Buenas diàs Senor Blumm_Anna Rita Chietera, Matera
_Racconto vincitore decima edizione Premio Energheia 2004.
“Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia.”
(Alessandro Manzoni)
Il cielo limpido neppure si vedeva in quel vicolo buio, anonimo, forse omesso per decenza dalla cartina della città, quella stampata sulle prime pagine della guida telefonica.
Bambini seminudi si rincorrevano per le strade luride, scontrando la gente, piccoli pezzi di colore schizzati via da un fiore, dopo l’impatto con un meteorite impazzito. E non una sola minaccia volta a quelle pesti senza ritegno; solo grida di spavento o sgargianti. “Hola!” ad accompagnare le scorribande dei piccoli selvaggi.
Poi le donne avvolte nei gialli del sole, pennellate del rosso più caldo, di azzurri intensi ed aranci polposi, sempre accondiscendenti qualora si trattasse di sfoderare i sorrisi belli, dischiusi attraverso una fenditura rosata nel mezzo di una goccia d’ambra. E gli occhi… gli occhi non avevan bisogno della bocca, perché sorridevano da sé, dolcemente scuri e malati di una malinconia inguaribile.
Gli uomini, forgiati dall’acciaio puro, ai bordi delle strade in gruppi più o meno folti, le chiamavano e ronzavano intorno a quelle che per avvenenza si distinguevano tra le altre, giocando ad intimidirle in quell’assurdo, caotico mercato.
Frutta, pane, verdura, vestiti usati, oggetti rubati, incensi, profumi, odori pestilenziali, cibo, spazzatura, bellezza, bruttezza… tutto e niente. Questo era il quartiere latino di giorno, quando il pericolo si nascondeva da qualche parte, chissà dove, mentre con i suoi occhi registrava ogni cosa, pronto ad irrompere ferocemente, nei momenti più inaspettati.
I savi preferivano girare alla larga da posti come quello, in cui può accadere di tutto e ci si ritrova, innocenti, a morire nel bel mezzo di una sparatoria, solo perché il sicario ha mancato Raul di un soffio.
Una donna gli sorrise:
– Buenas dìas, señor Blumm!
Voltato l’angolo verso la strada principale, illuminata d’insegne e fari che occhieggiavano nel buio, si dirigeva spedito verso l’ingresso della Metropolitana.
La stazione era affollatissima. Col passo fermo e quella dignità da falco, camminava inesorabile come un carro armato, senza mai guardarsi intorno.
Teneva il manico della sua ventiquattrore stretto nel pugno, estremità di quel braccio perfettamente disteso sotto l’impermeabile color cammello.
– Sono Nara Marcovich!
Si presentò improvvisamente, arrestando la sua indomita falcata, una giovane donna, convinta che quel nome dovesse suonare noto alle orecchie del suo interlocutore.
– Mi scusi, non riesco a ricordare…
Nara abbassò lo sguardo. Poi, un po’ delusa ed intimidita, cercò di prendere coraggio.
– Beh, lavoro nell’ufficio accanto al suo, la saluto tutti i giorni, avevo pensato che non l’avrei infastidita azzardando lo stesso atteggiamento anche fuori le mura del giornale.
Mihàly sentì una vampata d’imbarazzo ardergli il viso.
Ebbe solo un secondo di esitazione, giusto il tempo di ricomporsi e trovare le parole giuste, cosa che in realtà non gli era mai stata troppo difficile.
– Devo confessarle che ormai, per me, entrare in redazione significa inevitabilmente dover salutare una serie di persone, ma in realtà, in quel momento, sono già proiettato nel mio lavoro.
Affatto rinfrancata, Nara ritornò alla sua consueta verve, bandendo ogni imbarazzo iniziale.
– Le dirò che passare inosservata, qualunque sia la ragione, non è certamente edificante per qualsiasi donna, ma non sono il tipo da offendersi per questo genere di cose. D’altronde m’hanno detto che lei… -, Mihàly, accigliato, la interruppe immediatamente – Impari a non fidarsi mai di quello che si dice in giro. È la prima regola per un giornalista. Deve sempre accertarsi dell’affidabilità delle notizie, altrimenti non potrà che fornire un’informazione distorta. Questo lavoro ha il privilegio di rendere un servizio alla società. Non tradisca la gente più di quanto non faccia naturalmente il semplice corso degli eventi.
La ragazza ascoltava fuori di sé dallo stupore, ma quando lui ebbe terminato, riuscì solo a ringraziarlo per la lezione, salutare garbatamente, voltare le spalle ed andar via. Mihàly restò un attimo fermo sul posto, scosse la testa per darsi una scrollata e continuò nella sua inarrestabile avanzata verso casa.
Avvicinatosi al cancello di una delle villette nella zona residenziale, lasciò scorrere la tessera magnetica nel dispositivo di lettura e, tra rumori lenti di ferraglia, gli si aprì l’accesso.
Una mano nella tasca dell’impermeabile frugava alla ricerca della chiave di casa: all’inconfondibile tintinnio seguì il suo luccicare sotto la luce del lampione che illuminava il vialetto. Mihàly la infilò nella toppa ed entrò. Lasciò che la porta si chiudesse dietro di sé. Adesso era a casa, finalmente inebriato da quel calore di suoni familiari.
Detlef, suo fratello, gli passò davanti in una folata, trovando anche il tempo di dargli una pacca sulla spalla. Lui gli sorrise e percorse il corridoio, per poi svoltare verso la cucina.
Tra i dolci tintinnii delle stoviglie, l’immancabile TV abbandonata al suo triste soliloquio ed il calore della conversazione, la famiglia Blumm riunita per la cena lasciava che quella finestra spiasse con il suo occhio giallo la via dei Salici.
Ad un tratto la luce si spense concedendo spazio ai lampi azzurri del televisore, finché la notte non si fece densa e silenziosa, confondendo nell’oscurità senza nome anche quell’ultimo bagliore.
L’indomani mattina i passi del giovane giornalista, al suo ingresso in redazione, furono accompagnati da un brusio ancestrale. L’aria si fece di colpo pesante, gli occhi persero la loro espressione profonda e si fecero vitrei, mentre sulle guance roventi cadevano gelide gocce di sudore, scosse da brevi ed intensi brividi che correvano lungo la schiena, fino a scuotere ogni cellula del suo corpo.
Il corridoio infinito lo condusse a stento davanti alla porta del suo ufficio, di un candore abbagliante. Gli occhi stretti in due fessure arricciate, le gambe malsicure schiacciate dal suo stesso peso, Mihàly si aggrappò alla maniglia con le residue, sue forze, insistendovi come un corpo morto. La porta si aprì con una tale violenza da scaraventarlo pesantemente in avanti.
Quello sguardo che cercava, almeno lui, di alzarsi, rimase sospeso all’altezza degli occhi immobili, che fino a quel momento avevano goduto del privilegio dell’invisibilità. Il suo ufficio bianco, pochi mobili ed un ordine impeccabile era lì, sempre lo stesso.
– Com’è possibile?
Alla scrivania, un volto sinistramente noto restava algido, quasi bidimensionale, stampato sulla parete senza macchia.
Le labbra semichiuse, lo sguardo stanco da miope, cercava di scavare nella sua giovane memoria di giornalista in cerca di quei lineamenti così spietatamente dolci da apparire duri all’inverosimile. Eppure quel mezzo busto da sfinge affrescato sul muro aveva conosciuto un tempo ombre e spessore, era appartenuto ad una graziosa marionetta senza fili, intravista sporgersi da chissà quale palco di teatrino per bambini. Ma Mihàly avrà avuto la mente occupata dai suoi pensieri, in quel momento, qualsiasi esso sia stato, in un’altra vita, l’anno passato, una settimana fa, o soltanto ieri, in metropolitana… l’inoffensiva Nara Marcovich, giovane stagista in cerca di autore.
Mentre lei ancora affiorava dalla sua mente in un campo di lavanda, timido ricordo della sera precedente, lui la salutò, tradendo un’immensa meraviglia e le chiese con garbo come avesse fatto ad entrare.
La donna così sicura di sé da sembrare un’altra, lentamente schiodò i suoi colori dalla parete immobile e, prima che riuscisse a parlare, si riconsegnò alla tridimensionalità degli dei accigliati nel loro piglio inflessibilmente autoritario, gli unici profondi conoscitori dell’ineluttabilità dei fatti.
– Mi stupisce che lei non sia stato informato dei cambiamenti.
Rispose con sufficienza e non aggiunse altro, interrotta dall’improvvisazione di un attore consumato, dispensato dai lacci di un testo drammatico così rigido, in ragione di quel talento sovrumano di cui era consapevolmente dotato. Karl Trier, uomo alto ed imponente dalla candida barba e la folta chioma canuta, con identica spietatezza rispetto a quel Giove che tanto ricordava nell’aspetto, scagliò in quel momento una terribile saetta, in direzione della vittima inerte.
– Lei non lavora più qui.
Affermò Karl Trier.
– Forse che io abbia un altro ufficio, adesso?
– No, lo colpì a morte l’altro – ma per il momento vieni nel mio.
Karl fece strada e la porta si schiuse dietro di loro. Si sedettero. Erano l’uno di fronte all’altro, separati dalla scrivania intagliata di legno massiccio. Giove troneggiava dall’altra parte sulla sedia più alta, quella con i poggia braccia, finemente lavorati, dei quali copriva con una mano l’estremità che ricordava la zampa di un leone. Mihàly era la gazzella e sapeva che di lì a poco sarebbe stato inghiottito dalle fauci del più forte.
Era alle strette. Non aveva più spazio per tentare la fuga.
In poche, durissime parole il dottor Trier lo informò di essere stato licenziato.
– Domani va’ in giro a trovarti un altro lavoro. Una cosa è certa: tu, qui non puoi più lavorare.
– Ma in cosa ho mancato?
Chiese l’altro.
– Mi meraviglia che tu possa chiedere quello che nessuno meglio di te dovrebbe sapere. Hai rubato un intero reportage ad una stagista. Un lavoro di paternità altra sul quale hai avuto il coraggio di porre la tua firma, operando opportuni stravolgimenti.
– Quale reportage?
Chiese.
– Quello sui disordini nel Quartiere Latino, naturalmente.
Rispose l’altro.
Mihàly stava lavorando da mesi a quel pezzo, scoprendo per altro salienti retroscena. Tuttavia, stando alle spiegazioni che gli furono fornite da Trier, la giovane stagista Nara Marcovich, oltre ad essere la vera autrice del reportage, era venuta a conoscenza di un fatto assolutamente insospettabile: il promettente giornalista Mihàly Blumm era legato alle alte sfere della criminalità organizzata che, come noto, operava nel quartiere più degradato e problematico della città. Comperando la complicità degli abitanti riusciva a sotterrare le realtà scomode dei traffici illegali, cercando di scagionare i suoi complici agli occhi dell’opinione pubblica.
– Ma non è vero! – Protestò Mihàly.
– Certo -, annuì sbuffando Trier – non mi aspetto mica che tu ammetta candidamente di essere un criminale! – In effetti, le prove erano schiaccianti: Nara Marcovich aveva svolto un encomiabile lavoro di manomissione, rovesciando i ruoli nel gioco delle parti.
Mentre i suoi occhi attoniti morivano alla vista di quei capi d’accusa infamanti, la porta chiusa lasciava filtrare rumori di passi ed un convulso vociare. Il leone e la gazzella
si guardarono negli occhi e Mihàly lesse la sua fine nelle pupille dell’altro.
Il silenzio fu solo un attimo. Poi si sentirono le nocche di un pugno colpire con decisione la porta. Non attesero alcun consenso per irrompere: entrarono quattro uomini, un paio in uniforme e gli altri in borghese, ma con le pistole in vista.
Pronunciarono solennemente il suo nome – Mihàly Blumm! – ed aggiunsero – Lei è in arresto -.
Il ragazzo, frastornato, non oppose resistenza. Ormai era tutto finito.
Le sirene, il viaggio in quell’auto che schizzava via veloce come il proiettile che gli aveva trafitto l’anima, le immagini della città che scappava dai suoi occhi e che correvano rapide e confuse, le sue iridi che cercavano di seguirle in un isterico andirivieni: tutto questo apparteneva ad un altro uomo, di cui egli stesso non conosceva la storia. Appartenevano allo stesso uomo il quale non poté far altro che buttarsi a peso morto sul materasso, disteso sulla branda cigolante e chiudere gli occhi, sperando di riaprirli nel suo letto, madido di sudore a causa dello spavento: aveva sognato di essere finito nientemeno che in carcere.
Un rumore di chiavi e serrature arrugginite lo ritrovarono fermo, in piedi di fronte alla porta di casa, mentre cercava le sue, frugando nella tasca dell’impermeabile. Il tempo di trovarle e sarebbe entrato, come ogni sera, come ogni volta che lo aveva desiderato. Ma no, non era lo stesso tintinnio gentile di cucchiaino contro la tazzina di caffè; era un rumore che aveva certo più familiarità con le scene dei film in seconda serata, che con la sua vita di brillante trentenne in carriera.
Aprì gli occhi: si ritrovò seduto su quello stesso letto, maledetto letto, vittima di un incubo troppo reale per non essere vero.
Entrò la guardia.
– Ci sono visite per lei -, disse.
Mihàly si alzò obbediente, curvo, come invecchiato nel giro di poche ore e, così trascinandosi, si presentò a suo fratello, che poteva osservarlo in tutta la sua miseria attraverso un vetro.
Detlef era altrettanto incredulo: quella persona che aveva davanti, legalista e meticolosa, trasparente, silenziosa, aveva sempre vissuto ai suoi occhi una vita di un ordine esemplare.
Era subdolo ed opprimente e doveva combattere con questo tarlo odioso: stava dubitando di quella persona che conosceva meglio di chiunque altro e sulla cui innocenza avrebbe dovuto poter garantire con certezza assoluta.
In quel momento, mentre aspettava che suo fratello si sedesse, a fissare quel vetro in parlatorio c’era Caino, c’era Mosè, c’era Giuda Iscariota: il suo dubbio era una macchia che gli sporcava indelebilmente la coscienza.
Fissò l’altro che arrancava verso la sedia e gli parve non più padrone neanche del proprio corpo. Gli arti avevano perso elasticità ed i movimenti sincronia.
Come per un cedimento delle ginocchia, Mihàly si accasciò sulla sedia, fissando un punto oltre la sagoma di Detlef. Così imbambolato, cominciò a muovere le labbra, quasi senza aprire la bocca.
– Non parli -, disse – lo so, deve essere difficile avere il coraggio di chiedere. Siamo diversi, Detlef, ma non sono meno buono di te, fratello. Se puoi, credimi e questo è tutto quello che potrai fare per me. Detlef, sono finito, finirò qui dentro…
Doveva respirare e scegliere bene le parole. Prese coraggio.
– Mi stai chiedendo di credere alla tua innocenza… io posso farlo, perché sono tuo fratello, ma devi spiegarmi come fare a convincere tutti gli altri. Sarò sincero: è difficile anche per me, ma ti conosco ed è questa l’unica garanzia.
– Detlef -, disse Mihàly – hanno dato scacco matto al re e la partita è ormai persa. Non pensavo potesse essere così pericoloso quando ho iniziato questa indagine. Speravo di poter far risorgere quella comunità, speravo di poter regalare un futuro migliore a quei bambini e mi sembrava di esserci andato vicino, ma mi hanno tradito tutti, perché come gli altri pensano che la salvezza sia sempre nelle mani del più forte. Non è colpa loro: sono stati educati a questo genere di pensieri. Li hanno ricattati, capisci? Ed hanno dichiarato il falso.
Detlef non capiva, era come un delirio.
– Allora posso aiutarti? -, chiese finalmente.
– No -, rispose l’altro – ma c’è una donna che avrebbe perlomeno dovuto accompagnarmi a braccetto qui in prigione.
Si chiama Nara Marcovich. Ieri sera è stata pronunciata la sentenza prima che tornassi a casa. Ti sembrerà strano, ma non ci ho fatto caso.
– Mihàly! -, lo incitò – devi dirmi chi è!
Detlef lo guardava con uno sguardo pieno di rabbia e di speranza. – Chi è? -, chiese la sua voce rabbiosa e determinata.
– E che ne so io? È piombata improvvisamente nella mia vita. È quella che si spaccia per l’autrice del pezzo e adesso lavora al posto mio. Nel mio ufficio, capisci?
I due erano persi l’uno nella rabbia dell’altro. Detlef non disse più nulla. Si alzò con uno scatto deciso, voltò le spalle in una piroetta isterica ed andò via.
Guidò per tutta la sera con la testa immersa in altri pensieri.
La sua mente era come fuori dal corpo, non gli apparteneva più. Pensava, pensava alle parole di suo fratello, a quella donna: un fantasma. Subito dopo aver lasciato Mihàly si era precipitato al giornale. L’aveva cercata, aveva chiesto informazioni ai colleghi di suo fratello, aveva urlato il suo nome nei corridoi come un folle. Qualcuno ne era venuto a conoscenza conseguentemente allo scandalo, ma l’impressione era che questa donna si fosse insinuata come la serpe tra le fronde dell’albero del Bene e del Male. – Dov’è adesso Nara Marcovich? Chi è? – Si chiedeva Detlef al volante di quell’auto impazzita che, quasi a dispetto della sua volontà, andava dirigendosi verso casa.
L’ampio raggio di quel tornante che precedeva il lungo rettifilo, ultimo fazzoletto di strada a dividerlo dalla sua abitazione, non gli permise di rendersene conto prima di vederlo con i propri occhi. Le fiamme erano state ormai sedate da qualche ora e della sua casa non era rimasta che la cenere degli occhi di suo padre, seduto su un muricciolo, vuoti e fissi sul selciato. Quell’odore di bruciato era acre come il sapore della vita, quando incatena gli innocenti nell’abisso della disgrazia. Detlef chiuse gli occhi prima di volersi domandare dove fosse sua madre; si vide fluttuare nell’acqua di un mare sconosciuto, i suoi capelli si fondevano leggeri a quel blu profondo. Si inabissava trascinato da due enormi pesi che gli pendevano dalle caviglie secche. Sopra il corpo di quella medusa umanoide, una distesa di bolle saliva verso la superficie. Il suo sguardo le seguì, i pesi si sganciarono di colpo precipitando verso il fondo, mentre il corpo di quel tritone senza volontà si riconsegnava alla superficie. Aprì gli occhi, il vento gli smosse le ciglia ancora umide, reduci dall’immersione e, tra quelle tende impiastricciate di salsedine si specchiò il viso nerofumo di sua madre. L’abbracciò. – È viva, è qui! – pensò Detlef e poi cadde in ginocchio ai suoi piedi. Pianse non seppe mai per quanto tempo; pianse come la pioggia cade d’inverno, come la rugiada dalle foglie, come l’acqua dalle rupi vertiginose.
Aveva ragione Mihàly, con quella sua rassegnazione che gli aveva fatto tanta rabbia. Era evidente che l’incursione pomeridiana al giornale aveva armato un incendiario. Non c’erano più prove, né valeva la pena cercarne.
Era necessario parlare a Mihàly, raccontargli di quell’ennesima disgrazia; probabilmente solo lui poteva porre rimedio a quell’ondata di violenza, scagliatasi contro la sua famiglia.
Adesso era buio, non un posto dove dormire e la morte nel cuore, ognuno cercava a suo modo di emergere dal dolore, ma il pensiero ricorrente restava Mihàly, il futuro, la mattina di domani. Solo lui possedeva la chiave deputata a chiudere la tragica porta, mantenuta aperta sull’intera famiglia da una corrente ostinata.
Finalmente iniziava ad albeggiare il sole della salvezza, un sole nero, come l’angelo delle lacrime, un sole con il volto di Mihàly Blumm. Era ora di andare. Detlef avrebbe parlato a suo fratello come mai prima di allora.
Salì sulla sua auto con gesti lenti, quasi a scacciare il tempo. La strada si stirava sotto gli pneumatici bollenti, snodandosi come un nastro di velluto nero tra gli edifici pieni di cordoglio.
La cella silenziosa aspettava paziente la ricognizione della guardia che incombeva, preceduta dallo scampanellio di chiavi. Il solito berretto si affacciò tra le grate, ma lo sguardo veloce si era fermato come mai prima di allora: atterrito.
Penzolava dall’alto il corpo del recluso scalzo. Una sedia rovesciata piangeva ai suoi piedi.
Detlef era in sala d’attesa, serio, ripetendo mentalmente i punti salienti di quel colloquio, al termine del quale, tutto sarebbe stato più chiaro. Entrò una pattuglia di poliziotti nella stanza, con aria solenne, qualcuno portò un bicchier d’acqua. Mihàly era morto.
Detlef aveva voglia di urlare, ma il buon senso glielo aveva proibito. Allora si chiuse nella camera buia dei suoi ricordi e pensò a quando, da piccoli, suo fratello sventolava l’ascia della morte, avvolto nella veste nera da incappucciato, troppo larga per quel bambino così ossuto. Era carnevale e la mamma aveva confezionato due costumi per il mostruoso scheletro ed il Signore delle Tenebre. La storia ritornava sui suoi passi e ritrovava i due fratelli camuffati sotto le stesse vesti di allora: l’uno, morto e l’altro, ridotto l’ombra di se stesso.
Detlef pensava al momento fatale, testimone degli ultimi aliti di vita di Mihàly. Forse alla sua mente avevano bussato gli stessi ricordi, mentre un altro oscuro signore sventolava la sua ascia di boia. Questa volta non era stato un gioco e la Morte gli aveva davvero chiuso le palpebre con gesto morbido e svelto. Una sedia era caduta al suolo. Un tonfo. Poi il suono si è spento, mentre la natura tutta ammutoliva. Solo un fischio leggero doveva avergli penetrato le orecchie, gli occhi forse percepivano solo l’impressione delle cose. Piano, piano tutto era sfumato in un chiarore immenso, così denso da trasformarsi nel buio più totale. Il fischio lentamente andava mutandosi in sibilo, sempre più fioco, fino a diventare muto: il Silenzio.
Allora il collo sentì il cappio stringere ed il fiato smorzarsi dolorosamente, riuscendo a stento a fuggire attraverso i denti digrignati. Le labbra violacee, il viso scolorito, poi nessun dolore e Mihàly se ne andava. Per sempre.
Le lacrime scivolavano via, la sua bocca sussurrava parole confuse; intanto l’aspirapolvere dei suoi ricordi faceva troppo baccano perché potesse accorgersi di aver dimenticato tutto, non sapeva neanche più parlare.
La complicità tra due vite trascorse quasi in simbiosi si rompeva nel più tragico dei modi, senza neppure un addio.
A suo modo Mihàly aveva cercato di salvare almeno la sua famiglia, attraverso il sacrificio di sé. Adesso non aveva più alcun senso porsi domande. Quella era una questione tra uomini, adesso era necessario fare silenzio. Anche i pensieri dovevano rispettare quella pace sacrale, perché al baccano della vita non è concesso inoltrarsi nel regno dei morti.
Una donna si specchiò nei suoi occhiali da sole:
– Buenas dìas, señor Blumm!
Gli strinse la mano, si dichiarava solidale alla famiglia nel dolore. Non disse altro e come tutti i presenti, dopo il rituale delle condoglianze, si congedò.
Era buio. La cella, fredda. Le ciabatte strisciavano a terra come meste serpi, immerse nella veglia penosa di quella torbida insonnia.
Il sistema immunitario di quel corpo butterato dalla vita era dotato di particolari anticorpi, deputati a difenderlo da ogni tipo di pensiero esule dal senso pratico. Si aggirava come una belva in gabbia all’interno di quella cella, senza mai stancarsi.
Conosceva a memoria quello spazio al quale non gli riusciva di abituarsi: quattordici passi dal letto alle grate, undici dal letto alla finestra. La mente gli accompagnava distrattamente il corpo, impegnata nell’elaborazione di complicati piani di fuga. Contava le mattonelle sul muro, poi cercava di spostarle martoriandosi le mani nude. Era solo.
Qualcuno era stato ucciso ed i sicari si erano avvalsi della sua collaborazione per nascondere quel corpo troppo ingombrante.
Non dovevano restarne tracce: eseguì il lavoro diligentemente sciogliendolo nell’acido. Fu fatto il nome di Johannes Hulme. L’uomo si era sempre proclamato innocente.
La menzogna, la verità, non c’era mai stato un discrimine tra gli opposti nella mente di Johannes. Nel caso specifico la sua unica preoccupazione, era quella di cavarsi fuori da quel buco, una volta per tutte. Aveva sperato di potersi trasformare in una talpa e sbucare con i suoi occhi miopi dalla terra scaldata dal sole rovente, di diventare un lombrico per strisciare inosservato fuori dalle sbarre, meditato di addormentare il sorvegliante attraverso, un’improbabile, esperimento di ipnosi, di scavare la parete con un cucchiaino come l’abate Faria… cercava di estrarre mattoni, con la stessa avidità dei cercatori di diamanti nelle miniere del Sud Africa.
Non aveva mai notato, fino a quel momento, una mattonella del battiscopa, dietro la sua branda, che fuoriusciva leggermente rispetto alle altre, perfettamente allineate. La sua frenesia si spostò verso quel piccolo spiraglio di libertà che era sempre sfuggito ai suoi occhi di aquila volitiva. Le mani tozze, iniziarono ad avvinghiarsi a quel pezzo di pietra come tentacoli di piovra, le cui ventose non erano che rugosi polpastrelli. Quando poté agguantare finalmente la mattonella, la lasciò cadere a terra senza troppi riguardi e ficcò la testa in quel piccolo loculo. Tutto quello che poté scorgere era una cavità foderata di cemento, alla cui base giaceva ingiallito un foglio di carta piegato con cura. Subito iniziò a spiegazzarlo, trasformandosi in un bambino cattivo che scarta una caramella rubata al droghiere. Cominciò a leggere, anche a costo di andare contro la sua indole, decisamente poco incline a quel genere di curiosità. Una strana storia inondava quel foglio ed i nomi che emergevano da quelle lettere ordinate, tutte delle stesse dimensioni, erano nomi grossi, di quelli che si leggono tutte le mattine sulle prime pagine dei giornali. Tra questi spiccava quello di Bjorn Kane, grande signore delle comunicazioni di massa. Le accuse nei suoi confronti, pesantissime.
Qualcuno era finito in gabbia perché lui aveva voluto fosse così, ne aveva scritto il destino con accortezza, perché questo “soldat inconnu” si era macchiato di una colpa che non merita indulgenza alcuna: aveva scoperto la melma stagnante dietro l’oro di cui i muri dei suoi castelli splendono. Sul fondo di quello scritto assurdo trovato, così, per caso, da un qualsiasi losco figuro, la firma di uno sconosciuto che parlava di merda coperta da colate di platino. La conosceva, la conosceva bene.
Aveva sempre vissuto con estrema rassegnazione quel dato di fatto, perché gli avevano insegnato facesse parte della vita.
Adesso, però, avvertiva per la prima volta un flebile contatto con un altro tipo di ansia, molto diversa dalla sua: era il sentimento di chi cerca di rivoltarsi contro il destino, contro quello che tutti accettano di sopportare senza domandarsi perché.
Eppure Johannes, proprio mentre avvinghiava quel mattone con le proprie mani avide andava, senza saperlo, incontro a quell’istante che cambia la vita degli esseri umani. Ci stava pensando… era difficile muovere quell’area così pigra del suo cervello. Aveva sciolto un suo simile nell’acido. Glielo avevano chiesto, l’aveva fatto per soldi, l’avevano pagato, è vero. Restava il fatto che aveva ucciso. Era colpevole, ma nonostante questo si era professato innocente. Aveva violato tutte le leggi umane e divine, tutti i codici della società, non ne aveva provato dolore, né rimorso. Aveva accettato che questa fosse la sua vita, come un predestinato. Forse no, non si nasce così, forse ci si diventa, ci si convince, ce ne convincono.
Il sole era ormai alto nel cielo. Lo aveva spiato dalle grate.
Chiamò la guardia. L’uomo arrivò in volata
– Cosa c’è? – Chiese seccato.
– Chi c’è stato qua prima di me? – Fece Johannes senza perdersi in inutili giri di parole.
– Un pazzo che si è suicidato e, per poco, non si trascinava anche me all’Altro Mondo. Mi ha fatto venire un colpo, quel bastardo!
– Non ti ho chiesto cosa ha fatto. Voglio sapere chi era -. Rispose bruscamente il detenuto.
– E va bene, va bene! Ci siamo svegliati con la luna storta, stamattina! Mihàly Blumm, si chiamava così; contento adesso?
Johannes aderì col corpo alle sbarre, allungò la mano, lo afferrò per il bavero e gli intimò – Ricordati chi sono… portami la guida telefonica! Ti passerà la voglia di trattarmi come un moccioso… – Mollò la presa; l’altro andò, per tornare buono, buono, alla cella con la guida in mano e la bocca finalmente chiusa.
Dopo diversi tentativi Johannes riuscì a contattare un certo Detlef Blumm, che scoprì essere il fratello dell’uomo che cercava. Lo informò per sommi capi della sua scoperta e si diedero appuntamento in parlatorio.
Detlef era sconvolto, non sapeva cosa aspettarsi. Bisognava trovare il coraggio. Ormai era una storia sepolta, quella, che riaffiorava la notte, prima di addormentarsi, mentre sua moglie cercava di scacciare quei tristi pensieri carezzandogli la fronte turbata, come si fa con le briciole di pane sparpagliate sul tavolo, dopo mangiato. Lei era accanto a lui, lo abbracciò come l’edera il tronco, come tutto ciò che la Natura permette si sostenga vicendevolmente, affinché ogni cosa sopravviva.
Non chiese nulla, lasciò che ogni curiosità scivolasse via sotto l’insegna del suo amore di donna, come aveva sempre fatto. Lasciò che lui andasse a riprendere una parte della sua vita, durante la quale lei non c’era ancora eppure, lo sapeva, era sempre stata presente anche lì, anche mentre tumulavano Mihàly, nonostante non potesse asciugare le lacrime del suo amore disperato. Sono cose che non si spiegano. Bisogna trovare il coraggio di non chiedersi perché, quando si ama.
Detlef partì come i soldati vanno in guerra, come quel giorno in cui perse la persona più cara al mondo. I ricordi si affollavano nella sua mente, ed un incubo si riaffacciava in quella vita su misura della quale aveva costruito un nuovo equilibrio, sopperendo in qualche modo a tutto ciò che era venuto a mancare.
Adesso si trovava già ad Eastern Creek e ne era stupito.
La sua auto giaceva come una scarpa vecchia nel parcheggio, ma il cuore che le batteva in seno la travolgeva come un potentissimo sisma.
Avanzò verso il parlatorio pervaso da strane paure, non sapendo esattamente cosa aspettarsi. Quell’uomo che poteva scorgere attraverso il vetro era così diverso da suo fratello.
Lo ricordava bene, così fuori luogo in quel posto. Johannes, invece, sembrava un pesce in un acquario, perfettamente compatibile con quegli spazi angusti, solo perché in qualche modo ricordavano le sembianze dell’habitat di un qualsiasi essere umano.
Gli mostrò quella carta ingiallita attraverso il vetro spesso.
– Riconosce la calligrafia di suo fratello? -, gli chiese.
– Sì -, fece Detlef -, è la sua.
– Allora leggerò per lei –, disse solennemente Johannes – perché se chiedessi alla guardia di consegnargliela, allora avrebbe l’obbligo di leggerla. È meglio di no. Spiccano dei nomi troppo grossi su questa carta. È più prudente così, mi creda.
Iniziò a leggere, sillabandogli d’improvviso tutta la verità che da anni cercava.
Kane era il personaggio scomodo a proposito della cui vita Mihàly aveva scoperto qualcosa di veramente terribile: era lui l’oscuro manovratore di quel manipolo di criminali e nel contempo, persona rispettatissima e magnate dell’editoria e delle comunicazioni di massa. Aveva fatto sorvegliare Mihàly, aveva lasciato che conducesse le sue indagini senza intralciarlo e, dopo averlo illuso di potercela fare, gli aveva falciato le gambe gettandolo quasi sull’orlo della follia. Era l’unico modo per liberarsi di lui, evitando che la sua morte destasse troppi sospetti: metterlo alle strette, costringerlo a cercare la morte da sé, dar fuoco ad ogni prova plausibile. Con la sua morte,
Mihàly, salvava anche suo fratello da morte sicura. Quei radar discreti, piccoli pipistrelli, volavano sulle sue spalle da atleta e lo seguivano, cercavano di capire fino a che punto si stesse muovendo per perorare la causa fraterna. Mihàly aveva dato un taglio a tutto questo, prima che suo fratello potesse calpestare una mina antiuomo. Pian piano, nella lettura di Johannes, andava chiarendosi anche il ruolo della donna misteriosa che si era aggirata negli ultimi giorni di vita di Mihàly come un’oscura presenza. Semplicemente faceva parte dello stretto entourage di Kane; a suo modo, un sicario.
Al termine di questa spaventosa digressione nei meandri di un mondo apparentemente affettato e perbenista, lo scritto di Mihàly abbandonava lentamente l’ambito delle analisi fredde e razionali e dei documenti schiaccianti, per trasformarsi nello specchio dell’affettuoso figlio di famiglia, indissolubilmente legato alla propria figura professionale. Diceva sempre di essere nato per quello, che lo avevan avvolto nella carta stampata ancora sporco di placenta.
“La mia professione, mi ha condotto alla consapevolezza che le parole di chi scrive una storia hanno una vita indipendente e, quando lo scrittore impara a porle nel giusto ordine, collocandole nel posto opportuno, allora diventano immortali come la verità. Possono essere seppellite, nascoste, ma ormai respirano di una vita propria, mentre la menzogna vive, cresce e muore con il suo stesso artefice.
Muoio da folle, ma ho messo la verità al sicuro, perché i savi ne facciano buon uso. Ormai il potere è definitivamente nelle mani di coloro i quali possono controllare l’informazione, manipolandola come fosse pasta d’argilla ed orientando il libero arbitrio di questi miseri prigionieri del mondo, verso le proprie inarrivabili sfere.
Non è cosa nuova, lo so bene; ma è curioso che io possa essere scagionato da un recluso. Che questa verità, a suo tempo, faccia sentire anche tutti gli altri un po’ più liberi. La carta sulla quale, oggi scrivo, ha ormai una vita; la sento vibrare, mentre io, muoio”.
Mihàly Blumm
Tra giornalisti e flash come lampi impazziti, sfilavano gli assassini di Mihàly: Kane, Trier, volti noti e comparse occasionali. Tenendosi per mano nel girotondo della vita, scorrevano simili al letto di un fiume, le cui correnti trascinano via ogni cosa.
Tra loro, il viso bruno di una donna ispanica, Miranda Imenez, capo redattore del giornale TV locale.
Detlef era lì. Incrociò il suo sguardo; ne riconobbe la vanità specchiarsi nei suoi occhiali da sole. I ruoli si invertivano: nulla resta simile a se stesso.
– Buenas dìas, señora Imenez! OSipario.