I racconti del Premio letterario Energheia

Il cuore piccolo di Lorenzo_Massimo Franco Maso, Dolo(VE)

_Racconto finalista quattordicesima edizione Premio Energheia 2008.

 

… ovvero ricordo minuto, ma vero, di un amico dimenticato.

 

Certi “volti” vanno ricordati così, buttando le parole sul foglio bianco. Certi “sguardi” vanno ricordati così, come sono vissuti, senza un principio e una fine, senza togliere o aggiungere alcunché. Certe “vite” sono solo esistenze scivolate silenziosamente sotto le stelle. Qualcuno le potrebbe anche chiamare “vite di confine” o “periferie dell’anima”. Lorenzo è uno di quei volti, uno di quegli sguardi, una di quelle vite. Un amico scomodo, potrei dire, e per questo dimenticato, tradito, cancellato dalla memoria che conta. Eppure, fra i tanti “cuori di strada” che hanno popolato la mia giovinezza, è stato il più vero, schietto e onesto. Perciò è tempo che io dica di lui e di quello che ho imparato, perché Lorenzo, senz’avvedersene, mi ha insegnato ad amare onestamente, schiettamente, crudamente.

Dirò di lui come si conviene, semplicemente, fingendo di parlare di cose lontane ad uno sconosciuto di passaggio, davanti ad un bicchiere di vino.

Presumo fosse l’ultima decade di marzo del 1974, giacché ricordo il calore di un sole nuovo e insolente che attraversava con violenza le grandi vetrate della “Reginaldo Giuliani”, la scuola media di Dolo. Sì, di certo era la fine di marzo e quel sole ci inebetiva e ci costringeva a strizzare gli occhi. Cominciavano a darci fastidio le felpe, i pantaloni di velluto a costine e il tempo, stretto come le nostre gambe, sotto quei tavolini di formica verde. Le idee se ne scappavano fuori, oltre i vetri, incontro al pomeriggio nudo di luce, ma gli occhi erano tutti per Monica. Confidavamo unanimemente sull’insofferenza delle sue grandi tette per il caldo soffocante e per tutto quello che era più consistente della garza trasparente. Sbuffava, faceva ventaglio con le mani, chiudeva e apriva nervosamente le gambe e infine si liberava del pullover. Ahh… finalmente!

Dopo un interminabile inverno la scollatura della sua “Lacoste” (rigorosamente bianca) si apriva “generosamente” alle nostre fantasie. Monica, nel corso dei tre anni, aveva subito una vera e propria mutazione ed era passata dalla misura “nocciolo d’oliva” alla “terza con rinforzo”, dalle gonne lunghezza “monacale” alla “parapassera con cintura”. Solo “la Gina” (Ginevra, la teutonica prof di lettere) non dava segni di disagio nonostante i ventitre gradi, il sole, il termosifone acceso e due ore di “epica” sul groppone… “Allora Lorenzo… Riassumendo… Si è detto che Agamennone era il fratello di Menelao, entrambi achei, cioè greci, giusto?… Giusto!… Si è detto che Elena era stata data in moglie ad Agamennone, re di Sparta, ma che era fuggita con Paride, figlio di Priamo, re di Troia, giusto?… Giusto!…

Quindi la ragione (epica) che muove i greci contro la città di Priamo è che Elena era…(!)… Era?!… Oh, Lorenzo, guardami… Elena era…(?)… “… una troia!?”

… Eh sì, anche Lorenzo aveva gli occhi dentro la scollatura di Monica e il cervello in pappa. Quel giorno se ne tornò al posto passando indifferente fra le nostre risate, inseguito dalle urla rauche della Gina e con un altro “tre” sul registro, l’ennesimo e sicuramente non l’ultimo. C’era abituato.

Lorenzo non era dei nostri, era l’eredità della precedente terza e di quella prima ancora, ma anche di una seconda che se n’era già volata via, da diverso tempo. Quasi diciassette anni, per farla breve, diciassette anni di ragazzone dai lineamenti marcatamente adulti, dall’andatura dinoccolata, tipica di chi è cresciuto troppo in fretta. Ricordo i suoi piedi esagerati e le sue mani ruvide e callose, quella “frenata di bicicletta” che lui si ostinava a chiamare baffi. Ricordo che gli invidiavo i capelli portati lunghi, con la riga in mezzo, neri e lucidi da sembrare unti. E ricordo gli occhi, due grandi occhi scuri, perennemente persi a cercare di capire il mondo. Ma lui, il mondo, non lo avrebbe mai potuto capire. O meglio: lui, di quel mondo che correva troppo veloce, riusciva a cogliere quello che a noi tutti – allora – pareva inutile, superfluo e perciò sfuggente. Quegli occhi li aveva aperti alla luce con una certa fatica, tanto che la madre gli venne a mancare appena due ore dopo il parto.

Dicono che il liquido amniotico fosse torbido e degenerato, che stesse per soffocare e che il sangue non arrivava già più al cervello quando lo rianimarono. A quei tempi, quelli come lui, li chiamavano “ritardati” e avevano la strada già segnata.

Non aveva un padre e viveva presso una zia materna, in un buco di stanza ricavata dal sottotetto. Da quella casa usciva ed entrava come un gatto senza padroni e come un gatto, senza padroni doveva accontentarsi di quello che trovava in giro per casa, dalle scarpe al desinare. Sarebbe stato meglio in un istituto. Se il buongiorno si vede dal mattino! Era venuto al mondo con fatica e con fatica, si era trascinato appresso tutti i suoi diciassette anni, ma sempre col sorriso fra le labbra, felicemente inconsapevole di quel che la vita gli riservava, giorno dopo giorno. Per noi era una sorta di giullare, un salta fossi, capace di fare cose incredibili con quelle sue mani gigantesche; fionde, archi, bottole e cerbottane, ma anche animali e figurini intagliati nel legno… E seghe, tante seghe! Gesù, le seghe che si tirava! Perfino sotto il banco, durante la lezione. Un giorno si dette a far “su e giù” con tanta e tale foga che il banco si rovesciò e si ritrovò con “l’osso tra le mani” sotto lo sguardo stupito di tutti (prof compresa!). Tanto stupore era comunque motivato. Madre natura compensa a modo suo certi “errori di fabbricazione”; Lorenzo non era certamente un genio, ma dentro ai pantaloni, teneva un “capitale”, qualcosa di sproporzionato come i suoi piedi. Tanto ben di Dio alimentò in tutti noi una certa invidia e amplificò a dismisura il nostro “dubbio amletico”… “è anormale lui o è piccolo il mio?”… Fra le ragazze, invero, si manifestò una certa curiosità e qualcuna (Monica, tanto per fare un nome) si adoperò in cortesie del tipo… “Domani c’è compito di matematica… Io ci sguazzo con i conti. Se vuoi facciamo i compiti assieme e ti do una mano… facciamo alle cinque a casa mia?”

Lorenzo ottenne la licenza solo l’anno dopo, probabilmente per “raggiunti limiti d’età”, e trovò lavoro come fattorino presso un pizzicagnolo. Lo persi di vista per un po’ di tempo.

Monica me la ritrovai al Liceo che si vantava di “non essere più una ragazzina”, che lei quell’estate appena passata, aveva conosciuto un tale, più vecchio di lei, che l’aveva fatta sognare, uno che ci sapeva fare con le “donne”. “… facciamo alle cinque a casa mia?”.

Quante volte gliel’ho sentito dire. Lei poteva chiedere quelle cose; con le sue grandi tette (ormai ostentava una prorompente quarta) poteva farlo, senza arrossire. Si era presa gioco di Lorenzo e di tanto in tanto tornava a servirsene… “Non ti ho più chiamato perché… perché… Dai, non fare l’offeso… guarda chi ti ho portato!… E’ un’amica, sai… vorrebbe vedere quel tuo affare… è curiosa, ma si accontenta di vedere quello che fai…”.

In terza liceo Monica ci lasciò. Era rimasta incinta e Lorenzo non c’entrava nulla, ma quello “scemo cazzuto” tornò buono. Ci fu un gran parlare in paese di questa storia e il padre di Monica sollevò un gran polverone addosso al povero Lorenzo, ma la gente non è poi “così stupida”. A scuola si era fatta la conta e isolate le debite eccezioni (e fra queste io per “timidezza cronica”), risultò che quasi tutti avevano conosciuto “biblicamente” Monica. Tutto risolto? Certo che no, perché dopo tutto, la gente è davvero “così stupida”. Lorenzo non c’entrava nulla, è vero, però! So solo che Monica cambiò paese e che Lorenzo perse il lavoro. Di più, visto che ormai era maggiorenne la “cara zia Adele”, scandalizzata, lo buttò in strada senza tante manfrine. Non aspettava altro.

L’estate che separò le “medie” dalle “superiori” – dico del 1974 – fu un’estate davvero particolare. Fino ad allora, non avevo mai frequentato un “vera compagnia”. La nostra si formò quasi per caso; io, Lorenzo, Ario e Martina. A detta dei più eravamo una strana compagnia, per altri solo “una cattiva compagnia”. Di sicuro era la più “improbabile” delle compagnie e nessuno di noi vestiva i panni del tipico “bravo ragazzo”. Io ero stato bollato dagli insegnanti come “asociale” e, in ragione di certe vicissitudini occorse a mio padre, uno da “evitare”. A voler essere pignoli, un po’ strano, forse, lo ero; cacciavo bisce per i fossi e vipere in montagna da smerciare ai farmacisti. Ario, invece, viveva di sogni e aveva la testa fra le nuvole, dico, nel vero senso della parola.

Bastava che la bianca condensa di un aereo graffiasse il cielo per rubargli gli occhi. Dio solo sa quante volte è finito nel fosso con la bici per seguire le evoluzione dei “G-91” o degli “F-111”. Voleva diventare pilota, gli dissero d’accontentarsi di trovare lavoro come meccanico. “Non obbedì” e diventò pilota! Martina era la classica “maschiaccia”; trentotto chili di “donnina” incapace di stare sui tacchi, di ungersi le labbra di rossetto e di sculettare; odiava le ragazze sue coetanee ed era “cordialmente” odiata da loro. Graziosa, ben fatta, con due grandi occhi luminosi. Ne ero innamorato, ma come puoi “smielare” appresso a una che si cala dentro jeans e scarpe da tennis per tirare meglio calci e pugni? Forse mi “sentiva”, ma faceva finta di non capire. Tiravo lunghi sospiri, e di nascosto scrivevo poesie che non avrebbe mai letto. Lorenzo? Lorenzo ci raggiungeva verso sera, dopo il lavoro. Con noi si trovava bene perché si sentiva libero di dire e fare quel che voleva, seghe comprese. Se penso alle sberle che gli rifilava Martina… “Oh, Lorenzo! Ma devi proprio smanettare quando non hai le mani impegnate? Eh?”

A ripensare ‘ste cose, così, a distanza di anni… Bè! Eravamo proprio una manica di sbandati, un’armata Brancaleone.

Nessuno di noi correva il rischio di essere invitato alle feste e come luogo d’incontro avevamo scelto il plateatico del cimitero di Paluello, un luogo davvero strano, che sorgeva sui resti antichi di una motta fluviale, una piccola collinetta isolata, immersa nel granturco e circondata da vigne e cipressi, dove si respirava una certa aria ferale, qualcosa di decadentemente gotico. Il posto giusto per noi, insomma! Nelle notti di temporale si scavalcava il pesante cancello di ferro e fra il vento che dava voce alle siepi e i lumini che vibravano sinistramente, ognuno di noi, a turno, si raccontava agli altri, magari inventando, lì per lì, storie inverosimili e truculente.

Io e Ario facevamo finta d’aver freddo per nascondere la pelle d’oca, Martina masticava la gomma più forte. Lorenzo si eccitava e spariva dietro un “tempietto di famiglia” per sgranarsi l’ennesima “pippa”. Non avevamo nulla da condividere e nulla ci accomunava, ma proprio per questo eravamo affiatati come nessun’altra compagnia. Mai una lite, un alterco, un muso lungo. Quell’estate finì con un semplice “ciao ragazzi, ci si vede…” e la “strampalata compagnia” si sciolse nel nulla, così come si era formata. Scuole diverse, lavoro, tempi diversi.

Non ci saremmo mai più ritrovati tutti assieme, così. Nessun patto, nessuna regola, nessun amore manifestato. Ma allora, perché dopo trentaquattro anni mi viene ancora il groppo alla gola solo a ricordare quei giorni?

Trentaquattro anni! E chi siamo diventati?

Martina l’ho rivista dietro il bancone della bottega paterna, intenta a consigliare noiose vecchiette sul tessuto più adatto per la tenda del soggiorno. Graziosa e minuta come allora, ma truccata, acconciata, curata, con le labbra pinte, le gonne a tubo, i tacchi alti, la fede al dito e una cortesia di gesti e di modi che non le riconoscevo. No, la Martina che “amavo di nascosto” è restata “laggiù” e va’ bene così!

Ario? Ario trovò il modo di librarsi nel suo amato cielo con ogni mezzo e in tutti i modi possibili. Poi, un lancio di troppo, fra le nubi che coprivano Piancavallo, e tornò nella memoria per sempre.

Lorenzo, in verità, lo frequentai per un certo periodo di tempo.

Dopo che aveva perso l’impiego e la zia l’aveva cacciato di casa (era il ’77), si era trovato un lavoretto di poco conto e tanta fatica presso un coltivatore di serre, giust’appunto nei pressi del “nostro” cimitero. Lodovico (così si chiamava il coltivatore) gli aveva concesso l’uso del capanno degli attrezzi dismesso, una baracca di modeste dimensioni che dava, senza recinzione alcuna, sul “disimpegno” del cimitero. Di fianco alla baracca era parcheggiata già da un paio d’anni una vecchia Mercedes con allestimento funebre in attesa di demolizione. Lorenzo aveva arrangiato la baracca con una cucinetta a due fuochi, un vecchio armadio da sacrestia e una stufa a cilindro, così che un letto “fisso” non ci stava. Di necessità fe’ virtù e il “carro funebre” diventò la “seconda stanza” della casa, più precisamente “la camera da letto”…

… “Prima, o poi bisogna lasciarlo sto’ mondo, no!… Io ci sto prendendo confidenza… Gran macchina la Mercedes!”. Lorenzo “marciava con la ridotta”, ma sapeva ironizzare sulle cose della vita.

Di tanto in tanto lo andavo a trovare e gli portavo le cose usate, ma in buono stato, dei miei cugini: pantaloni, maglie, giacche. La roba mia non gli entrava, era troppo alto. Mia madre, come tutte le donne che “hanno patito la miseria”, ci nascondeva in mezzo un salame, del formaggio, un fagotto con il pasticcio freddo della domenica e a volte una bottiglietta di grappa per le “sere più fredde”. Lorenzo non aveva nulla, ma non gli piaceva sentirsi addosso la miseria, così mi invitava a “far onore” alla cucina di mia madre e si mangiava assieme, seduti sul materasso della Mercedes, col portellone alzato e un telo di raffia verde a farci da veranda. Si mangiava, si parlava, si rideva, si ricordava e si guardavano le stelle, ma alle ventidue in punto… “Madonna che tardi… Scusa, ma ho da fare. Ci vediamo quando vuoi, ciao!”

… e mi “spingeva cortesemente” fuori dal suo mondo. Mi accompagnava alla bici, mi salutava e non si schiodava dalla strada finché non mi vedeva scomparire dietro il curvone delle “alture”. Vabbè che uno così ha le sue manie, ma perché tanta sistematica puntualità? Una sera decisi di soddisfare la mia curiosità e, dopo aver abbandonato la bicicletta cento metri dopo il curvone, attraversai, di gran carriera il vigneto dei Marin, al chiaro di luna, fino a sbucare alle “spalle” di Lorenzo.

Mi rannicchiai fra i rovi che aggredivano il vecchio cancello di servizio degli “orti” e aspettai. Aspettai poco, meno di un quarto d’ora. Prima i pneumatici di una grossa macchina che “friggono” sulla ghiaia, poi due colpi d’abbagliante e il motore che si spegne; il silenzio rotto dalla portiera, richiusa piano-piano e dai tacchi. Tacchi alti, di donna… “Buonasera Signora, è puntualissima… Fa’ un po’ fresco, vero?… Posso offrirle un bicchierino di grappa?..”.. “Dai-dai Lory… non perdiamo tempo. Ho i minuti contati. Se quel “coglione” mi cerca dalla Ines casca il palco…”. Cazzo! (pensai) Ma questa voce io la conosco! E anche quel “culo dispettoso” conosco. Lorenzo e la voce misteriosa scomparvero dentro il portellone della Mercedes “Ahaaa, sì… Ahaaa, dai-dai-dai-dai… Sì così! Così… sì… Madonna che razza di manico!!! … Oh, Lory… ma ti rendi conto della fortuna che ti ritrovi fra le gambe… Eh?..”.. “Non saprei, Signora Van…humm!!! (una mano gli tappò

la bocca)”. “Shsss, stupido!… Te l’ho detto mille volte, niente nomi, OK!?… Uhmmm… sbattimi, figlio di puttana, sbattimi… scopamiiiii…iii…!!!”. “Si-si… si calmi, Signora… E’ pallida… e ha le labbra fredde. Si sente bene?…”. “S-siii… mai stata meglio…”

Non mi riuscì di contarli, ma di certo non erano biglietti da mille lire quelli che la donna stava sforbiciando fra le dita. Lorenzo l’accompagnò alla macchina producendosi in mille piccole attenzioni, puntualmente ignorate. Poco prima di salire in auto la donna accese una sigaretta e… Ero sicuro di averla già vista. Vanessa! La mamma di Alessandra, la mia ragazza. Piccolo il mondo, vero?! Davvero piccolo… e grigio. Lorenzo tornò dentro il suo “loculo ruotato” e io presi la strada di casa. Non parlai per tre giorni; ero frastornato, stranito, non mi “tornava” più nulla e mi sentivo tradito da tutti, Lorenzo incluso. Gli nutrivo un risentimento confuso, forse per il fatto di non essersi confidato, forse perché in questa squallida faccenda c’entrava la mamma di Alessandra. O forse perché mi aveva aperto “di brutto” gli occhi e aveva cancellato in un sol botto tutte le mie certezze, che già erano scarse. Cominciai a far caso a tante piccole cose che, un tempo, mi scivolavano indifferenti sotto il naso; dico ad esempio di certe “scuse” che Alessandra mi propinava con sistematica frequenza e che si rivelarono delle vere “beffe”. Tale madre!… Forse Lorenzo era “ritardato”, ma io ero sicuramente ingenuo e un tantino fessacchiotto. La lasciai (o, forse, mi lasciai dimenticare) nel giro di pochi giorni. Arrivai ad odiare Lorenzo e non mi recai più a fargli visita; mi nascondevo dietro ai rovi e aspettavo spiando i suoi movimenti. Vanessa era puntuale, arrivava ogni giovedì sera, ma nel corso della settimana c’era un notevole via-vai di altre “signore bene”, tutte “piene di soldi”, quasi tutte del paese e frazioni limitrofe; tutte con la puzza sotto il naso. Qualcuna la conoscevo bene, qualche altra solo di vista, altre, ancora, erano “di passaggio”. Queste ultime, per lo più, erano ragazzette viziate in vena di “stranezze”. Arrivavano col motorino, spesso accompagnate da un’amica o da ragazzi dalla “bottiglia facile”. Lorenzo aveva sempre una parola o un gesto di cortesia in serbo per ognuna di loro. Arrivavano con la pelle che “prudeva” e trovavano un “cuore di strada” capace di amare anche i sassi. Non chiedeva soldi, accettava quello che gli offrivano. Il mio risentimento svanì una sera di fine settembre, poco prima delle ventitré. Non era la prima volta che quella signora dai lunghi capelli biondi veniva a parcheggiare vicino alla mia “postazione”, ma quella sera aveva stretto troppo e, per evitare altre manovre, scese dalla parte opposta, ovvero proprio sotto il mio naso. Ricordo le sue bellissime gambe spogliate dal velluto della Lancia Delta che frenava la gonna; ricordo quei tacchi alti e lucidi e il senso di vertiginosa euforia che provai di fronte a tanta bellezza. Sì, era bella, bellissima, raffinata, sensuale, elegante; la più bella donna che io avessi mai visto. Trenta-trentacinque anni portati come “seta sotto la seta”. Ricordo il suo profumo, agrumato e fresco, la sua voce sottile e l’esasperata gentilezza con la quale si rivolse a Lorenzo, un’intrigante mistura di affetto e complicità… “Ciao Lorenzo (gli baciò la guancia), come stai?… La notte comincia a farsi umida, vero?… Se non ti offendi… Bhe, ecco… E’ di mio marito, è quasi nuova… l’avrà messa due volte, forse tre… era un mio regalo, ma credo non l’abbia mai apprezzato… Non apprezza più nulla a dire il vero. E io meno di tutto… Lascia stare. Cose mie. Comunque ti servirà, non credi?”… “Oh… grazie Mirella… è bellissima!… Non ti dovevi disturbare. No!… Anche le paste!..”.. “Ma dai… è solo un pensierino “dolce”… Le mangiamo assieme, d’accordo?… Ti vedo un po’ sciupato (abbracciandolo)… stai bene?… E quel taglio cos’è?… Fammi vedere, dai…”.

Parole e carezze. Parole e carezze dolci, dolcissime, in un crescendo travolgente e passionale di baci, di scarpe scalzate, di vesti scostate, e poi di gemiti e lamenti soffocati. Una lunga pausa e poi sussurri, risate sommesse, voci sottili come il soffio del vento. C’era la luna e potevo vedere tutto; Lorenzo non accettò soldi da lei, non li voleva proprio. Erano quasi le tre del mattino quando si lasciarono, dopo un sofferto e “materno” abbraccio… “A presto Lorenzo… non so quando. Mi raccomando, però!… Ho bisogno di te… lo sai vero?… Devo risolvere certe faccende e poi ti toglierò via da tutto questo per sempre… E’ solo questione di tempo”.

Risalì in auto così com’era scesa, allungando le sue meravigliose gambe sul velluto grigio. Notai che aveva gli occhi umidi. Dopo di lei il silenzio freddo della notte, il suo profumo e il pianto sommesso di Lorenzo. Non l’avevo mai sentito piangere. Quella notte non tornai a casa subito, vagabondai per le strade fino all’alba, incapace di staccare il pensiero da quello che avevo visto, udito e “sentito”… dentro soprattutto.

Non so cosa vestì la mia pelle quella notte, so solo che imparai ad amare. La vita, le donne, la notte, il silenzio. Semplicemente imparai ad amare tutto questo, tristemente, serenamente, dolcemente. Quella notte imparai ad amare.

Con Lorenzo, di quanto avevo visto e sentito, non ne feci mai parola. I nostri incontri si diradarono, ma quel po’ di tempo che si condivideva era ritornato onesto e schietto. Nei mesi che seguirono, la scuola mi rubò sempre più spazio e poco dopo il Natale del ’78 ci perdemmo di vista, definitivamente. Qualche notizia sul suo conto mi raggiunse comunque, ma erano voci riportate, “sputate” da bocche che non sapevano nulla di lui e che pertanto, non erano degne di credito. Il 31 luglio del ’79, a mezzogiorno in punto, strinsi la mano al presidente della Commissione d’Esame; ero “maturo”! Alle sei del pomeriggio inforcai la bicicletta e mi recai al “cimitero”; volevo ritrovare Lorenzo e festeggiare con lui il diploma. Non lo trovai e non trovai nemmeno, la macchina, né la baracca; non trovai niente.

Il Comune aveva espropriato parte del terreno di Lodovico e stava ampliando il perimetro cimiteriale, spianando tutto con le ruspe, compresa la memoria di Lorenzo. Lodovico mi riconobbe e mi disse quel po’ che sapeva del mio amico. Mi raccontò di una notte balorda, di un gruppo di ragazzi ubriachi che si erano presi gioco di Lorenzo, di come gli avevano buttato fra le gambe una vecchia puttana alcolizzata che l’aveva “appestato”. Certe “infezioni” si curano, ma Lorenzo era uno che dagli ospedali scappava e poi… chi sapeva di quel suo cuore troppo fragile, troppo “piccolo” per un ragazzo di quasi venticinque anni?… … “Sono come una grande macchina con un motore piccolo-piccolo… Prima o poi scoppierò”. … ma nessuno di noi aveva mai compreso fino in fondo quel suo modo di dire.

Conosceva da sempre il suo destino e preferì sparire, forse per risparmiarci ogni possibile imbarazzo. Il 15 settembre di quell’anno si addormentò per sempre, seduto sulla panchina di un giardino pubblico nel centro di Padova, col gelato che gli colava fra le mani. Non aveva mai dato fastidio a nessuno e se ne andò allo stesso modo, senza infastidire nessuno. Una sola epigrafe, senza foto, affissa sotto la veranda del “Caffè Vittoria”, una cassa di faggio (la più economica) su di un furgoncino Fiat 900, quattro gocce benedette nella chiesa quasi deserta e tanta, tanta pioggia. Tutto qui il suo funerale.

Il Comune coprì le spese, le campane del Duomo il silenzio e le coscienze sporche. Ad accompagnarlo solo il prete e due persone: io e “Mirella”. Dio, quant’era bella quella donna!

Anche vestita di nero, con le gonne lunghe e le calze scure. Dio, se era bella! Avevo l’ombrello e le offrii il braccio; mi sorrise e accettò. Ricordo la sua mano fredda, il suo profumo, i suoi capelli biondi trattenuti da un velo di tulle nero e il pallore delle guance rigate dal rimmel che colava. Il cuscino di fiori (gli unici) sulla bara portava il suo nome. Invidiai Lorenzo! Lo invidiai ancora una volta. Ricordo poco altro. Ricordo un caffé bollente, le sue gambe discretamente accavallate di fianco al tavolino, la mia malcelata voglia di toccarle. Ricordo i suoi occhi “che mi leggevano dentro” e il rossetto che disegnava le parole e tingeva il bordo della tazzina… “Eri suo amico?”. “Sì… Credo di sì…” “Credi di sì?!…” “Con Lorenzo tutto era troppo facile o troppo difficile… Sì, forse un tempo gli sono stato amico, ma poi…”. “Shsss… (mi zittì sfiorandomi le labbra con l’indice)… Tu

oggi sei qui e io ho colpe ben più grandi delle tue. Comunque sia, io e te oggi siamo qui… Ci mancherà”.

Non disse altro e non volle udire altro. Si staccò dalla sedia bruscamente e lo fece apposta, così da sfiorarmi il dorso della mano, col ginocchio e piantarmi addosso i suoi occhi a dirmi… “Ecco… le hai toccate. Di più no, fattelo bastare”. Mi baciò, timidamente, segnandomi con le sue lacrime. Pagò il caffè, mi precedette all’uscita e se ne andò, in silenzio. Non la rividi mai più. Dio, quant’era bella quella donna!

Ecco, questo è tutto. Non posso e non voglio aggiungere altro. Così voglio ricordare il “candore disarmante” di Lorenzo, dell’amico ritrovato. Così voglio recuperare la memoria della stupefacente bellezza di Mirella e l’alchimia di quella notte lontana, di quando imparai ad amare. Io che mi vergognavo di lui. Io che l’ho tradito e dimenticato come si tradisce e si dimentica un cane. Io… Io ero una “vita di confine”, una “periferia dell’anima”, non certo lui, perché… “gli eguali vivono, i diversi esistono!” (J. J. Rousseau).