Quel che vediamo delle cose_Giuseppe Autiero, Pedace(CS)
_Miglior racconto da sceneggiare ottava edizione Premio Energheia 2002.
I
Il deltaplano è un triangolo di tela, azzurro sotto, blu sopra. In volo, mi sento come un predatore d’aria. Avessi solo qualcosa su cui lanciarmi. L’elica che mi spinge ha un ronzio da ventilatore, avanzo lento e prevedibile: e non c’è nulla per cui rischiare la picchiata. La spiaggia d’ombrelloni sembra un prato di fiori tondi – mi nascondono le sdraio, la gente. Peccato che il passeggero, imbracato davanti, si sbracci per salutare. Mi paga: s’è comprato il diritto di guastarmi il vento e la vertigine.
Aspetto il tramonto come un destino da meritare: l’ora che le mamme richiamano i bambini, che i padri richiudono i fioriombrelloni.
Ci sono sempre bambini intorno al deltaplano, sulla pista: non posso distrarmi. Pasquale passa ore al bar: piedi sulla ringhiera, beve alla lattina. E’ abbronzato, riesce sempre a trascinare qualche ragazza all’aliante: “Non è che hai paura, no?” – le dice. Rulla poco sulla pista, s’impenna d’un tratto: nel ronzio, la risata di lei. Un giro ventimila lire, penso.
Ma ogni giorno finisce con un tramonto. L’ultimo volo è per me: da solo. Rullo fino in fondo: le ruote ammortizzano poco, la struttura vibra, soffre ogni fenditura dell’asfalto. Poi mi alzo, lento. Vedo sfilarmi sotto i mucchi di sterro, la rete arrugginita.
Prendo quota, oltrepasso le cime dei pinastri. Il fumo della spazzatura che brucia – lo attraverso, e vorrei vedere come il turbine della grande ala lo disperda. Seguo la provinciale, le auto ai semafori, i negozi che vomitano plastiche colorate sui marciapiedi.
Poi viro a sinistra, dove il vento del tramonto mi solleva, mi fa attraversare in un battito la spiaggia. Un respiro, e c’è solo luce intensa che muore, ed una linea lontana che separa due colori.
Ho solo qualche minuto, prima del buio. Una volta perso sulla destra il promontorio non ho punti di riferimento: ma sento che mi spingo sempre un po’ più in là. Succederà, prima, o poi: che continui ad inseguire il sole, dimenticando la costa scura là dietro, le sue file di lucciole. E’ più dell’idea con cui mi consolo del ritorno: è il destino da meritare.
Dall’alto, il mare ha inganni, soprattutto al tramonto: chiazze di luce che si fingono cielo, abissi che sembrano nuvole. Ad ogni fine giornata, ripenso al figlio di Kennedy, quello morto per un incidente aereo. Scrissero: “Ha confuso cielo e mare”. I tg parlarono della maledizione della famiglia, e subito immagini in cui il sangue era nero. E lui, John John, un bambino che saluta militarmente la bara del padre. Penso: la morte, confondendo cielo e mare – nella confusione di due colori. Il mare che si finge cielo: gabbiani in volo sott’acqua, delfini in aria. Io volo così, al tramonto. Per sensazioni. O per ricercare il silenzio, quella magia persa anni fa – e me n’è restato un segno. Volavo col deltaplano, quello senza rotore. Mi lanciavo da rupi, e non immaginavo che un giorno avrei venduto quella vertigine. Intorno c’erano montagne, rocce, boschi scuri. Arrivavo ch’era notte: montavo l’aliante alla luce dei fari. Una volta riuscii a lanciarmi prima dell’alba, quando gli uccelli erano nei nidi: la terra scorreva nera, indistinta, sotto la mia corsa. Allora sentii il silenzio: quando la terra finì, e ci fu un attimo sospeso, prima che qualcosa mi prendesse, desse fiato alla mia ala, nel cielo deserto di voli. Il silenzio ha una consistenza, come di acque invisibili. Nuotavo in un mare di silenzio, freddo, sterminato: avrei voluto esserne degno, annullando il mio respiro, gli scricchiolii del deltaplano. Quando caddi, e gli alberi mi salvarono, mi accorsi di quanto avveniva solo al frastuono dei rami spezzati. Da allora, ho una gamba zoppa ed un ronzio di motore alle spalle.
Prima della partenza, devo spiegare bene al passeggero come comportarsi: in volo non mi sentirebbe. Il ventilatore che ci spinge lentamente in alto fa vibrare tutto. A sera, tornando dall’ultimo volo, sento la gamba formicolare: è il corpo che mi richiama a terra. Ma, prima, è l’anima a sapere che anche stavolta non ho inseguito il sole. L’atterraggio è sgraziato, ruvido: un pellicano che prova a fermarsi. E’ il momento in cui i passeggeri hanno paura. Il decollo, invece, è un’allegra tensione: pagano per quello, per la sensazione del distacco. Non sanno il volo vero, il mare silenzioso. Questo motore, invece: vibra, gronda olio, si lascia dietro gas puzzolenti. Il vento che mi alita in viso, che ha odori e calore, è trascinato ad una trappola, verso quel frullatore che lo sporca di fumo. I passeggeri salutano i bagnanti, ridono anche, i primi minuti; ma pensano solo a tornare, per raccontarla. Quando ricompare la pista, li vedo afferrarsi ai tubi, irrigidirsi. Pensano che è stretta e corta, schiacciata com’è, poi, tra case ed alberi…
Ma, non considerano la bassa velocità: il deltaplano è un’ala incatenata da un intrico di tubi, zavorrata da un motore. Potesse sganciarsi, il delta volerebbe via.
Me lo chiedo sempre cosa li spinge ad avvicinarsi al nostro casotto: guardano appena i cartelli con le istruzioni, sfilano senza pensarci le banconote. Sono subito attratti dal deltaplano. Alcuni, si fingono esperti: “Che potenza ha il motore?” Capitano i trasvolatori, quelli che subito agganciano le fibbie del casco dicendo:
“Prendo sempre l’aereo”. I peggiori, quelli che hanno letto Bach, “Biplano”. Gli esploratori dell’assoluto a ventimila lire. Uno mi chiese: “Ha letto Saint-Exupéry?” Un Piccolo Principe in bermuda. Ne sono quasi geloso, di questi: come di chi condivide con noi un amore, ma lo spreca coi libri, coi racconti.
O forse mi imbarazzano perché non sono molto diverso da loro. Si spreca la vertigine leggendola, sminuzzandola in parole: ma anche sfiorandole appena le labbra. Perché, ogni sera, torno. Atterro il pellicano, lo rinchiudo in un casotto di lamiere e reti metalliche, come in una polleria.
E’ a settembre che le cose cominciano a perdere logica, connessioni.
Mio padre telefona ogni sera: “Quando torni? Antonio deve partire, chi resta alla pompa?”. Per gli altri nove mesi lavoro ad un distributore di benzina. E’ a settembre che l’idea di perdermi nel tramonto diventa meno idea, per me, assume una sua strana evidenza. Cambiano i villeggianti, l’ultima ondata è fatta di gente che vuol evitare la confusione: vengono in pochi, sulla pista, ed il ronzio del motore infastidisce gli altri, quelli restati a leggere sulla spiaggia. Ci sono pochi bambini. L’atmosfera è da smobilitazione, come in una festa che s’attarda senza motivi. Mi chiedo se anche quest’anno sia valsa la pena. Pasquale prende la moto, batte le spiagge vicine. Resto a far conti: sottrarre fatture, affitto, manutenzione. La calcolatrice darà il totale di ogni anno: che ci siamo pagati la villeggiatura, pizze e birre. Mi resterà in tasca qualcosa, e nell’anima una sconnessione che conosco.
Siedo sulla veranda del bar, di fronte alla spiaggia. Il deltaplano è restato sotto il cartello di Pasquale: VOLERE VOLARE.
Quest’anno lo brucio. Il mare delle tre respira piano nei suoi spilli di luce, gli ombrelloni sono chiusi. Una donna avanza sul tavolato: ha un cappellino di paglia. Cerca qualcosa, sotto un ombrellone. Mi succedono, a settembre, cose come perle senza filo. Lei fa un gesto, un richiamo, di cui sembra subito pentirsi.
Resto indeciso. Perché volere infilare le perle, le cose, una dietro l’altra? Potrei fingere di non aver visto: il mare rende quella figurina così imprecisa, l’avvolge e confonde di luce… Ma dico al gestore: “Dài tu un’occhiata?” Luca fa un cenno, poi mi guarda zoppicare sul tavolato. La donna vede il mio passo strascicato.
Sarà più imbarazzata, per questo. Dice: “Mi scusi… Non avreste qualcosa, come un setaccio…”
“Cos’ha perso?”
“Uno di quei braccialetti colorati. E’ per il bambino, non vuole dormire…” L’ho già vista, qualche volta, in un gruppo che ha un motoscafo. Smuovo la sabbia. Vedo spuntare un filo: ecco il braccialetto. Ci alziamo. “Grazie, è stato gentile.” Una voce lenta, trafitta di pensieri. “Lavora al bar?”
“No. Sono quello del deltaplano…”
“Ah, allora è lei, che vola verso il tramonto…”
Sento che sta per avvenire qualcosa: un filo di perle, un silenzio che si tende, da dietro le sue parole. “L’osservo dal mio terrazzo.
Ho l’impressione che ogni sera lei torni un po’ più tardi.”
Il cappello lascia filtrare giochi di sole sul viso. Non so darle un’età, una storia. “Sì, è vero” – dico, ed aspetto.
“Mi chiedevo…” – ma succede qualcosa. O meglio, torna a non succedere nulla. Una trafittura d’insicurezza, nel suo sguardo
– che si perde di lato: “Scusi, sono indiscreta. Grazie ancora”
– va via.
Certe parole sono come un cancro: te ne devi liberare, o ti crescono dentro, si aggrovigliano, a divorarti i pensieri. Luca racconta:
“Non so come si chiama… Hanno comprato la villa, sul promontorio. Hanno soldi.” Vedo il gruppo in spiaggia: tre uomini, quattro donne. Lei si alza spesso, bada ai due bambini. Gli uomini raccontano cose, fanno gesti: ridono sempre, alla fine.
Quante cose avvengono, da riderci sopra, nel mondo. Le altre s’abbronzano coscienziosamente. “Vanno al largo col motoscafo”
– dice Luca – “Abbronzatura integrale”.
Il ronzio del deltaplano: Pasquale torna dall’ultimo volo. Lei solleva il viso, riparandosi gli occhi. Mi ritiro: non vorrei che mi vedesse. Mi attardo al bar. Il gruppo si gode il tramonto, chiusi gli ombrelloni. Lei va via coi bambini. Luca ha detto: “Il marito ha un’agenzia, qualcosa, al nord. Arriverà.”
Pasquale è sempre dove non dovrebbe: “Cazzo, che novità!
Cominci ad informarti pure tu quando arrivano i mariti?”
Ho bisogno di volare. Decollo, come ad un appuntamento.
Faccio il solito percorso, resisto alla tentazione di piegare verso il promontorio, a cercare la villa. Nuvole basse, sul sole: domani sarà mare grosso. Non mi sono mai spinto tanto in là. E se spegnessi il motore? Coi passeggeri è impossibile, si spaventerebbero.
Non ho mai provato, neppure quando volo da solo. Provo ad immaginare quanti minuti avrei, di lenta, silenziosa planata: sarò abbastanza lontano perché lei non mi veda né senta? Perché mi pensi ricordi perduto nel silenzio?
A sera, vado al “Tonnetto”. Riconosco subito la comitiva, seduti in fondo. Il cameriere ha appena portato le pizze. Gente abituata al meglio, che per una sera si concede. Lei taglia la pizza al piccolo. E’ elegante, curata, come le altre. A capotavola c’è uno nuovo, capelli corti: la comitiva si dispone intorno alle sue parole – il lavoro, la città. Lei sembra contenta di starsene in ombra.
Sfoglio una rivista, quando sento un rumore alle spalle: un bambino – è caduto, piange. Lo rialzo. “Armando!” – sento esclamare, arriva lei. Vedo al polso del bambino il braccialetto. “Cosa ti sei fatto? Fammi vedere!” – dice. Arriva il padre, lo prende in braccio: “Grazie” – mi dice. Torna al tavolo: “Non è niente” – tranquillizza gli amici.
“Grazie” mormora anche lei, distratta. Strano pensare di averle quasi parlato del tramonto. Sta per avviarsi – nell’altrove in cui è sempre stata. Ma esita, come ricordasse qualcosa: “Stasera è rientrato più tardi…” Il marito si gira -, ha uno sguardo improvviso.
“Cosa voleva chiedermi, oggi?” -, chiedo.
I suoi occhi tornano a distrarsi. “Chiedere cosa?”
Luigi ha inscatolato le pizze. “Niente. Buona serata.”
Il mare ha un frastuono di onde. Poche persone, sulla spiaggia.
Aiuto Luca a riempire il frigo di gelati. Dice: “Un inverno è venuta sola alla villa, con la cameriera. C’è stata fino a primavera. Dicevano che stava male. La vedevo passeggiare al tramonto, sulla spiaggia… Il marito veniva qualche volta, col figlio grande.”
Li sento arrivare. Uno canta: “Volareee, ohò, cantareee, ohohohò!” Una delle donne è lei. Vanno al deltaplano. Lei osserva la grande ala. Il marito dice: “Senta, io ho il brevetto di pilota, e ci chiedevamo se potesse noleggiare il deltaplano, vorrei volare con gli amici. Ci dica il prezzo…”
Lei non guarda. Faccio un gesto: prego. Lui sale, chiama:
“Lisa, vieni!” – non è il suo nome: è l’altra donna. Ci allontaniamo, mentre manovra. Accelera troppo, rulla poco: s’impenna d’un tratto. La risata della donna, ed il deltaplano svanisce oltre gli alberi. Gli uomini si avviano al bar, con lei. Resto, e butto giù il cartello. Poi vado anch’io alla veranda. Li trovo ad un tavolo, Luca porta le bibite. Mi invitano: siedo accanto a lei. Chiedono:
“Ha avuto un incidente di volo?” “Sono caduto col deltaplano, quello vero…”. Tornano a parlare cose loro. Lei ascolta il silenzio del cielo. Dico: “Saranno andati oltre il promontorio…” La conversazione ha come una sfasatura. Lei va alla ringhiera. Ecco tornare il ronzio: il deltaplano sfreccia vicino – ma è troppo basso.
La donna, Lisa, gesticola: “Ciaoooo!” Gli uomini si avviano alla pista. Ne approfitto per dirle: “Lei vuole volare?”
“No… Non sopporto il rumore.”
Penso una spiaggia invernale, una sola traccia di passi sulla sabbia umida.
Si avvia anche lei: piano, ad aspettare il mio passo strascicato.
Strano, non sento il ronzio… Poi vedo il deltaplano: il marito ha spento il motore, atterra in volo planato. Ci sa fare: il pellicano sembra posarsi meno goffamente. L’uomo salta giù. Ci osserva, ancora, sull’orlo di parole.
Lei dice: “Dopodomani ripartiamo”.
“Ha un solo tramonto allora, per volare.”
Accompagno l’uomo al casotto. “Quanto le devo?” “Non saprei, è la prima volta…” Mi mette sul tavolo un biglietto di quelli nuovi. Mezzo milione, come un gesto conclusivo. Gli chiedo:
“Se spegnessi il motore, quanto tempo avrei?”
Nel prezzo non aveva previsto una mia domanda. Si ferma:
“Per rientrare in volo planato?”
“No. Sul mare…”
Mi guarda. Riflette: “Dall’altezza di cento metri… un chilometro, poco più. Due, tre minuti…”
Pasquale sta partendo: “Dove hai messo il cartello?” – lo vede sul mucchio di rifiuti. Dice: “Ah, quei tuoi amici ricchi…”
“Non sono amici.”
“Ieri alla gelateria… dicono che quello che ha volato… beh, sembra che si scopa una delle donne…”
Parole, cose, perle senza filo. L’ultimo giorno lo passo a ripulire.
Voglio stancarmi. Brucio l’erba, il cartello. Sento il tramonto: mi chiama, da dietro le case. Lei non è venuta. Avranno anticipato la partenza? La villa sarà tornata silenziosa, ad accumulare foglie davanti alle porte?
Poi la vedo. Lei. Non ha parole per me. Nel decollo, i suoi capelli mi sfiorano le mani. I suoi occhi: avanti, nell’altrove. Punto in alto: a nasconderle la spiaggia, i bagagli caricati sulla Saab. Il sole apre uno slargo di luce. Non so se è mare o cielo: un varco tra nuvole, o secche che si fingono cielo. E’ il momento. Spengo il motore: il silenzio ci prende, ci sostiene – un mare invisibile.
Pensare che è sempre stato vicino, di là da un gesto così semplice.
Due minuti. Basterebbero, per le parole. Ma perché sciuparlo, il silenzio? Le cose, la mia vita, corrono ad infilarsi nel filo.
Lei mi tende la mano: un destino da meritare. Non conosco il suo nome. Un minuto. Punto il deltaplano verso la luce. Capisco la morte di Kennedy. Il suo dubbio di cieli e mari. Lo hanno trovato lontano dalla carlinga: come indeciso se nuotare o volare.
La velocità aumenta. I suoi capelli danno forma al vento. La sua mano nella mia. L’oro e il tramonto. Una collana di perle di luce. Forse sono in tempo a riaccendere il motore: tornare alle nostre vite, alla Saab, al fumo del falò – al frastuono. Ma devo, voglio capire – se quella luce è cielo o mare. Decidermi se tornare al rumore, o diventare – con lei di lei – silenzio.
II
Settembre è un pomeriggio di mare calmo. Vorrei stare sempre sulla sdraio: ascoltare le chiacchiere degli amici, lasciarmi distrarre dal rumore del deltaplano, da quel volo lento. Ma arriva il piccolo, sporco di cioccolata: devo alzarmi, ripulirlo in acqua.
Silvio mi somiglia, dicono. Armando, invece, è tutto il padre: Lisa lo porta sulla spiaggia, raccolgono i vetrini. Gli compra giocattoli, un braccialetto colorato. Ho dovuto comprarne uno identico al piccolo. “Quest’anno niente pizza?” – chiede Walter.
“Quando arriva Alberto, no?” – dicono. Michelle propone: “Facciamo un giro in deltaplano?” Walter dice: “Avete visto i piloti?
Ce n’è uno sciancato, sarà caduto…” Ridiamo. Ci divertiamo molto quando ridiamo, vicini al tramonto. Lisa ed Armando non tornano ancora. Michelle dice: “Lo accompagniamo noi, il bambino, se vuoi andare…” “Dovrebbe cenare presto, se vogliamo uscire…”
Come cambia il paesaggio al mare. Da un anno all’altro la costa sembra diversa. Il mare contagia instabilità… Che pensieri inutili: un ingombro. Dovrei disfarmene, confidarli agli amici.
Walter trova in tutto pretesti per una discussione, un’allegria.
Ora sta dicendo: “Mi costa più il posto-barca che la barca!” Ridono.
Lisa, come avesse ascoltato chissà che. Silvio va dai vicini d’ombrellone, gli offrono un panino. Gridano: “Possiamo, signora?”
Lisa dice: “E’ gente così volgare… Fossi in te…”
Essere in me. Lo ero, l’inverno di tre anni fa? Al tramonto c’era vento. Guardavo le mie orme sulla sabbia: quando il mare le copriva, una vertigine… Il dottor Lanza diceva: “Volgiti al tuo passato. Hai una storia, unica e significativa: tutti i tuoi passi ti hanno condotto ad essere chi sei.” Avesse visto il mare divorarmi passi, passati. Provai a dirlo, ad Alberto: che quel mare mi faceva male… Era appena arrivato, con Armando. Era nervoso: il cellulare non aveva linea. “Hai voluto comprarla tu questa casa!”
Provò a calmarsi – per aiutarmi: “Eri d’accordo col dottore, no? La solitudine, ritrovarti nel tuo centro… quelle cose là.” Lui, anche nelle foto, ovunque, è sempre il centro intorno a cui, gli altri, gli amici, lo aspettano; quando chiedono di lui, Lisa guarda il mare. Sa organizzare le cose, Alberto, e si diverte, nelle cose. Fa venire il sospetto che la noia sia un’incapacità, come avere perso un senso. Scelse lui Lanza: cercava un esperto, e chiamò il più costoso. Prima il dottore diceva: “L’aiuto di suo marito…” Poi prese ad accennarmi ad un distacco: “Una casa al mare… Sì, potrebbe essere l’ambiente adeguato…”
Quell’inverno arrivavano lettere. Beatrice me le portava, sperando che mi risollevassero. C’erano disegni del piccolo, foto…
O le lettere del mio amico Federico: il suo divagare – ma sempre concentrico a se stesso. Tutti hanno per centro se stessi, anche quando si divertono ad elogiarmi. Federico voleva aiutarmi. Tutti vogliono aiutarmi. Mi chiedeva di descrivergli le mie passeggiate, le sensazioni: voleva farne un racconto. Mi spedì il verso di un poeta: “Quel che vediamo delle cose, sono le cose.”
C’è una mezz’ora di pace, prima di cena. Beatrice fa la doccia ai bambini, io vado in terrazzo sulla sdraio. Il mare. Chissà cosa ha in mente, quando inventa un’onda, un’altra. Tentativi. Un’ostinazione misteriosa, ad un’impresa che non è solo quella di cambiare il paesaggio, cancellare le mie impronte. E quel ronzio di deltaplano nel cielo, alla stessa ora: una contro-onda, qualcuno che si ostina in un’impresa non meno incomprensibile. La ripetitività delle giornate, tra casa e spiaggia: le stesse cose alle stesse ore, colazione bagno pranzo riposo bagno docce terrazzo cena passeggiata amici gelato. Alberto chiama a sera: “Devo ancora fare delle cose.” Beatrice chiede al cellulare cosa preparare per cena sapendo già che deciderà lei. La vita a settembre sembra procedere per inerzia, onda dopo passo, passo dopo onda, dopo cena dopo gelato… Succedono faccio cose una dietro l’altra: perle in un filo. Non so fingere che obbediscano ad un arcano meraviglioso progetto. Lanza ha deciso che “sono da escludere ricadute.” Alberto ha pagato, come una garanzia di chilometraggio illimitato. Nel cielo, l’eco del deltaplano. Pare che si spinga sempre più in là. Scommetto che è il pilota zoppo.
Ogni sera, fa qualcosa di diverso, un passo… verso cosa?
Andiamo col motoscafo al largo. Siedo davanti, con Rodolfo: guardo le onde correrci incontro. Parliamo poco. La moglie è dietro, con Michelle e Paola: avranno tolto il reggiseno. Prima stavo con loro: guardando la scia, pensavo ai bambini a casa – i loro giochi, le cose buffe che dicevano. Sorrisi cui rinunciavo, che mai mi sarebbero tornati. E la scia: onda innaturale, imprevisto del mare. Rodolfo pensa che io voglia il silenzio. Tre anni fa lo temevo: come un’attesa – una sospensione, perché dicessi o facessi qualcosa. Ma cosa, quello che fanno tutti? mia sorella? sposarsi, fare dei figli… Ma poi giocano lontani, Armando ha risate solo con Lisa. Vorrei già la sera, sul terrazzo. Verificare quell’impressione, il deltaplano che tenta il silenzio. Era un gioco: qualcosa che si ripete senza pretendere un mio intervento, senza dover capire perché i miei passi, “far emergere, discernere”…
Quel volo mi faceva sentire parte di qualcosa, ma di lato, con un gesto poco faticoso: osservare, ascoltare. Ora mi tendo al silenzio. La ripetitività scivola impercettibilmente in qualcosa. E il sospetto che il mare abbia un piano inimmaginabile.
Anni fa consultai con Federico l’I-King. Dissi: “Questa scena la metterai in un racconto?” “Non prendermi in giro…” Sei linee, un segno. Il mio. Lui lesse: “La stoltezza giovanile”. Era imbarazzato. “Lo star fermi davanti a un abisso pericoloso è un simbolo dell’irrequieta stoltezza della gioventù. Quando la fonte sgorga, non sa, dapprima, dove andare, ma con il suo costante scorrere riempie il punto che le impedisce di progredire, ed allora arriva il successo.” Cose dopo cose, ripetitive – eppure qualcosa sta avvenendo, nel nascondimento. Acqua riempie lenta un invaso – poi, l’inondazione, la decisione. Ma cosa, fecondare d’acque? Lanza diceva: “Osserva il filo dei tuoi passi. La tua anima è nel punto preciso in cui sei.” Temo che il silenzio divori il deltaplano.
Che il moto impercettibile delle cose mi stia riconducendo alla vertigine.
Armando strilla: “Zia Lisa!” – lei lo convince. Dice: “Basta prenderlo per il verso giusto…” Ma non c’è quando non vuole dormire, al pomeriggio. Oggi vuole il braccialetto. Beatrice non lo trova. Mi tocca andare alla spiaggia, cercare sotto l’ombrellone…
C’è qualcuno sulla veranda: alzo una mano. Ma perché?
Spero non mi abbia visto. Torno a chinarmi. Poi lo vedo arrivare.
Zoppica. Dico: “Mi scusi… Non avreste qualcosa, come un setaccio…”
“Cos’ha perso?”
“Uno di quei braccialetti colorati. E’ per il bambino, non vuole dormire…” Cerca i miei occhi. S’intimidisce: si china, con la gamba tesa. Smuove la sabbia, ed eccolo, il filo colorato, il braccialetto.
“Grazie, è stato gentile…” Ha un credito di parole. Chiedo:
“Lavora al bar?” – che stupida, se lo so chi è, che fa.
“No. Sono quello del deltaplano…”
“Ah, allora è lei, che vola verso il tramonto…”-, e so che mai più osserverei dalla sdraio, tranquilla ed estranea, quella lontana voglia d’aria. Michelle mi guarderebbe sorpresa. Federico mi elogiava: “Dici sempre ciò che si deve dire, fai sempre quel che devi…” C’è un’attesa: come un abisso. Non ho che parole, per riempirlo. “L’osservo dal mio terrazzo. Ho l’impressione che ogni sera lei torni un po’ più tardi.”
“Sì, è vero.”
“Mi chiedevo…” – Un volo al tramonto, una marea sale fino al limite – “Scusi, sono indiscreta. Grazie ancora…” Il filo dei miei passi, la meta delle orme sulla sabbia non coincide più col punto in cui è la mia anima.
Basta. “Sono solo impressioni…” Pomeriggio, ancora. Lisa dice ad Armando: “Andiamo a cercare i vetrini?” Lanza diceva:
“Ci sono sensazioni naturali, istintive, come chiudere gli occhi al sole. Non deve scambiarle per verità, segni d’anima… rischi.”
Impressioni come riflessi: ne sono stanca. Federico era entusiasta di ogni connessione mentale – se le annotava. Dal bar qualcuno mi osserva, dall’ombra. Sento il deltaplano: alzo la testa. Sulla veranda, un movimento. Sorrido. E’ giovane. La sua gamba zoppa. Avrà già chiesto di me al barista. Cose. Quel che vedo delle cose sono le cose.
Silvio piange: “Voglio aspettare Armando!” Devo trascinarlo, m’innervosisco. Un silenzio, tra gli amici. Michelle mi fissa.
A casa, Beatrice dice: “Ha chiamato il dottore… Arriverà per cena.” Mancano solo tre giorni a fine mese. Non avrà portato neppure l’attrezzatura subacquea. Arriva Lisa, con Armando che piange: “Che c’è?” “Non so…” – dice lei – “Ha dei puntini sulle spalle…” Cerco di calmare Armando, riesco a guardargli il collo.
Uno sfogo, forse il sole… “Ti fa male?” Lisa intanto chiede a Beatrice, a voce bassa: “Alberto ha chiamato?” -poi- “Ah, allora stasera in pizzeria!” Dico: “Lo porto alla guardia medica…” Lisa dice: “Vado a prepararmi, se poi mangiamo fuori. Ti chiamo, per sapere, eh?”
Il cellulare suona: sul display, “Alberto”. “Cosa c’è? Perché il bambino piange?” Penso – come chiudere gli occhi al sole: “Chissà se il deltaplano stasera è andato un po’ più in là.”
Al ristorante solo Michelle chiede: “Il bambino, tutto ok?”
Alberto non sembra stanco del viaggio: racconta la città, quanta gente a lavorare, mancate solo voi, vagabondi… Lisa è ingioiellata: al “Tonnetto”, con queste tovaglie di carta. Il cameriere porta le pizze, saluta qualcuno. E’ il pilota. Solo un caso, certo: è imbarazzato, non sa se salutarmi. Taglio la pizza a Silvio. D’un tratto sento Armando piangere – è caduto: vedo il pilota che lo rialza.
Lisa dice: “Oh povero, oggi non è giornata…” – ma non si muove.
Vado. Il bambino mi affonda il viso nella gonna. “Cosa ti sei fatto? Fammi vedere!”
Alberto arriva, solleva il bambino, dice al pilota: “Grazie”. Controlla la fronte al bambino: “Non è niente” – dice, torna al tavolo.
“Grazie” – dico anch’io. No, non sono nervosa. Non sentirti obbligato a parole. Anche Federico, le sue premure, mi hanno annoiato ad un certo punto. Sei arrivato in ritardo, piccolo esploratore del tramonto. Ma soffro la delusione, di chiunque. Dico:
“Stasera è rientrato più tardi…” Alberto si volge a cercarmi. Il pilota immagina un’occasione: “Cosa voleva chiedermi, oggi pomeriggio?”
Anche lui, a rubarmi parole, a studiarmi… Guardo verso gli amici: “Chiedere cosa?” Il cameriere gli porge le pizze. Le prende:
“Niente. Buona serata.”
Il mare è un frastuono d’onde. Lisa dice: “Andiamo sul deltaplano?”
Ecco la pista, quell’assurdo cartello. Alberto contratta col pilota. Una volta Federico gli chiese di descrivergli le sensazioni del volo. “Perché? Un altro racconto? Ma vivile, insomma, le cose!” Federico rispose: “Troppo faticoso, e troppo rischioso!”
“Vieni, Lisa!” – dice Alberto. Lei prende la sua mano, finge d’essere impacciata. Il deltaplano s’impenna, svanisce. Andiamo al bar. Walter prova battute. Ma quel mare grosso, un vento che sa di autunno. Invitano il pilota: c’è una sedia, accanto a me.
“Ha avuto un incidente di volo?” “Sono caduto col deltaplano, quello vero.” Tornano a chiacchierare – del ritorno. Penso: “E se il deltaplano cadesse? In mare, lontano…”
Il pilota dice: “Saranno andati oltre il promontorio…” Provi ad inseguire i miei pensieri? Riecco il deltaplano. “Lei vuole volare?” Anche lui ci prova – con le migliori intenzioni – ad espropriarmi di me stessa. Dovrei dirgli della mia vertigine? Cosa gli farebbe piacere sentire?
“No… Non sopporto il rumore.”
Tutti a darmi pensieri loro, a costruirsi di me l’immagine che vogliono… Ne avevo bisogno, prima: mi sembrava che così qualcosa di me esistesse davvero. Il deltaplano atterra. Alberto salta giù. Penso: “Pagliaccio.” Dico al ragazzo: “Dopodomani ripartiamo.”
“Ha un solo tramonto allora, per volare.” Poi lo vedo parlare con Alberto. Dovrei forse fare qualcosa: per salvarlo dai suoi sogni, per riprendermi l’immagine di me che s’è creata? Basta, con l’assedio degli altri.
Ogni giorno finisce con un tramonto. Alberto carica i bagagli sul rimorchio. “Voglio partire presto, domattina.”
Dico: “Esco”.
“Dove vai?”
“Voglio volare anch’io.”
“T’è passata, la vertigine?”
“La porterò lassù.”
“Portati pure la ciambella. Quel tuo amico…”
“Non è mio amico.”
“Sai cosa m’ha chiesto? Vuole spegnere il motore in volo…
Perdersi nel silenzio…” – la sua risata, fino al cancello.
Non ho fretta. Non partirà senza di me. Cerco sul cellulare, lettera F. Risponde: “Sei tu! Incredibile, sono migliaia di ore, che non ci sentiamo!”
“Ciao, Federico…”
“Stamattina ho avuto una premonizione, sapevo che…”
“Lo hai scritto, poi, quel racconto sul volo?”
“No… Tu non hai…”
“Sto andando adesso. A volare su un deltaplano…”
“Davvero? Allora mi dirai tutto, sei tornata ad essere la mia musa! Ne avevo bisogno, è da troppo che non…”
“Ciao, Federico.”
Arrivo sulla pista. Eccoti, di fronte ad un falò. Non ho che il silenzio, da darti. Saprai caricarlo tu di significati. Il deltaplano decolla. I miei capelli a sfiorarti le mani. Una virata, sorvoliamo la spiaggia. Se non ora, la vertigine, mai più. Il sole crea un lago di luce. Strano, non so se sia mare o cielo. Spegni il motore. E’ questo, il tuo silenzio? Guardo in avanti. Una sensazione di assoluta indifferenza e tranquillità. Nessuna reazione fisica, né vertigine.
Come se volare fosse la cosa più naturale del mondo. Ma non ti basta. Hai bisogno di simboli e disastri – di puntare verso la luce… La velocità aumenta… Ti tendo la mano. La prendi.
Sento il tuo nervosismo. Dovrei provare a calmarti?
Penso il futuro. Se riuscissi a convincerti a tornare, so che ripenserai spesso a questo volo. Sarà il tuo segreto: forse una consolazione, o un rimpianto. Il momento in cui hai sfiorato una rivelazione. Ma Federico infine s’è stancato, di me e poesia e sensazioni. Ora ha tre figli, ha aperto un ristorante e non scrive più. Verrà lo stesso domani anche per te. Quando sentirai il bisogno di raccontarla agli amici, la favola della bella ricca signora annoiata depressa tradita dal marito, che ha voluto giocare la vita con te… Raccontarla per disfartene. C’è una grande luce là davanti: non distinguo se è cielo o mare. Mare e cielo sono cose.
Quel che vediamo delle cose sono le cose. Mi chiedo cosa sia possibile inventarsi ancora, per un ennesimo ritorno. Per tornare alla linea scura della costa, alle sue lucciole. Ad altre cose che sono cose anch’esse.