I racconti del Premio letterario Energheia

Il poeta e il calabrone_Maria Antonietta Di Marsico, Policoro(MT)

_Racconto finalista undicesima edizione Premio Energheia 2005_

 

Dovete sapere che i miei monologhi interiori sono lunghe fiabe senza senso. Le invento, ci gioco e me ne dimentico.

Mi hanno accusato tutta la vita di essere un uomo superficiale e meschino e ormai iniziavo quasi a crederci quando, un giorno, un memorabile calabrone…

Sono nato a Valencia in un giorno di sole, il 9/9/1949, mia madre si trovava lì durante la sua consueta ed immancabile vacanza estiva. Mi hanno detto che nonostante l’avessero avvisata della mia possibile nascita si era intestardita a tal punto che alla fine mi cuccai, perfino la cittadinanza spagnola.

A Valencia vidi il mio primo ed ultimo Sole, qualcuno per me decise di lasciarlo lì. Arrivai a Cascina in un giorno di pioggia grigio e malinconico come un letto di fi ume senz’acqua.

Chissà! Forse era un presagio e forse mia madre se ne accorse subito, poiché mi lasciò ben presto alle cure di mia nonna, mentre lei continuò a cercare il mare e nuovi amanti in ogni porto. La nonna mi raccontò che mia madre a dodici anni aveva già deciso di lasciare Cascina, piccolo paese di montagna, per cercare il mare, ma suo padre era un uomo di sani e ben impiantati principi al quale già non andava giù che la primogenita fosse nata femmina, figurarsi poi di così avventuriero carattere. Così, mia madre che si chiamava Maria, ma si faceva chiamare Marilou trascorse l’infanzia cercando ogni estate di fuggire via con la sua bicicletta verde ed il cane Azzurro, ma ogni fuga era un ritorno, perché il nonno era forte e saggio e cercò in ogni modo di indirizzarla sulla buona strada. Quando ancora era vivo, pover’uomo, e nei pochi momenti in cui mi rivolgeva la parola, mi raccontava che la mamma era come un ramoscello da piegare affinché i suoi rami non oltrepassassero il recinto che delimitava la casa della pace e dell’amore fraterno, che era la Casa del Ciliegio, quella dei miei nonni, quella in cui passai l’infanzia mentre mia madre correva ancora alla ricerca del suo mare. Il paragone mi incuriosiva, aveva quella poesia che tanto piace ai bambini e poi, mio nonno era alto e forte e tutto quello che diceva mi sembrava giusto. Peccato che a me, bambino e ormai adulto senza senso, quella casa, sembrò sempre una immensa valle di lacrime. Così, Marilou finì come aiutante nel negozio unto e bisunto della nonna dove i detersivi erano vecchi di anni e dai muri trasudava umidità. Non c’era bisogno di alcuna ristrutturazione, asseriva il nonno, i soldi erano pochi e si sarebbe perso quel gusto dell’antico che dà sapore e genuinità ad ogni cosa. Il nonno sapeva parlare bene, peccato che a me quel sapore d’antico odorava di muffa, quella che accompagnò la mia infanzia passata con la nonna in quel negozio che mia madre ben presto abbandonò. Dopo tre anni di clausura nella casa, o meglio, nell’attività commerciale del “Buon Amore”, Maria detta Marilou conobbe un uomo dai capelli neri come la pece e l’accento spagnolo. Veniva da Granada e parlava quattro lingue; si innamorarono e la rondine fuggì. La nonna cadde in una profonda e malinconica depressione bianca come le mura di un ospedale, mentre il nonno fece finta, serbando rabbia e rancore, che nulla fosse mai successo, quasi negando di aver avuto quell’unica e disgraziata figlia. Marilou girò il mondo insieme a quel vagabondo sconosciuto. Come nelle più belle fiabe si era riscattata di quel mondo vecchio e antiquato come il tempo, ma la vita gioca dei brutti scherzi e la sua pancia iniziò a gonfiarsi ai primi di dicembre del 1948. Manuel era un uomo vagabondo e amante del vento e come il vento, fuggì quando io avevo solo un anno. Durante la gravidanza le cose sembravano potersi aggiustare, la vacanza a Valencia ci fu ed io nacqui in un bel giorno di sole. Poi, Manuel prese il treno, ma senza piangere, perché anche lui come il nonno era un uomo forte.

Peccato che mio padre decise di non farsi conoscere, ma dagli indizi che son andato decifrando fra le urla e i ricordi che vagavano come fantasmi nelle stanze della Casa del Ciliegio l’ho sempre immaginato come “un uomo vero”. Peccato che fuggì via, ma l’intuizione non si può condannare poiché, visto che adesso mi ritrovo a guardare le farfalle dalle sbarre di una finestra, io proprio non posso dargli torto. La mamma decise di tornare alla Casa del Ciliegio, nonostante la odiasse. In una buia notte d’inverno fece la valigia e lasciò la Spagna, il lavoro di cameriera ed i suoi sogni e si presentò all’improvviso in casa della nonna che scoppiò in un lungo e malinconico pianto appena vide la pecorella smarrita insieme al suo pargolo. Fu il primo pianto di una lunga serie. Marilou però si era innamorata del vento ed il vento doveva seguire: così mi spiegò qualche anno dopo l’arrivo dalla nonna, quando io avevo ancora quattro anni e giocavo con gli aquiloni. Ricordo le parole precise che mi disse quando anche lei decise di abbandonarmi, solo che lei pianse, ma ormai ai pianti ci ero abituato e la sua scomparsa fu quasi routine. Ed ecco la nonna nuovamente in una valle di lacrime, mentre il nonno continuava, orgoglioso a far finta d’aver dimenticato tutto. La mamma era ritornata e lui non se ne era accorto, la mamma era nuovamente fuggita via mentre lui imperterrito continuava ad innaffiare l’insalata nell’orto. Durante quei tre anni non ci aveva mai rivolto la parola; era un uomo tenace, veramente forte e deciso. La mamma invece, fragile e silenziosa, mi sembrava quasi un uccello, un essere destinato a migrare. Si era messa in testa che il nonno, se lei fosse andata via, avrebbe rotto il suo silenzio e a me sarebbe toccato un destino più roseo di quello che poteva regalarmi la cameriera del Mosquito Bar. Si sbagliava. Il nonno non parlò ancora per lungo tempo, mentre io fra una lacrima e l’altra continuavo a crescere amorevolmente curato dalla nonna. Poi, qualche anno prima di morire, il nonno mi chiamò nella sua stanza. Mi disse che anche lui si chiamava Mario, ma di secondo nome, che Mario è un nome da deboli, da uomini che sbagliano e che quindi aveva sempre usato il suo primo nome Vittorio.

Parlava da solo ed io quasi non lo capivo, a volte rispondevo, ma solo se le domande erano precise e brevi. Ricordo che in un flusso tempestoso di parole, quasi che la voce gli fosse ritornata all’improvviso, mi parlò dei suoi sette fratelli, della fame sofferta e della loro gioia quando, da bambini, trovavano una lepre uccisa fra i binari del treno. Quel giorno non avrebbero mangiato pane e patate. Mi parlò del treno che tutti i giorni passava e tutti i giorni, si allontanava. Del giorno in cui conobbe la nonna e di quello in cui nacque Maria, ramoscello selvatico da domare. Il nonno parlò ininterrottamente, per ore. Ormai ero a conoscenza di tutta la storia della Casa del Ciliegio, anche se il ciliegio non c’era più. Il nonno morì pochi anni dopo quella lunga e famelica chiacchierata. Non riuscii a parlarci mai più così, tanto. La nonna, stranamente, non pianse, ma si vestì di nero per lungo tempo ed il nero regalava al suo volto un sapore ancor più livido e rassegnato.

A dodici anni mi mandò dal meccanico ad imparare il mestiere, fu lì che le mie mani iniziarono a sporcarsi. La mamma mi scriveva una lettera all’anno, per Natale. All’inizio le leggevo, erano lettere lunghe e sentimentali, quasi come le eterne lacrime della nonna. Parlavano di una vita migliore, di un tempo in cui sarebbe tornata da me ed insieme avremmo potuto regalarci una casa e dei sogni, ma la mamma in fondo continuava a volare, a volare sul suo mare senza senso né più colori. Un giorno giunsero voci che al Mosquito Bar non avevano conservato il posto ad una cameriera perdigiorno e vagabonda e vicino al porto la pagavano di più. Le lettere iniziai a non leggerle più, decisi di non soffrire, perlomeno volontariamente. La mamma continuò a mandarne tante altre, numerose e lunghe. Buste piene di ninnoli che conservavo integre nel cassetto del comò della nonna, senza che però lei se ne accorgesse e fingendo di chiudermi in camera immerso in una profonda quanto inesistente lettura. La nonna ci credeva e così mi risparmiavo persino quegli ormai incomprensibili, ridicoli e vigliacchi piagnistei. Stavo diventando un uomo duro, forte come il nonno e quando arrivò la notizia, questa volta per telefono, che avevano ricoverato in clinica psichiatrica una certa Maria Spina nata a Cascina il 4/7/29 per tentato suicidio, dissi semplicemente che era mia madre, che non avevo alcuna intenzione di raggiungerla in Spagna e gentilmente lasciai che fosse la nonna, anche se ormai anziana, a sbrigare la faccenda. Non ci fu tempo per burocratici interventi poiché Maria Spina detta Marilou non fallì al suo secondo tentativo. Tirai quasi un respiro di sollievo, meschino e sporco come il destino che mi era capitato, ma come non capirmi?

Ero un uomo vile e senza senso che credeva di esser forte come il mondo, ma ora sono un poeta chiuso in cella, uno che la società ha rinchiuso fra quattro mura e quattro lenzuoli sporchi.

Ora mi sento libero, ora paradossalmente, incredibilmente, mi sento libero. Libero di scrivere su questo fogliaccio la mia vita silenziosa e umida come il giorno di pioggia in cui arrivai a Cascina. E tutto questo grazie ad un calabrone.

La mia vita trascorreva monotona e lenta nell’officina di Rocco. La nonna preparava il pranzo e la cena, ripuliva la casa e stirava le mie camicie. Poi, quando decise che era ormai stanca, mi presentò la Nina e la Nina aveva due occhi neri e lucenti da cerbiatta ed il viso pallido. Iniziarono i progetti ed i preparativi per il matrimonio ed una nidiata di parenti mai conosciuti si presentò a casa per il fidanzamento. La Nina era la giovane e ricca primogenita di un noto industriale di Cascina, uno che aveva fatto soldi all’estero e che poi era tornato ricco e soddisfatto così come avrebbe voluto ritornare la mamma. La Nina era fresca e bella come un fiore primaverile, peccato che era tonta e insensata come una coccinella senza puntini. Rideva tutto il giorno con quel suo sorriso gentile ed inquietante. Strani e ormai passati legami, fra la nonna ed il ricco industriale, decisero il nostro matrimonio. C’era dietro una storia di ricatti della quale non mi interessai fino in fondo per pigrizia. E la Nina divenne mia moglie e la Nina partorì tre bambini ed io finii nella famosa Fabbrica di Formaggi Scialbo. A me quello scialbo accanto al formaggio proprio non andava giù, ma dovetti ingoiarli entrambi. Da meccanico a dirigente era un bel passo, non potevo certo lamentarmi, e tutto era merito delle arguzie insospettabili e trascorse di una nonna che, come la figlia, aveva abbandonato un ignaro pargolo regalandogli uno Scialbo per cognome. Ora che il nonno era morto questa vecchia storia era diventata un ricatto poiché il Signore, agli Scialbo, aveva dato solo una bambina e per giunta di poco senno. Paolo Scialbo era dunque il mio ignaro fratellastro, nonché capo. Nina Scialbo, mia moglie e Carlo Scialbo il suocero acido ed amareggiato, marito di una professoressa gentile ed educata amante del lusso e della buona tavola. Tutto questo era la mia vita quando un giorno nella consueta e sempre uguale vacanza di ogni anno con la Nina ed i tre cuccioli al mare, feci il solito monotono, identico tuffo.

Il mare era piatto e calmo come sempre, ma all’improvviso, subitaneo e pungente, sentii su di un braccio il morso del calabrone. Il calabrone è un animale nero e grosso, nell’immaginario popolare tre punture di calabrone uccidono, ma se fosse stato per me avrei docilmente, tranquillamente lasciato che il braccio si gonfi asse e che il veleno fosse riassorbito con il dovuto tempo dal mio organismo. Ecco però che la Nina inizia ad agitarsi, urla e scalpita come un’anguilla fuor d’acqua, cerca un dottore, i bambini piangono (sicuramente son dei buoni eredi di mia nonna) e in quell’improvviso scalpitio che quasi iniziava a piacermi decido di andare da un dottore affinché potesse giudicarmi giustamente scemo. A dir il vero tutto quel trambusto, se pur eccessivo, mi piaceva, altrimenti un uomo come me, geneticamente forte e coraggioso non sarebbe mai andato a farsi visitare in un misero ambulatorio inventato sul mare da una dottoressa scialba come il cognome di mia moglie. In realtà che io fossi forte e coraggioso nessuno l’ha mai creduto. Mi han sempre accusato di essere cinico, meschino e vile. Io non mi ribellavo, loro mi giudicavano.

Loro ordinavano, io eseguivo. Io però, mi sentivo forte quasi per miracolo genetico (o compensazione psicologica), ma ero rimasto a Cascina, ero diventato un buon meccanico ed un sottomesso dirigente. Mi ero sposato con una giovane e benestante signorina ed avevo tre figli. Il calabrone mi permise di guardarmi in fondo, di compiere l’atto più crudele della mia vita, di riconoscermi in tale atto, di perdere quella forza che geneticamente mi accompagnava e di diventare finalmente un poeta. La dottoressa mi chiese, sorridendo e credendo di liquidare il mio caso, in una manciata di minuti, se avessi l’antitetanica. Signori, tutta la brutalità della scienza si schiuse davanti a me inesorabile. Dovete sapere, se non ne siete già a conoscenza, che i calabroni sono vettori di tetano, malattia mortale tutt’oggi, il cui batterio patogeno ha un tempo di incubazione dai sette ai cinquantuno giorni. L’occhialuta dottoressa continuò dicendomi che avevo quarantotto ore di tempo per iniettarmi gli anticorpi. Decisi di aspettare. A Cascina un nuovo dottore, convocato ancora dalla Nina, disse che le quarantotto ore erano invece ventiquattro e, fra un’indecisione della scienza che ti profila il pericolo di morte qualunque cosa tu faccia e la mia pigrizia, decisi di non far niente. La sera, a cena, il mio primo urlo ruppe il silenzio interrotto sempre e solo dal rumore monotono della televisione. Era la prima volta nella mia vita che gridavo e contro la docile Nina. Uscii di casa e dopo le otto di sera! Presi l’automobile e le grida della Nina che mi ricordava l’importante riunione familiare e di lavoro che doveva esserci quella sera alla Casa del Ciliegio, scivolarono sul mio impermeabile blu sottomarino. Mi sentii investito da un nugolo di riunioni, formaggi, date importanti per l’industria familiare, pianti e soprusi. Guardai il cielo azzurro scuro come il vestito della fata turchina una notte d’estate. La Luna stava lì a guardarmi, splendida e bianca, quasi come se qualcuno si fosse divertito ad intagliarla con un’unghia in mezzo all’azzurro. Guardai la notte in faccia e la notte guardò me. Arrivai dalla nonna che eran già tutti riuniti intorno al tavolo nella casa della pace e dell’amore, come la chiamava il nonno. Ai bambini non era consentito ascoltare discussioni da grandi. E questa fu l’unica cosa che calcolai.

C’erano zii sconosciuti, la nonna, la Nina, suo padre e suo fratello. Tutti riuniti a parlar di me e su di me, dimenticando perfino gli affari. Si erano tutt’ad un tratto ricordati del vile, meschino e misero Mario. Iniziai a tremare rosso di odio e di rabbia, il sudore bagnò freddo la mia fronte e d’improvviso mi ricordai, come se l’avessi avuto sempre dentro, di come da bambino mi piaceva accendere i cerini lasciandoli cadere per terra.

Ora sono contento. Rivedo le fiamme toccare e macchiare di vita il bianco candore della Luna. Le vedo tutti i giorni, da una settimana, da quando mi distendo su questa brandina scricchiolante e guardo il tetto e guardo le pareti bianche imbrattate di questa cella.

Ora, prima di addormentarmi, invento monologhi che sono lunghe fiabe senza senso. Le invento ci gioco e me ne dimentico e qualche notte sogno di essere quella farfalla che vola lì, oltre le sbarre.