I racconti del Premio letterario Energheia

Un mondo di parole_Rossella Valentino, Roma

_Racconto finalista dodicesima edizione Premio Energheia 2006.

 

PROLOGO

Lo ricordo quel giorno: diluviava e tu camminavi veloce come sempre, immersa nei tuoi pensieri. Sfioravi la gente e ad un tratto sei stata sorpresa da una frase che attraversava il tuo spazio.

Un attimo e hai superato la scena, incredula di quello che avevi ascoltato. Ti sei voltata per fotografarla nella tua mente e poi sei corsa via.

Nel corso della giornata avevi elaborato quella sensazione e poi avevi capito che era giunto il momento: le parole, le storie, le emozioni che da tempo trattenevi ti sono scoppiate dentro e hai sentito la necessità di liberarle.

Finalmente avevi il coraggio di scriverle per raccontarle agli altri!

La tua vita passa veloce, come le persone che ti sfiorano in strada, con le emozioni, le parole non dette, i pensieri nascosti e il vivere di ogni giorno, con emozione, ma anche con indifferenza.

Spesso hai pensato alla tua capacità di ascoltare il silenzio, di interpretare dal volto degli individui la loro storia, di ascoltare i frammenti di conversazione e decodificare la vita di ciascuno, vita che comunque appartiene al mondo.

Hai sempre pensato di vivere insieme agli altri, mai chiusa nei tuoi pensieri o sigillata nelle tue emozioni, ed è questo che ti ha fatto spesso sentire ricca ed appagata. Forse perché hai avuto la fortuna di incontrare gente viva e passionale e di elaborare la vita di ciascuno insieme alla tua.

Ti senti parte del mondo! Ma quanto di questa certezza è solo un’illusione, uno scudo protettivo artificiale, un velo che ti sei creata così bene per isolarti e per proteggere te e quelli che fanno parte della tua vita?

Quel giorno improvvisamente questo velo si era squarciato, con una frase captata a volo, il mondo vero, quello fatto di sofferenze, di difficoltà quotidiane, di dubbi e di ingiustizie aveva fatto irruzione nella tua vita.

Da quel momento hai capito di essere una privilegiata e hai deciso: la tua vita avrebbe avuto più senso se ascoltavi per strada i frammenti di discorsi della gente, se ne scrutavi i visi, gli sguardi, avidamente, per cercare di capire quello che gli altri pensano e provano sulla loro pelle.

Talvolta è un gioco al massacro, perché non sempre quello che ascolti o osservi è piacevole, perché fa parte del vivere quotidiano, che spesso è fatica, delusione, dolore, frustrazione, ma è comunque la vita.

 

CAMILLE

“A voi non lo voglio dare, non vi spetta!” Ti sei voltata, giusto in tempo per vedere una famiglia cingalese, madre, padre e piccolo in braccio, vedersi rifiutare una copia del giornale gratuito che tutte le mattine un ragazzo distribuiva all’ingresso della metropolitana.

Continuando a ripeterti che non era possibile, che avevi capito male, avevi proseguito sulla tua strada. Per tutto il giorno hai rivisto la scena al rallentatore, hai risentito le parole: avevi impresso nella mente lo sguardo addolorato della donna e quello smarrito, incredulo dell’uomo, due occhi miti che ti resteranno per sempre dentro.

Poi hai realizzato: eri stata testimone di un atto di discriminazione razziale, gratuito ed inutile e, nella fretta che marchia la tua vita, avevi voltato le spalle, non eri intervenuta, eri quindi complice!

Camille era piccolo, affamato, lo sguardo spalancato sul mondo, quando per la prima volta era stato portato dalla madre alla missione in quello sperduto paese cingalese. La madre, schiacciata dal peso delle sporte dell’acqua che recuperava ogni giorno alla sorgente distante 10 chilometri dal paese, lo conduceva con se per la prima volta, perché quel figlio così sparuto, timido e incredibilmente magro, la preoccupava.

Aveva conosciuto una volontaria che voleva far visitare il piccolo dal medico di passaggio quel giorno al campo e che l’aveva convinta a portarlo con sé.

Camille non piangeva mai, parlava pochissimo e per un bimbo di 7 anni era tutto un po’ eccezionale. Giocava poco con gli altri bimbi, anche perché nel paese non c’era molto per giocare e c’erano pochi bambini della sua età. La madre lo aveva sottratto a degli uomini che un giorno erano piombati in paese per “reclutare”, come dicevano loro, alcuni bambini per farli lavorare “in un posto pulito dove potevano mangiare un pasto caldo e dormire a riparo dalle piogge”. Non ci aveva creduto: aveva sentito di bambini mai più tornati e quegli uomini, con l’aspetto così nutrito e così prepotente, non l’avevano convinta.

Certo che quel povero figlio suo avrebbe avuto bisogno di cibi caldi e di un tetto più asciutto per dormire, ma preferiva tenerlo con se, perché lo vedeva troppo fragile e ancora credeva con il suo amore di poterlo proteggere.

Il medico, un uomo con una folta barba nera e un colorito pallido, dall’aspetto stanco, visitò Camille attentamente, scosse la testa e decretò che quel bimbo non mangiava sufficientemente. Chiese alla madre dove abitavano e dove fosse il padre: di nuovo scosse la testa sconsolato quando seppe dalla donna che il padre era scomparso oramai da tre anni, mentre si recava nel vicino paese per cercare lavoro. Qualcuno aveva poi raccontato che era stato prelevato dai guerriglieri. Da quel giorno, grazie all’arte di arrangiarsi, patrimonio dei popoli disperati di tutto il mondo, la giovane donna sopravviveva con piccoli lavori alla missione, raccoglieva cibo e legna nella foresta, lavava i panni degli altri al fiume.

Ma l’attenzione del medico improvvisamente si concentrò sulla madre: era magra, pallida, tossiva spesso e, dopo averla visitata, decise un ricovero nell’ospedale cittadino.

Camille e la madre furono trasportati in camion nell’ospedale dove rimasero per diversi mesi.

La madre, che tanto si era preoccupata per la salute di Camille, dovette affrontare una diagnosi terribile per se stessa, una cosa che nella sua piccola testa non aveva previsto, tutta presa dai problemi quotidiani di sopravvivenza. Una malattia definita subito incurabile si era impossessata di lei e nel suo linguaggio semplice questo significava niente più futuro per lei e per quel suo cucciolo indifeso.

Morì dopo atroci sofferenze, con dignità e raccomandando al suo piccolo tante cose che Camille, confuso, non capiva.

Restava così a fissarla, con i suoi occhioni neri spalancati, cercando di afferrare il senso di quello che stava accadendo e bevendo avidamente tutte le parole che sommessamente la madre sussurrava: erano gli ultimi sospiri delle sue radici! Per fortuna la solidarietà non è solo una parola, un atteggiamento o peggio una moda: in questi paesi si tocca con mano ogni giorno e per molti è la sopravvivenza. Il piccolo, orfano del mondo, fu infatti adottato dai medici, dagli infermieri e dai volontari dell’ospedale.

All’inizio fu molto duro, ma Camille capì presto che la forza è necessaria trovarla dentro di se: si rimboccò le maniche e si diede da fare. Con la madre era finito il suo passato, e sapeva di doversi costruire un futuro da solo, anche se con l’aiuto caldo e presente di alcune persone speciali che aveva avuto la fortuna di incontrare.

Trascorse la sua adolescenza nell’ospedale e nella missione vicina, dove aiutava come poteva, con piccoli servizi e dove imparò cosa fosse la sofferenza fisica vedendola riflessa negli occhi degli altri.

Continuava ad essere un tipo taciturno, ma i suoi occhi dicevano tutto! Era disponibile con gli altri, ma in silenzio.

Lavorava attento e preciso e gli altri sapevano di poter contare su di lui.

Aveva 18 anni quando incontrò Swarna, anche lei sfortunata figlia dell’isola, anche lei sola, finita in ospedale a 15 anni per un aborto dopo una violenza carnale.

Lei era una di quei bambini “reclutati” dagli uomini di cui sua madre aveva così giustamente diffidato. Aveva intessuto tappeti per ricchi occidentali nel buio di uno scantinato umido per 5 anni e aveva le mani rovinate. Era stato uno dei suoi padroni ad accorgersi di lei e a volerla con la forza: il bimbo che le era sbocciato dentro, però, non aveva avuto la forza e neppure la voglia di nascere.

Era spaurita, e Camille, con il suo sguardo dolce e il suo silenzio, l’aveva consolata.

Decisero insieme di allontanarsi il più possibile da tutto questo e tentare una vita nuova. Aiutati da una infermiera, presero contatti con Racid, un uomo che attraversava con il suo barcone l’Oceano Indiano verso i paesi arabi. Fu un viaggio terribile, che durò più di una settimana e quando arrivarono l’impatto fu scioccante: un mondo nuovo, fatto di confusione, di concitazione, di centri commerciali, di gente ben vestita, di auto costose, di musica e di voci allegre si spalancò davanti ai loro occhi semplici.

Fortuna volle che trovarono subito ospitalità da amici di amici e la solidarietà della comunità cingalese del posto. Swarna in pochi mesi trovò un posto come sguattera nella cucina di un buon albergo del centro e Camille come aiuto giardiniere, un lavoro ideale per lui, nel silenzio della natura, a contatto con piante esotiche e fiori.

Furono degli anni buoni, il cibo, residui che Swarna recuperava in albergo, non mancava e riuscirono anche a trovare un alloggio per loro due. Si sposarono con rito indù e dopo due anni, con qualche difficoltà per Swarna, nacque Sid, la loro luce.

Le cose si cominciarono a complicare con gli attentati che colpirono il mondo e in particolare alcune città arabe: ci fu un’aumentata rigidità nei controlli di polizia e la vita per loro, clandestini e per di più induisti, si fece più difficile.

In albergo Swarna aveva conosciuto Giuseppe, un aiuto cuoco che veniva da un posto lontanissimo, l’Italia e da una città, Napoli, che lui descriveva sempre con le lacrime agli occhi, all’apparenza piena di gente, di sole e di allegria, in realtà difficile, violenta, arida, in particolare con i giovani che cercavano lavoro.

Giuseppe era andato via dalla sua terra allettato da un lavoro molto ben pagato, senza rimpianti per quello che lasciava, precario e rigorosamente al nero. Aveva 24 anni quando aveva lasciato la sua terra e la sua famiglia, non senza dolore e tristezza, per misurarsi e per provare a realizzare un sogno, quello di diventare un vero chef.

Parlava con Camille e Swarna della sua terra con un entusiasmo tipico di chi rimpiange le sue radici e ricorda solo le cose più belle.

Raccontava della pastiera profumata di fiori d’arancio, degli struffoli, perle di pasta fritta avvolte da dolce miele e colorate con tutti i colori dell’arcobaleno, della pizza, fragrante di profumi e aromi del mediterraneo, il basilico, il pomodoro e la mozzarella. Qui i suoi occhi divenivano sognanti: il ricordo della fresca, morbida e succosa mozzarella di bufala era troppo struggente per lui!

Camille decise improvvisamente di partire, dopo l’ennesimo fermo di polizia e l’ennesima perquisizione: avevano pochi soldi ma erano sufficienti per arrivare in Italia.

A Napoli, Giuseppe li indirizzò da alcuni amici e loro sapevano di una comunità cingalese sul posto che li avrebbe aiutati almeno nei primi tempi. Il piccolo Sid sarebbe cresciuto senza paure e avrebbe costruito un suo futuro, in una terra dove sembrava ci fosse tolleranza, senza lotte religiose e discriminazioni razziali.

Arrivarono in primavera: l’aria era mite e il sole caldo.

Alla stazione Centrale furono soffocati dal rumore e dal clima frenetico di piazza Garibaldi, la casbah napoletana.

Il piccolo Sid era frastornato e si aggrappava al braccio della madre con gli occhioni spalancati, osservando tutto a bocca aperta.

Camille era felice: tutto gli ricordava la sua terra, la confusione dei mercati, con le bancarelle che offrivano colori e profumi. Dappertutto vedeva gente della sua razza, e questo lo confortava. Trovarono il loro contatto e finirono in un basso nel centro storico, pulito anche se un po’ caro.

Furono fortunati: quel poco di italiano che Giuseppe, faticosamente e a tappe forzate, aveva loro insegnato nei mesi precedenti, servì a Camille per trovare un posto come cameriere in una casa del Vomero, il quartiere sulla collina della città dove viveva la gente medio-borghese. Le persone erano gentili, anche se esigenti, e Camille, sempre di poche parole e un grande lavoratore, piaceva molto a tutti quelli che lo conoscevano.

La vita riprese tranquilla e Camille riuscì anche ad avere un permesso di soggiorno. Swarna, appena Sid fece tre anni, iniziò a lavorare e tutti avevano la sensazione di vivere, finalmente tranquilli. La comunità cingalese era veramente molto presente e c’era un supportarsi uno con l’altro, una solidarietà vera che riscaldava il cuore, solidarietà che si avvertì più forte nei giorni immediatamente dopo la tragedia dello tsunami, dove fu tutto un rincorrersi di notizie sui familiari rimasti coinvolti e uno scambio di numeri telefonici.

I napoletani, poi, specie quelli dei quartieri, erano brava gente, disponibile anche se oberata dai problemi quotidiani, tollerante con tutte le etnie che avevano oramai invaso il quartiere.

E’ vero, c’erano anche i bulli, i camorristi che facevano i loro affari, ma questi non interferivano con le differenti comunità: d’altra parte proprio i cingalesi erano persone dolci e rispettose, silenziose al punto giusto!

L’illusione di trovarsi in una città multietnica e tollerante però si era infranta quella mattina di pioggia, davanti a quel rifiuto assurdo e arrogante, davanti a un ragazzo che quel giorno ce l’aveva con il mondo intero e aveva sfogato contro di loro la sua rabbia metropolitana: Napoli si era svelata come una città apparentemente tollerante, ma in realtà con un malessere e una violenza repressa.

Ma Camille e Swarna, oramai, nei loro pochi anni di vita, avevano attraversato così tante difficoltà, avevano visto così tanti dolori, che capirono quella rabbia, si guardarono negli occhi, muti, e proseguirono oltre. In fondo la vita, la vera vita, andava avanti comunque.

 

CIRO

Quel pomeriggio in metropolitana eri particolarmente stanca: ti sei guadagnata un posto a sedere in un angolo e ti sei guardata intorno. Di fronte a te due giovani donne parlavano a bassa voce, quando improvvisamente, nel corso di una conversazione che si capiva aveva il sapore amaro del dolore, hai colto una frase: “Anche quel dottore così distaccato si è messo a piangere”.

Era mattina presto, appena le sei, quando Ciro era sceso sotto la pioggia, con la sua tuta da Pony Express, per iniziare la giornata di lavoro. Un bacio veloce alla moglie Giovanna, ancora addormentata, uno sguardo alla culla dove la piccola Anna di 15 mesi dormiva con le braccine spalancate, sotto il caldo del piumotto. Sorrideva Ciro, perché ricordava poche ore prima l’abbraccio caldo della sua donna, l’amore e la passione che li prendeva e li rendeva unici.

Si erano sposati quando avevano saputo dell’arrivo di Anna, un improvviso e inaspettato regalo di un pomeriggio di amore clandestino in auto che però avevano accolto con gioia, 23 anni lui, 19 lei, entrambi disoccupati, ma con due famiglie alle spalle modeste e presenti.

Erano cresciuti con sani principi, con l’abitudine a guadagnarsi da vivere onestamente e con dignità, cosa che nella città di Napoli non è sempre facile, specie se si vive in periferia e in quartieri che nei telegiornali nazionali vengono definiti “a rischio”.

Che poi che significa “a rischio”? Per chi tutti i giorni combatte per la sopravvivenza e ha radicati nel cuore il rispetto degli altri, non c’è né il tempo né la voglia di guardarsi intorno nel quartiere e di rischiare di essere coinvolti in traffici o in affari sporchi.

Certo che i traffici strani si intuiscono: fischi che si inseguono sui terrazzi, movimenti di auto anche di notte, facce poco raccomandabili che compaiono e scompaiono nel quartiere.

Talvolta soldi inattesi e di provenienza sconosciuta che piovono nei negozi del posto, o improvvisamente, attività commerciali che chiudono senza una ragione.

Ci sono giorni che qualcuno passa nel quartiere e consiglia di non uscire dopo una certa ora. Tutte cose che sembrano far parte di un mondo parallelo, che non appartiene a chi ha una vita semplice, fatta di levatacce mattutine, di lunghi percorsi sui mezzi pubblici o su un motorino sgangherato, per raggiungere un lavoro stancante e spesso poco gratificante. Un lavoro che però ti dà da mangiare e ti permette di non confondere la tua vita con quella di alcuni del quartiere, abituati a bruciarla in una sniffata o in un buco o in un agguato.

I primi tempi per loro erano stati difficili, tante cose da definire, un lavoro da cercare, una piccola casa da attrezzare, ma alla fine ce l’avevano fatta. Ciro era felice, sentiva di avere un suo ruolo e poi Giovanna lo caricava di una forza interiore, che solo chi è innamorato sa dare.

Finalmente la vita cominciava a sorridere: era nata Anna, un piccolo angioletto bruno con un faccino dolce e due occhi vivacissimi.

Giovanna aveva trovato un lavoro in casa, confezionava bomboniere e così poteva badare ad Anna, ancora troppo piccola per un asilo comunale.

Ciro faceva il Pony Express e di sera, talvolta, faceva il guardiano notturno in un capannone di periferia. Non guadagnavano molto e la “fatica” era tanta. Talvolta cercavano un po’ di aiuto dalle famiglie, che, con grande sforzo, dividevano con loro quel poco che avevano per superare qualche improvvisa emergenza, il fornello che si era rotto, la stufa fulminata e così via.

Tiravano avanti in modo decoroso e tutto sommato erano felici, accontentandosi del necessario. Certo Ciro qualche volta guardava con curiosità quei telefonini supertecnologici che vedeva nelle mani di qualche suo vecchio amico di infanzia, o le scarpe firmate di ultima moda: erano cose che la televisione, la pubblicità e il mondo intorno ti riproponeva continuamente, sottolineando con cattiveria che solo così potevi considerarti un uomo appagato.

Ma lui sapeva ragionare e rifaceva i conti su quello che ci voleva per arrivare a fine mese. Si sentiva gratificato di più a rotolarsi sul letto con Anna, a sentire le sue risate o a portarla nel parco giochi. Vedere i suoi occhi brillare di gioia era una cosa che costava molto ma molto poco e dava molto, ma molto di più di una foto con un video-telefonino!

La notte precedente, dopo aver fatto l’amore, Ciro sulla porta del bagno si era voltato verso la sua Giovanna, ancora languida nel letto e aveva detto sorridendo: “Me lo sento, questo sarà un maschio!” Giovanna aveva riso, come solo lei sapeva fare per lui, mentre un piccolo brivido di preoccupazione le attraversava la schiena. Si era voltata verso la culla per controllare se Anna dormiva coperta e si era riaddormentata con un’espressione appagata.

Ciro sul suo motorino aveva imboccato la Circonvallazione Esterna, una strada sempre molto trafficata e veloce, anche di primo mattino, e stava correndo verso il centro, quando un’auto bastarda lo agganciò e lo fece volare oltre il ciglio della strada.

L’ultimo pensiero prima dell’impatto con il suolo spugnato di pioggia fu per loro, i suoi amori ancora addormentati nel caldo tepore della casa, poi il silenzio.

Ciro se ne era andato così, nel silenzio di un alba piovosa di inverno, da solo, con lo sguardo rivolto al cielo, il viso bagnato e l’ultima immagine della sua famiglia stampata negli occhi.

La notizia a Giovanna la diedero due agenti della polizia stradale: bussarono alla sua porta alle nove del mattino e con un’aria contrita e impacciata, le chiesero di seguirla in ospedale.

Chiamò la madre, il padre, le sorelle, i cognati, tutto il suo mondo affettivo e corse via, affidando la piccola Anna a una vicina di casa.

Lo raggiunse all’obitorio: non era più lui, solo un sorriso accennato sul suo volto tumefatto, lo rendeva riconoscibile come il suo Ciro.

Crollò a terra con un gemito e si risvegliò tra le braccia di sua madre. Da quel momento non capì più nulla, accecata e confusa dal dolore, ripeteva solo: “Aspetto un bimbo”, ma nella confusione e nel dolore generale nessuno capiva. Qualcuno la guardava con commiserazione, altri con sconcerto.

Seguì il funerale e la notizia, di poco conforto, che quel bastardo che aveva travolto Ciro ed era fuggito, era stato preso.

Dopo un mese la conferma: quella sera Ciro aveva sentito realmente qualcosa!

Alcune volte la vita riserva delle sorprese al limite dell’impossibile: un piccolo cucciolo di uomo era stato concepito poche ore prima che un’altra vita fosse stroncata violentemente.

Quando la notizia raggiunse i suoi familiari e i suoi amici, tutti, increduli e spaventati, corsero a casa e trovarono Giovanna tranquilla che si accarezzava con dolcezza la pancia: era un gesto che oramai faceva dal giorno della morte di Ciro, anche quando tutti pensavano fosse impazzita dal dolore. La famiglia e gli amici le si strinsero intorno e lei avvertì il calore e il conforto degli altri.

Quel piccolo cucciolo di uomo dentro di lei seppe darle un coraggio inaudito.

Riprese a lavorare, con la piccola Anna giocava e riusciva anche a consolarla quando cercava tra le lacrime il padre.

Al quinto mese di gravidanza si recò dal medico per la prima ecografia: la accolse un ginecologo, un professionista rigido nel suo ruolo, che con freddezza decretò che era un maschio.

Giovanna si voltò verso la sorella e la cognata, che l’avevano accompagnata, e per qualche minuto le tre donne si guardarono negli occhi senza parlare. Il ginecologo non capì questo silenzio e bruscamente, infastidito dalla perdita di tempo e pressato dagli impegni del suo studio affollato, chiese se c’era qualcosa che non andava. Le donne raccontarono brevemente la loro triste storia e come Ciro, prima di morire, aveva previsto la nascita di un maschio.

Questa storia colpì il professionista, che si era imposto un comportamento freddo e distaccato: il suo controllo vacillò e sentì montare sentimenti che da una vita cercava di reprimere.

Gli occhi si riempirono di lacrime e improvvisamente si abbandonò in un pianto sommesso, dolente e liberatorio.

Mentre in silenzio accompagnava le donne verso la porta aveva una espressione sul volto di inadeguatezza e di impotenza, ma dentro di sé la certezza di aver finalmente capito come avrebbe da quel momento rivissuto la sua vita.

 

EPILOGO

Hai avuto, in qualche momento della tua esistenza, la sensazione di girare un film, dietro una cinepresa, nel tentativo di chiudere la vita in una pellicola, fredda spettatrice di altre vite che scorrono parallele o che si intrecciano tra loro. La voglia di non lasciarsi coinvolgere nella vita degli altri è sempre in agguato: sarebbe molto facile poter chiudere la porta di casa e lasciare fuori il resto del mondo.

La globalizzazione, giustamente osteggiata da molti quando significa appiattimento e prevaricazione di alcune culture su altre, è oramai parte integrante della nostra vita. Ti costringe a conoscere in diretta delle realtà spesso scomode che appartengono ad altri popoli del mondo, ti obbliga a scontrarti con sofferenze inutili e ingiuste che potrebbero essere evitate se solo ci fosse la volontà di farlo.

Intervenire su queste cose per la gente comune è spesso considerato un progetto titanico, da scaricare sui potenti del mondo o comunque su quelli che decidono per il mondo. In realtà ciascuno di noi è il mondo e ha un suo ruolo speciale, che già da piccoli iniziamo a percepire, ma in modo confuso e che sentiamo sempre più chiaramente montare dentro di noi mentre cresciamo, diventando presto parte integrante del nostro essere.

Si attraversa la vita, si affrontano le difficoltà e il futuro non sempre con entusiasmo, ma con la convinzione, e spesso la presunzione, di riuscire a riconoscere e ad attuare da subito gli obiettivi che consideriamo più importanti.

E’ fondamentale capire il ruolo che vogliamo assegnarci nella grande commedia della vita, le finalità della propria esistenza.

Ora tu senti di averlo compreso: oltre a viverla, vuoi ascoltare la vita, quella che non grida, quella fatta di sguardi e di volti segnati, di parole non dette o di frasi appena abbozzate, anche al di là del silenzio!