io e Claudia ci eravamo detti in quei mesi.

Il suo corpo, che con il gonfiore del ventre aveva acquistato una grazia più grave, era graffiato su ogni muro della casa.

Riconoscevo ovunque i suoi gesti: in ogni cosa che vedevo, c’era una traccia di lei.

Il mare, che era tornato alla quiete di sempre, significava in ogni curva delle onde il suo nome; il grande fico, ripeteva nei bozzi gibbosi del tronco il suo viso.

Pensai al piccolo cadavere che era uscito dal corpo di Claudia, e ne piansi a lungo, in silenzio.

Non ero riuscito nemmeno a vedere di che colore aveva gli occhi.

Il giorno dopo salii in barca con Rocco, avevo con me le valige di Claudia; gliele avrei spedite, immediatamente.

Alla posta, ritirai tutti i soldi che avevo e imbucai una lettera per la redazione del mio giornale. C’era scritto che mi scusavo, ma a causa di problemi molto gravi, per qualche tempo le mie collaborazioni sarebbero state sporadiche. Potevano ritenersi liberi di licenziarmi in tronco, ne avevano il diritto.

Poi telefonai a un paio di amici, i più stretti: dissi loro che mi ero trasferito, e li rassicurai. Avrei preferito che non mi cercassero per un po’: sarei stato via un paio di mesi, avevo bisogno di riordinare le idee.

Chiesero spiegazioni, io mi limitai a dire che con Claudia era finita. Era stata colpa mia.

Tornai sull’isola con le provviste abbondanti per un mese e dissi a Rocco di venire solo dopo trenta giorni. Lui annuì con un grugnito e rifiutò ancora i soldi: prima che scomparisse all’orizzonte, avevo già buttato in mare il telefono.

Decisi che stare da solo era il modo migliore per preparami a ritornare.

Pensai che correvo il rischio di abbrutirmi, nascosto com’ero allo sguardo dei miei simili. Invece mi resi conto subito che potevo fare a meno di discipline costrittive.

Mi pareva che tutto quanto mi circondava assistesse in silenzio alle mie azioni, come uno spettatore un po’ annoiato.

Quindi, riempivo ogni mio gesto di un’importanza enorme.

Claudia diventava gradualmente una parte integrante, sottintesa, delle cose che vedevo. L’idea di lei era come un odore, o un brusio costante e modulato, in cui mi sentivo costantemente immerso.

Le parole che avevo usato per proporle di venire qui mi sembravano sempre più lontane, impossibili. Stavo cominciando a dimenticarle, e il senso di colpa era così grande e doloroso che mi era impossibile comprenderlo.

Quando Rocco tornò, dopo un mese, mi chiese con tono casuale se avevo intenzione di andare con lui. Gli risposi di no.

“Anzi” dissi: “Se puoi, domani mattina, portami altre provviste”

“Per un mese?”

Distrattamente, gli risposi: “Facciamo per due.”

Una mattina, all’improvviso, rientrai in casa e mi accorsi che appeso al muro, accanto alla finestra, c’era ancora il calendario, alla pagina del mese di Novembre.

Probabilmente, doveva essere Gennaio: quei due fogli che pendevano sulla parete mi parvero improvvisamente ridicoli.

Eppure mi sarei sentito molto stupido se avessi tolto il calendario; così, tornai fuori per pensarci e ben presto me ne dimenticai. Il calendario, fermo a Novembre, rimase lì.

In quei giorni, sistemai anche il letto al piano inferiore, addossato alla parete in fondo. Mi rassegnai, pur di non salire più di sopra, a fare i miei bisogni in mare o nell’erba.

“Era una decisone che andava presa da tempo”, pensai la prima sera in cui dormivo di sotto.

In questo modo, passarono altre settimane, e il doloroso ricordo di Claudia era sempre più avvolgente.

Ben presto, una rassegnazione quieta aveva cominciato a scandire il ritmo delle mie giornate.

A volte, distrattamente, mi dicevo che forse questi miei mutamenti erano segno che ormai il peggio era passato; forse era tempo di ritornare a casa.

Ma subito mi convincevo che non poteva essere così; il dolore, l’amarezza per aver sofferto e fatto soffrire, non si erano attenuati affatto, anzi. Probabilmente stavo sempre peggio.

Spesso mi addormentavo con la serena convinzione che in ogni caso, tra un po’ qualcuno sarebbe venuto a cercarmi.

Rocco tornò due mesi dopo, come gli avevo chiesto. Stavolta la barca era stracarica.

“E allora? Cos’è tutta ‘sta roba?” gli gridai dalla riva, quand’era ancora in mare.

“Le provviste per tre mesi. Tanto non ha intenzione di tornare, no?”

Pensai senza convinzione che forse tre mesi erano troppi; guardai per un attimo il mare, rividi Claudia che usciva dall’acqua.

Mi convinsi che in fin dei conti, restare tutto quel tempo non era un’assurdità: sicuramente, poi, sarei tornato.

Aiutai Rocco a scaricare la barca e, tra le altre cose, notai una grossa gabbia di metallo, con dentro un pollo e una gallina.

“E questi?” chiesi indicando la gabbia.

“Sono per lei, un regalo di mia moglie. Così almeno avrà le uova fresche. In quel sacco, c’è il becchime.”

Quando fu tutto a terra, senza dire niente, Rocco salì sulla barca e si preparò a ripartire. Gli pagai le provviste ed entrai subito in casa.

Ammassai il cibo in un angolo, e lo lasciai lì: di volta in volta, mangiavo quello che c’era in cima al mucchio.

In quel periodo, presi l’abitudine di assistere al tramonto dalla cima del monticello.

Quando notavo i primi riflessi violacei chiazzare in qualche punto l’acqua, subito arrancavo verso il punto più alto, e lì aspettavo la sera.

Continuavo a pensare a Claudia. Il tramonto esisteva in funzione dei riflessi che la sua pelle avrebbe preso sotto quella luce, del modo in cui i colori incendiati del mare si sarebbero rincorsi sulle sue braccia, nell’incavo del suo collo.

Ben presto, le uniche parole che seppi ricordare, fra le tante che ci eravamo detti, rimasero le ultime: “non cercarmi”. E, soprattutto, lo sguardo che le accompagnava, pieno dell’odio misurato e giusto che lo rendeva così orribilmente quieto.

Tre mesi dopo, Rocco mi portò due capretti vivi, due vitellini e delle sementi.

In barca c’era meno spazio per le provviste. “Ma tanto” mi disse “se si cura questi, non avrà più bisogno nemmeno di me”

Rocco mise a terra gli animali e io li vidi guardarsi in giro un po’ disorientati. Poi sparirono nell’erba, dietro la casa.

“Allora, quando sarà la prossima volta?” chiesi a Rocco.

Mi parve di intuire una specie di sorriso, mentre mi rispondeva: non capii, ma sospettai qualcosa. “Non so, veda un po’ lei. Intanto, curi gli animali e pianti le sementi. Ce n’è per farne un piccolo orto: io, se vuole, ritorno fra tre mesi”

Non gli risposi subito, aspettai che fosse risalito in barca.

Stavo per dirgli qualcosa, ma lui mi precedette: “O non vorrà tornarsene a casa, finalmente?”

Subito, risposi: “No, no, per carità. Impazzirei. Il lavoro può aspettare: ho ancora bisogno di stare qui. Fra tre mesi va bene: la prossima volta tornerò con te”

E sorrise apertamente, con un’espressione quasi paterna.

Era la prima volta che vedevo Rocco ridere: mi dava l’impressione di sapere molte più cose di me.

Lo rividi tempo dopo.

Ero sulla riva, pescavo (avevo trovato una canna in un armadio, e in qualche settimana sapevo usarla). Riconobbi il rumore del motore, e ne fui sorpreso perché non lo aspettavo così presto.

“Avevamo detto tre mesi. Come mai sei già tornato?”

“Ne sono passati otto…” si limitò a rispondermi, con una certa gravità nella voce.

Non seppi che dire: guardai gli animali alle mie spalle che erano diventati grandi, le nidiate di pulcini che beccavano il terreno davanti all’uscio della casa.

“Allora” gli dissi “Come mai così tardi”

Mi parlò con chiarezza, come sempre.

“C’è la rivoluzione. Le conviene venirsene con me, adesso: non so quando potrò tornare. Se non viene via, la dimenticheranno”

“La rivoluzione! Come pretendi che torni adesso; ne morirei.

Ho bisogno di stare solo ancora un po’ di tempo”

“Faccia come crede”

La compostezza della sua voce mi imbarazzava. Ero convinto che fosse venuto sull’isola per pura formalità, sapeva che non sarei tornato nemmeno quella volta.

“E poi, si sa. Queste cosiddette rivoluzioni durano un paio di giorni al massimo: vedrai, è un fuoco di paglia”

“Lo speriamo tutti. Allora io vado, tornerò appena sarà possibile”

Mentre cercavo qualcosa, un commiato, Rocco era già risalito a bordo. Prendeva il largo, e io rimasi immobile, con la canna da pesca in mano, a guardare la barca che si confondeva nell’azzurro accecante del mare.

Non tornò più, e ben presto mi dimenticai anche di lui.

Col tempo, avevo imparato a riconoscere tutti i segni che mi circondavano. Ogni sfumatura d’azzurro che l’acqua del mare prendeva, voleva dire qualcosa di diverso.

Mi sapevo circondato da consistenze organiche, pulsanti.

Il dolore che mi aveva trattenuto, faceva respirare la casa, l’erba, il mare e il cielo.

Anche il dolore stesso si era trasformato in una consapevolezza acquisita: con gli anni, i ricordi si fissarono.

Mi resi conto, dopo molto tempo, che conservavo solo delle immagini; della mia vita passata, prima dell’isola, rimanevano soltanto dei grumi di sofferenza, quasi privi di significato.

Ogni mattina, per un tempo incalcolabile, mi svegliai all’alba.

Davo da mangiare agli animali, curavo l’orto. Nel pomeriggio pescavo, al tramonto salivo sul monticello.

Poi mi stendevo sul letto, fissavo il soffitto e aspettavo di addormentarmi.

Col tempo, quei gesti si andarono logorando; la ritualità quotidiana che mi permetteva di sopravvivere cominciò a rivelarmi una specie di mollezza in tutto quello che facevo.

Mi sentivo appesantito, il mio corpo si stava intorpidendo lentamente. Non era spiacevole, mi accorgevo di non desiderare nulla, di non avere quasi più volontà.

Avevo rinunciato da molto tempo a giocare con l’idea che qualcuno sarebbe venuto a cercarmi; ormai mi era del tutto indifferente il fatto di avere avuto una vita, prima di venire sull’isola.

Mi sentivo coevo di quello che mi circondava, uguale ad una pianta o a un sasso.

Ogni tanto, guardavo il calendario, i fogli si erano ingialliti e le lettere erano quasi indistinguibili. “Novembre”, riuscivo a decifrare. E lo prendevo come una specie di scherzo, un’inspiegabile assurdità.

Un giorno, sentii un ronzio dalla parte del mare.

Uscii di fuori, e sulla riva c’era una vecchia che mi aspettava.

Naturalmente ci riconoscemmo subito: lei parlò per prima.

“E’ incredibile” mormorò, con la voce un po’ tremante.

“Cosa?”

“Che tu sia ancora qui. Non lo sai cos’è successo?”

“La rivoluzione…”

“Che rivoluzione! C’è stata la guerra”, e mi guardò con gli occhi spalancati. “La guerra…”, ripeté con un filo di voce.

Si avvicinò a me, la sua faccia era percorsa da infiniti tracciati di rughe. La pelle s’era inflaccidita, sfilacciata, e i capelli erano completamente bianchi.

“Siamo dovuti scappare tutti. Adesso è finita, sono ritornata il mese scorso, dopo trent’anni.

E’ tutto cambiato, non esiste più niente.”

Non seppi cosa dirle, mi parlava di eventi giganteschi. Ma li trovavo incomprensibili.

“Sono rimasto qui tutto il tempo. Non ho avuto la forza di tornare, volevo starti il più lontano possibile”

“Allora hai fatto davvero come ti avevo chiesto… e io che pensavo che saresti venuto a cercarmi. Forse, in fondo, lo speravo.”

“Dopo quello che era successo?”

“Hai ragione, probabilmente non potevi fare altro che costruirti la vita daccapo.”

“Non daccapo. L’ho costruita sul dolore che ti ho dato e che tu mi hai restituito. Lo vedi?”

E con un gesto largo e un po’ impacciato, indicai vagamente alle mie spalle.

Lei non guardò, continuava a fissarmi con quel suo sguardo immobile.

“E io che pensavo di portarti con me” disse. Rise brevemente, poi aggiunse: “Ma come faresti a staccarti da questo: è il nascondiglio migliore che potevi scegliere”

Non le risposi, chinai il capo.

Quando sollevai lo sguardo, la barca se ne stava andando.