Signora Maddalena_Margherita Brachi, Prato
_Racconto finalista ottava edizione Premio Energheia 2002.
Erano circa le sette del mattino, nell’inverno passato, mancava poco a Natale. Non voglio nemmeno ricordare la data con precisione, preferisco pensare che sia successo in un giorno che non esiste più perché ritrovarlo ogni anno, sul calendario mi farebbe troppo male.
I vicini sentirono un tonfo sordo, qualcuno parlò di uno sparo, altri di un tuono.
Dopo pochi minuti si udirono grida disperate, acute, incredule e, chi poté, corse giù nella strada.
“La Signora Maddalena?” “Volete scherzare?”
“Proprio lei!” “Non è possibile…!”
“Ma perché… perché?” “Gettarsi dal balcone… a quest’ora…”
La dirimpettaia insinuò: “Il marito! Lo dicevo, io, che aveva una relazione…!” ma tutti la guardarono male perché era risaputo che fosse una pettegola e poi… in un momento come questo!
“Ma come si fa a lasciare tre figli piccoli?!”
“Egoista… pazza!” “Sì, deve essere proprio impazzita, non c’è altra spiegazione.”
Arrivò l’ambulanza, i vicini si scostarono quel tanto da permettere ai militi di caricare il corpo coperto da un lenzuolo, senza segni di vita. Si fecero il segno della croce e spiarono l’espressione del marito che salì anche lui nel furgone sorridendo a tutti, come inebetito.
Dei figli nessuna traccia; si vide, solo per un attimo, la maggiore, Vittoria, chiudere in fretta la porta e chi la osservò riferì che aveva del sangue sul volto sfinito e sulle mani.
La Signora Maddalena rimase in osservazione solo poche ore, su uno squallido tavolaccio di marmo, che non si addiceva a colei che era stata una donna bella, raffinata ed elegante. Infatti, il marito aveva acconsentito all’espianto ma, a causa della grave compromissione di tutti gli organi offesi per la violenza della caduta, poterono prelevare solo le cornee di quelli che erano stati occhi azzurri, bellissimi, e le valvole cardiache di un cuore che aveva tanto palpitato.
Il funerale avvenne nella chiesa parrocchiale, gremita fino all’inverosimile, ma, nonostante che i vicini si sforzassero di guardare in tutte le direzioni, nessuno vide il marito né i figli.
“Ingrati! Non sono venuti a renderle l’ultimo saluto!”
“E pensare che, forse, se si é uccisa è perché erano stati loro a farla andare in depressione!”
“Proprio così! Quel marito… così strano… mezzo matto! E’ vero che non lavorava più e che lei doveva mantenerlo?”
“No, no, ve lo dico io. Il colpo di grazia glielo ha dato la figlia, la seconda, Aurora. Da quando era diventata anoressica, la Signora Maddalena non era più la stessa.”
“Anoressica…! Troppo buona era, la Signora Maddalena! Fosse stata figlia mia…! Tanti schiaffi, sapete! Non vuoi mangiare? E prenditi questi schiaffi, allora!”
“Eppure Maddalena avrebbe dovuto sapere come fare. Era una dottoressa, è vero? Chissà quanti casi aveva trattato come quello di sua figlia.”
“Eh, ma quando si tratta dei figli nostri…”
“Forse proprio perché sapeva che cosa vuol dire, proprio per quello non ce l’ha fatta.”
La dirimpettaia insisteva sempre: “Non c’entra nulla la figlia.
Vi dico che era per colpa del marito. Sapeste quante volte li avevo sentiti litigare! Avete visto come le guarda, lui, le donne?”
“E la maggiore, poverina, la più brava, la più sacrificata…!”
“Però anche lei la faceva arrabbiare tanto. Non aveva voglia di studiare, era stata anche bocciata, un anno. E poi si era fidanzata con uno sbandatello, senza diploma né soldi in tasca!”
“Sì, va bene. Ma ammazzarsi…!”
“E lasciare il ragazzo, l’ultimo! Ha solo tredici anni! Povero Michelangelo!”
La Signora Maddalena fu murata nella cappella della sua famiglia, dove erano già sepolti il padre, la madre e il fratello, alla presenza solamente della dirimpettaia, che non l’aveva mai amata, e di altre due vicine di casa che, finita la funzione, pensarono bene di portarsi a casa un po’ di fiori delle corone più belle tanto, a lasciarli lì, sarebbero morti subito, con quel freddo.
Nella grande casa che, senza la sua padrona, sembrava vuota e silenziosa, la vita riprese con dei ritmi diversi per ciascun abitante, come se ognuno cercasse di organizzarsi come meglio poteva.
Vittoria, la figlia maggiore, aveva circa diciannove anni; Aurora, la seconda, era nata dopo appena diciotto mesi mentre il ragazzo, Michelangelo, compiva tredici anni il mese successivo. Vittoria, Aurora, Michelangelo… A Maddalena erano sempre piaciuti i nomi importanti e questa sua predilezione era sempre stata un motivo di scontro con suo marito, ad ogni nascita. Era lei che aveva voluto imporsi e imporre un nome che fosse di buon augurio e importante come il destino che si aspettava per ciascuno di loro.
Nessuno toccò nulla delle cose personali di Maddalena; i vestiti restarono negli armadi come se la Signora dovesse indossarli da un momento all’altro, le scarpe nella scarpiera e perfino, la sua spazzola da capelli, rimase nel bagno in bella vista, dove la teneva lei.
Il marito allineò esposte sul cassettone del soggiorno tutte le foto di Maddalena incorniciate a dovere che la mostravano nel giorno del fidanzamento, in quello della laurea, del matrimonio, della nascita dei tre figli. Sempre bella, sorridente, con quella bocca carnosa, gli occhi azzurri, i lunghi capelli biondi.
Nessuno in casa la rammentava mai e tantomeno si parlava del suo gesto.
All’indomani della morte, il marito aveva detto ai figli:“Ragazzi, la mattina dell’incidente vostra madre si era alzata particolarmente presto. Voleva pulire i vetri della finestra dell’ultimo piano, quella che dà sul cortile di dietro. E’ salita sul davanzale, era ancora buio, si è sporta troppo e… è caduta!”
Questa, per lui, fu la versione ufficiale e così la comunicò anche ai figli i quali non ci credettero ma non fecero domande.
Il giorno dell’anniversario della morte, non avendo la Signora Maddalena alcun parente prossimo, le sue amiche e colleghe organizzarono una messa nella chiesa della parrocchia a cui assistettero anche molti dei vicini i quali notarono subito l’assenza del marito e dei figli.
Dopo la messa alcune signore si recarono al cimitero a vedere dove era stata sepolta.
La cappella era semiaperta, la polvere copriva l’altare disadorno e in terra si erano accumulate foglie secche portate dal vento.
“Povera Signora Maddalena! Neanche un fiore! Lei, così luminosa in vita, così buona…”
“Ve lo dicevo, io? Non ci sono mai venuti, qui. Si vede dall’abbandono.”
“Vanno capiti. Sono risentiti nei confronti di lei, forse non le perdonano quello che ha fatto.”
“Ma è la loro madre! E che madre è stata! Quanto li ha amati!”
“E allora? Io ho visto una trasmissione in televisione, dove parlavano proprio di questo, del rancore che nasce contro chi ci ha abbandonato.”
“Ma se si è uccisa, vuol dire che stava male, no? Vuol dire che non ce la faceva proprio più altrimenti come avrebbe potuto pensare di lasciare quei figli tanto amati?”
“Via, mettiamoci a pulire un po’. Meno male che ci siamo venute noi. A lei piaceva tanto la pulizia, l’ordine…”
Con il tempo, mentre il marito viveva in una specie di letargo, poco comprensibile per chiunque, i tre figli crescevano e non solo anagraficamente.
Vittoria, la maggiore, si era iscritta all’Università, studiava con profitto e continuava a frequentare lo stesso ragazzo di prima.
Apparentemente sembrava tranquilla; in realtà sentiva su di se’ un peso più grande di lei quando pensava a quella casa da mandare avanti e a quei fratelli, a cui era teneramente affezionata.
La seconda, Aurora, alla vigilia dell’esame di maturità si era messa d’impegno e non sembrava più la ragazza svagata di una volta. Tutte e due coccolavano molto Michelangelo che cresceva sereno e sempre più bello. In quest’ultimo anno si era alzato incredibilmente, come fanno i ragazzi a quell’età, forse anche troppo, tanto che, magro com’era, correva il rischio di incurvarsi nelle spalle.
La solita dirimpettaia commentava così nei vari negozi dell’isolato:
“Avete visto? Ora hanno messo giudizio, son diventati tutti maturi. E quanta pena le hanno dato quando era viva! La prima non studiava mai… che croce, per lei, ambiziosa, laureata. E la seconda! Anoressica! Peggior disgrazia non poteva capitare a un genitore. E ora? Avete visto com’è diventata grassa? Mangerebbe anche i sassi! La vedo tutti i giorni, sapete, che esce dal fornaio con certi vassoi di pizza…!”
Un giorno in cui Vittoria era sola in casa, le venne voglia di rivedere le fotografie di quando era piccola, di lei sola, prima che nascessero i fratelli.
Sapeva che la madre le teneva nei cassetti di uno scrittoio nella camera dove, in maniera quasi maniacale, aveva catalogato in piccoli album le immagini scattate ad ogni scadenza, ad ogni evento significativo della vita dei suoi ragazzi.
Nessuno, dopo la sua morte, aveva mai frugato nelle sue cose. Così come per i vestiti e gli oggetti personali, pur non parlando mai di lei, tutti e quattro avevano stabilito quel tacito accordo di non manomettere niente di quel che le era appartenuto.
Le foto stavano nei cassetti lungo la fiancata destra. A sinistra c’era un unico piccolo scaffale che si apriva con un piano nel mobile. Vittoria lo aprì. C’era una scatola di legno molto bella, decorata a fiori. Ma sì, gliela aveva regalata lei, o meglio, era il lavoro che avevano fatto durante l’anno scolastico alle Medie, nel laboratorio di Tecnica. Com’era precisa a quei tempi. Com’era stata brava a rifinirla in un modo così minuzioso.
L’aprì. Sopra una busta chiusa c’era un articolo di giornale accuratamente piegato.
Lesse il titolo a caratteri cubitali: “GIOVANE SOMALA MUORE INVESTITA DA UN PIRATA DELLA STRADA.”
E più sotto: “Mahliet era giunta in Italia da pochi mesi per cercare una vita migliore ed ha trovato invece la morte sul ciglio di una strada buia. E’ spirata senza alcun conforto, durante il percorso in ambulanza verso l’ospedale. Da quanto tempo era in coma? L’automobilista si è dileguato senza prestare soccorso e non ci sono testimoni oculari dell’incidente. In novembre, alle sette di sera, sotto un furioso temporale, non circolava nessuno nella stradetta di periferia, dove sorgono solo poche case isolate.
La Polizia ha aperto un’inchiesta.”
Aprì la busta. La calligrafia di Maddalena era inimitabile, elegante, minuta, precisa.
“Figli adorati, marito caro, ho tenuto, quasi per un anno, questo terribile segreto e ora, non ce la faccio più. Più! Pirata della strada… Sapeste com’è difficile decidere in quei momenti. Ti ronza tutto nella testa, non vedi più nulla, il cuore ti scoppia. Non l’avevo veduta. Avevo fretta, pensavo a quante cose avrei dovuto fare l’indomani, alzarmi presto, preparare la relazione… Ho sentito solo il colpo, un colpo tremendo. Sono scesa. Non c’erano segni sulla carrozzeria. Ero sicura che fosse già morta, un fagotto di stracci sotto la pioggia.
E’ difficile, troppo difficile decidere in quei momenti. E dopo? Ancora di più, forse.
Pensavo: fuggo, devo fuggire, lo faccio per i miei figli, hanno troppo bisogno di me, non sopporterebbero questa notizia. Il giornale… la polizia… il processo… Sono fuggita.
Arrivata a casa, nessuno di voi si è accorto di niente. Non è una colpa ma siamo tutti egoisti; pensiamo per noi, a mangiare, a telefonare, a guardare la televisione. Preferiamo distogliere gli occhi se negli occhi di chi ci sta vicino, intravediamo l’angoscia. Figli, marito. Io ho cessato di vivere in quel momento.
Tu, marito mio, ritroverai certo un’altra donna. Voi, figli miei, no, non ritroverete nessuno che vi amerà così. La vostra mamma vi ha tradito. Ma dopo quella sera io sono diventata anche la mamma di lei e io l’ho uccisa e ora, con la mia morte, io uccido anche voi.
Come potevo guardarvi negli occhi, carezzarvi i capelli, sorridere delle vostre gioie se io avevo privato di tutte queste cose quell’altra figlia, che era diventata mia?
Tra poco morirò.
Ho voluto rivedere tutte le vostre foto, i momenti più belli che abbiamo passato insieme.
I vostri volti accigliati, sorridenti, buoni, cattivi. Devo aprirmi, devo farmi grande dentro per accogliere tutti i vostri ricordi, per portarli con me. Tutti, tutti, non ne voglio lasciare nessuno.
Mi turbinano nella mente, sembra una tempesta. Una tempesta… Come quella sera…!
Ma con uno, uno solo mi accomiaterò da voi. Quale? Eccolo, un ricordo. Non è il più importante ma non mi vuol lasciare; lo respingo per cercarne uno, ancora più significativo ma quello torna alla carica. Ebbene, sarai tu il mio ultimo compagno.
Quando in estate andavamo al mare, a pochi chilometri dalla cittadina in cui vi portavo sempre, la strada saliva ripidamente ed entrava nella strettoia formata da due alte colline. La luce si attenuava, diventava grigia e spenta ma, alla fine del cunicolo, come al di là di un varco, si vedeva uno squarcio luminoso con il sole che, imponente, splendeva nel cielo.
Ogni anno, immancabilmente, come un rito alla fine del lungo viaggio, mi giravo verso di voi e vi dicevo: “Bambini, guardate, ci siamo. Di là c’è il mare.” E i vostri volti s’illuminavano di gioia, come quel sole; vi scompariva d’incanto la stanchezza e gridavate: “Il mare! Il mare! Mamma, mamma, che bello! Ti vogliamo bene, mamma! Il mare!”
Perdonate la vostra mamma che non potrà più portarvi al mare.