E fuori è buio…_Federica Simone, Roma
_Racconto finalista quattordicesima edizione Premio Energheia 2008.
Martina chiuse il libro. Si avvicinò al tavolo e prese un bicchiere d’acqua. La stanza era in penombra, ma lei si muoveva con disinvoltura. Ormai aveva imparato a muoversi nell’oscurità. E soprattutto aveva imparato che il grigio e il nero potevano essere più luminosi di tutti gli altri colori.
– No! Scordatelo! E ora basta! Vai in camera tua e rimani lì fino a quando non ti dirò io di uscire!
Mentre le urla di mio padre risuonavano nel mio cuore, incominciai a salire le scale che portavano in camera mia: la parte più alta e più piccola della nostra torre, della mia casa.
Provare a parlare con mio padre era impossibile: non sapeva ascoltare, non sapeva credere che le persone accanto a lui provassero dei sentimenti, elaborassero pensieri. Non conosceva il rispetto e disprezzava ogni forma di affetto e di stima.
E dopo quasi venti anni l’avevo capito molto bene. Non ero l’unica: qui a Porto Venere, il piccolo paese dove vivevamo, bagnato solo dall’acqua e dal sole, lo sapevano tutti benissimo.
E quindi lo evitavano.
Lasciai che le lacrime ancora per una volta rigassero il mio volto e macchiassero il mio animo felice di quel giorno. Ma una volta arrivata nella mia “cella”, chiusi la porta a chiave, corsi alla finestra ad aspettare lui. Il mio amore. Lorenzo.
L’unica luce vera, che viveva in quel luogo abbagliato perennemente dal sole. E mentre ingannavo il tempo, contando le stelle, potevo ascoltare il battito del mio cuore, che si faceva sempre più forte e più irregolare.
Finalmente arrivò. Riconoscevo il profilo del suo volto anche nel buio. I suoi occhi color mandorla, non si addicevano al rossore delle gote, dovuto al sole e risplendevano nell’oscurità.
Il sole di quei giorni era l’ultimo sole che avrebbe toccato la sua pelle prima di anni e anni di ombra.
-Scendi, Martina? -, chiese con la sua solita voce dolce.
-Sì, eccomi!
Feci volare la corda e un attimo dopo mi ritrovai tra le sue braccia.
– Come stai? -, mi sussurrò all’orecchio.
– Ora bene.
– Hai litigato di nuovo con tuo padre? -, indovinò. Era un buon osservatore e sapeva leggere i miei pensieri prima che si riflettessero nei miei occhi. Un altro motivo per cui ero follemente innamorata di lui.
– Ora non ha più importanza, è una vita che è così. Fra poco andremo via, non voglio che la mia vita con te sia macchiata dalla tristezza di questo mondo.
– Sicura?
– Tu vuoi rendermi felice?
Lorenzo annuì con la sua espressione seria, concentrata, sincera.
– Allora portami con te -, bisbigliai così piano che solo lui riuscì ad ascoltarmi, neanche le foglie che ci erano accanto poterono captare quel segreto sussurrato.
Erano passate ormai due notti dall’ultimo litigio con mio padre e mancavano solo tre tramonti alla partenza con Lorenzo, all’inizio della vita.
Era il tempo degli addii. Ma non erano molte le persone, i luoghi, i sapori, gli odori a cui dovevo dire addio. La maggior parte aveva l’ombra funesta del passato, di un passato che non mi apparteneva più. Un passato di indifferenza, di dolori, di anime tormentate e di cuori infranti. E le persone, sì, proprio le persone, che avevano affollato il mio passato, mi avevano arrecato più male che altro, tanto da indurmi a credere che il mio più grande sogno, l’amore, fosse solo una tenue luce in una galleria d’ombra. Ma non doveva, non poteva essere così… infatti non lo fu.
Se tante persone avevano calpestato i miei sentimenti, ce n’era una con la quale ci eravamo sempre volute bene e che mi sarebbe mancata: mia sorella, Arianna.
Arianna, benché sarebbe dovuta essere per maturità una donna, aveva il cuore di una donna anziana per la sua bontà e l’ingenuità di una bambina. Era una ragazza fragile e insicura, anche se nascondeva molto bene i suoi timori dietro sorrisi ben sfoderati e un bell’aspetto.
Aveva bisogno sempre di un amore costante, di avere una mano da stringere, una bocca da baciare, due occhi da stupire.
E quel pomeriggio, la trovai, che rideva con uno dei suoi tanti ammiratori nel portico della casa. Nei suoi occhi, nel celeste dei suoi piccoli occhi, si potevano osservare tutti i passi di quegli uomini che erano andati e venuti nella sua vita, falsi innamoramenti, ingannatrici fonti di luce. Ma che a modo suo, nel suo mondo, erano sempre luce. Perennemente gustava un sole a metà, scottata spesso, ma mai abbronzata. Ma questo lo capisco solo ora – ora che vivo nella luce vera del buio apparente – altrimenti glielo avrei spiegato, avrei trovato il coraggio di infrangere le vetrate di cristallo del suo mondo.
Ero decisa a dirle della partenza, del mio amore, di Lorenzo.
Avevamo condiviso una vita da figlie. Figlie di un uomo che aveva dimenticato anche il suo nome, nonché il nostro. Figlie di una madre fuggita, perché attratta dal miraggio di una vita più facile. Figlie di una realtà, da cui preferivamo evadere, ognuna con i suoi metodi, ognuna con i suoi piccoli trucchi segreti. Sorelle per vero affetto e non per legami di sangue.
Mi ricordo ancora quella sera. Una tra tante. Lui – nostro padre – era tornato ubriaco. Ancora più furioso del solito, perché la moglie lo aveva abbandonato. Stavamo cenando, c’era un piatto anche per lui. Lo ignorò. Così come aveva ignorato il nostro dolore dopo la partenza della mamma, le nostre necessità, i nostri bisogni. In una parola la nostra stessa esistenza. Quel che facevamo o non facevamo, non era affar suo. Da sole, nessuna di noi due, sarebbe stata in grado di farcela. Insieme, in qualche modo, eravamo andate avanti.
Anche per questo – soprattutto per questo – lei avrebbe dovuto sapere, glielo avrei dovuto. Ma non lo feci. Non ci riuscii. Era felice, spensierata o apparentemente sembrava così. Non fui capace di rivelarle la verità, la mia piccola verità personale. E mi nascosi. Celai, con la paura, la mia incapacità di essere sincera con lei. Mi ricordo ancora di quando mi chiese, con la sua solita voce squillante: “ Martina, tutto bene?”.
Annuii. Mentii.
Ora mi pento. Mi odio per questo. Ho sbagliato. E ora, comprendere i motivi del mio sbaglio non mi aiuta, perché non allevia la paura e il rimpianto delle parole non dette. Perché lei non c’è più. Perché io me ne sono andata via.
Al tramonto del giorno in cui partii, le lasciai solo una lettera e la mia maglietta che le piaceva tanto. Nient’altro. Ma lei sa che le voglio bene, che è stata una delle persone che ho amato di più, anche se non ho avuto il coraggio di guardare nei suoi occhi il suo dolore. Che, a volte, in forma diversa era anche il mio dolore. E ora forse lei avrà capito, mi avrà capito, ma io vivrò sempre con le lacrime che avrà versato impresse nel mio cuore, come se avessero rigato anche il mio volto.
Ci sono errori, parole non dette, discorsi non fatti, “ti voglio bene” non pronunciati che macchiano la nostra esistenza, fanno traballare il foglio fragile sul quale vogliamo scrivere la vita che vorremmo avere. Ma non è così. Ho imparato che non esiste la felicità perfetta, come non esiste un dolore assoluto.
Il giorno seguente, il giorno prima della “partenza” non riuscii più neanche a guardare negli occhi mia sorella… oramai era troppo tardi anche per parlare. Mi sentivo ancora più fragile e debole, ma c’era lui. L’unica certezza che si prendeva cura di me, come io di lui. Anche da lontano, anche in quel giorno, riuscivo a captare il rumore del suo strano camminare, del suo solito ciondolare con le braccia, e del suo sorriso beffardo di quando mi prendeva per la vita da dietro e io facevo finta di non essermene accorta.
Anche quel giorno fece così, e riuscì a frantumare la mia malinconia attraverso le mille sfaccettature del suo carattere, che adoravo e adoro tutt’ora, con le sue molteplici sorprese che riservava solo per me. Come quella di quel giorno, quando esclamò:
– Allora pronta?
– Pronta per cosa?
– Per dire addio al tuo paese!
– Sì.
– Bene, io ti accompagnerò. Mostrami i luoghi della tua storia!
E dopo sorrise maliziosamente, sorprendentemente, unicamente lui.
Lo presi per mano e incominciammo un viaggio nel passato con la macchina del tempo che quella volta erano i miei ricordi.
Il primo posto dove lo portai fu la chiesa di San Pietro, alla fine del paese, sulla roccia dalla quale si potevano ammirare le onde che si infrangono contro gli scogli.
Lì è la pace che sovrasta gli animi di chi ci si reca, anche quelli più tormentati, lì è il sapore del mare che fa dimenticare il sapore delle preoccupazioni, lì andavo ogni volta che dovevo prendere una decisione importante, lì ritornai quella notte.
A Lorenzo piacquero i colori che disegnavano i lineamenti di quel paesaggio, ma non gli piacque il silenzio, troppo simile a quello delle sue terre. Ma questa volta non era più solo e apprezzò il fascino di certi silenzi.
Dopo lo portai al piccolo porto e gli spiegai di come spesso mi divertivo ad andare lì, a sedermi sulla panchina e a osservare la vita pulsare, gente che partiva e gente che ritornava.
Ricordai quante volte, seduta là, prendevo un quaderno dalla mia borsa e incominciavo a scrivere le mille storie che inventavo su ogni singola persona che saliva o scendeva da una barca. Mi piaceva troppo immaginare storie e racconti di persone, di vite dimenticate.
Magica era l’atmosfera di quel piccolo tratto di terra tra cielo, mare e scogli. E questo piacque a Lorenzo, abituato alla smisurata immensità delle sue terre.
Infine lo portai nel mio vicolo preferito, il vicolo del sole, bagnato perennemente dall’ombra di due piccole case tipiche del posto. Quel vicolo era semplicemente un vicolo di un qualsiasi paese, ma mi regalava sempre la sensazione di essere protetta in una solitudine rassicurante. Ci andavo ogni volta che avevo paura, ogni volta che i brividi superavano la gioia, ogni volta che le lacrime spezzavano il limite di sopportazione.
In quel pomeriggio le ore volarono via come fogli di un calendario a fine anno, tutti i giorni che passavo con lui scivolavano via. Chissà se sarebbe stato così anche nel suo mondo, un mondo di ombra, là dove la morte, a volte, poteva divenire più un’amica che una nemica.
E mentre il sole cedeva il suo posto alla luna, con il suo solito passo di danza, Lorenzo mi accompagnò fino alla mia torre e prima che salissi le scale, mi prese dolcemente per il braccio e sussurrò:
– Sei sicura?
– Sì.
– Grazie.
E, dopo, un bacio parlò per noi.
Quella notte, sola nella mia stanza, scaldata solo da una copertina di cotone, sognai ciò che non avrei mai avuto: una famiglia, con tanti bambini, riuniti intono al calore di un fuoco scoppiettante. Ma non potevo e non dovevo lamentarmi. Avevo l’amore, quello vero. Avevo lui e questo era il più bel dono che una donna o un uomo possa mai avere.
Lorenzo era un dono che mi era arrivato in un modo del tutto inaspettato. La prima volta che lo incontrai, fu proprio nei sogni. Non nei sogni di notte, in quei sogni che a volte sembrano prenderci e trasportarci in un’altra dimensione. Ma in quei sogni che si fanno di giorno, a occhi aperti, nei sogni che forgeranno, nel bene e nel male, la nostra vita. Ebbene sì, da sempre sognavo una persona come lui, una persona diversa, che era capace di non essere indifferente, capace di amare.
L’unica differenza tra il mio sogno e la realtà fu la luce.
Era una sera di fine maggio, una sera nella quale avevo deciso di smettere di sperare, di chiudere gli occhi e farmi solo invadere dalla fragranza del mare al tramonto, quando mi imbattei in lui. Neanche me ne accorsi. Fu un secondo. Fu un attimo. Fu un’eternità. Avevo il libro sulle ginocchia, seduta su una panchina in prossimità degli scogli, e mi cadde. Lui, che sembrava immerso nei suoi pensieri, non molto distante dalla mia panchina, tanto che nessun rumore sembrava poterlo raggiungere, un attimo dopo stava accanto a me con il libro che prima era a terra. E da lì ci presentammo, da lì ci conoscemmo, da lì capimmo che era da una vita che ci cercavamo, e che finalmente avevamo trovato la parte mancante dell’altro, la parte gemella dell’altro.
Nulla cambiò neanche quando seppi chi era veramente.
Un’apparente maschera di malvagità, di terrore non poteva farmi credere che i suoi occhi mentissero, che le sue parole così simili alle mie fossero solo un inganno, un tranello. E infatti, non fu così. Ecco un’altra sfaccettatura della vita che imparai da lui: la necessità e il saper andare oltre, ciò che una futile apparenza disegna.
Ricordo nei dettagli come e cosa appresi della sua vita. Mi aveva detto che doveva partire. Avevo cercato in tutti i modi di convincerlo a non andare. Poi parlò. E allora fui io a voler andare con lui.
– Martina, non è uno scherzo quello che vuoi fare. Venire con me significa condannare te stessa all’ombra, a un mondo che vive nella parte più fredda del pianeta -, concluse con voce saggia, mesta, consapevole di quanto faccia male la mancanza di luce, quella mancanza che presto non avrebbe più dovuto provare.
– Per me il mondo dell’ombra, la parte più fredda del pianeta è dove non ci sei tu.
Lui era un cavaliere nero, un cavaliere della morte, un cavaliere del freddo. Il suo paese, il paese dei cavalieri oscuri stava nello strato più basso della terra, dove – contro ogni legge fisica e chimica – regnava il gelo e il sole non era più neanche un vago ricordo. Ogni duecento anni gli era concesso di trascorrere centoundici giorni nel mondo dei vivi e al centundicesimo tramonto doveva ritornare nel suo mondo.
Ma quella volta non sarebbe ritornato da solo, sarei andata io con lui.
Dopo aver ripercorso la sua identità, e rivissuto nella mia mente tutti i miei ricordi con lui, come fossi un registratore e avessi attivato il playback, parlai con parole che in quel momento per me, e forse anche per lui, erano le più naturali:
– Guarda, osserva, percepisci sulla tua pelle, vivi questa notte. Non senti il freddo del vento e il caldo della terra? Riesci a cogliere l’odore di un’estate che sta scivolando via? E non è meravigliosamente bello, anche se stiamo al buio?
Non rispose. Sapeva che avevo ragione. Quella ragione che appartiene al cuore, quella ragione che soltanto il cuore può capire. E dopo mi prese il viso tra le sue mani calde, calde, ancora per poco. E mi baciò mentre la notte mostrava il suo più bel sole. E se ne vantava.
– Parlami di voi, del tuo,anzi del nostro mondo – dissi il pomeriggio seguente, accoccolata vicino a lui su una roccia, riscaldati dalla luce del giorno.
– Cosa vuoi sapere?
– A quale gruppo appartieni? Una volta mi hai detto che c’è una guerra, tu da quale parte stai?
– Ovviamente da quella dei buoni
E rise, con la sua risata infantile, malinconica, beata. E incominciò a raccontare, con voce paziente e sempre accesa di entusiasmo. L’assenza del sole non gli aveva fatto perdere la luce e la magia del parlare.
– Cioè?
Ancora non ero informatissima sul suo mondo, ma mi bastava guardarlo negli occhi e capire che con lui sarei stata al sicuro dovunque e comunque.
– Faccio parte del gruppo che combatte contro quei cavalieri neri che vogliono invadere il mondo, il tuo mondo. Ci fu un istante di silenzio mentre Lorenzo affogava nei suoi pensieri, e poi continuò: – Ma devo essere sincero con te. Combatto contro i “cattivi” non solo per puro altruismo, ma anche per rancore. È stato uno di loro che, traforandomi con la sua spada, mi ha fatto diventare un cavaliere nero.
– È stata dura?
– Sì, ma poi ho capito che si può sempre migliorare qualsiasi situazione in cui ci si trova e si può sempre decidere, scegliere. La vita non ti lascia mai legato alle decisioni di un destino crudele.
– Tu puoi morire?
– Soltanto se, nel giorno prestabilito dalla mia natura e dal sole, non mi presentassi al tramonto per ritornare nel mondo dell’ombra.
– Ti possono ferire?
– No, la mia pelle è ormai invulnerabile.
– E allora come fate a combattere?
– Combattiamo per renderli prigionieri, anche se è molto difficile vincere, perché ognuno di noi è forte come l’altro, non ci sono differenze.
La mia curiosità solo in parte era stata calmata e soddisfatta.
C’era un’altra domanda che dovevo fargli, ma tremavo solo all’idea della risposta. La curiosità morbosa e la necessità di sapere prevalsero però su ogni paura e timore.
– E io cosa diventerò?
– Tu diventerai quello che sei nata per essere e non per morire. Non posso portarti con me.
E così concluse la sua frase, più appuntita e fredda di un sasso di montagna. Ma io non potevo sopportare questo, perché sapevo che lui sarebbe stato il primo ad avere il cuore trafitto dalla spada del dolore, di quel dolore provocato dalla separazione di due anime che anelavano l’una all’altra.
– Vuoi la mia morte?
– Sono io che morirò, se tu mi costringerai a portarti con me. Non potrò mai sopportare la consapevolezza che ti ho condannato a un mondo di ombre. Amare significa rendere felice l’altro, sempre e comunque.
– Ma è tra le ombre che io potrò essere felice.
Lorenzo tacque. Da quel giorno non toccammo più quell’argomento, neanche fu mai più sfiorato.
Con poche parole, con pochi sguardi, ci eravamo capiti, amati, ascoltati. Nessuno dei due poteva lasciare l’altro. E da quell’istante, le nostre mani furono sempre intrecciate l’una all’altra nella buona e nella cattiva sorte, nella luce e nell’ombra.
Finalmente arrivò. Arrivò il momento adatto. Il momento deciso dal sole, quello che avrebbe sigillato per sempre il nostro amore. Il più atteso e più temuto. Il momento del trionfo dell’ombra sul sole e del trionfo del sole, sull’ombra.
Il nostro momento.
Il tramonto. Il passaggio dalla vita alla morte, eppure a me sembrava di rinascere.
E se non fossi partita, se l’avessi lasciato affrontare da solo per l’ennesima volta i mostri dell’ombra, gli avrei concesso il lusso di sapermi libera dai meandri di un buio apparente, gli avrei regalato quel lusso che si vive quando si è sacrificata la propria felicità per un’altra persona. Ma l’avrei lasciato solo, senza amore e io sarei morta nelle terre del sole.
In fondo sarebbe stata, ed è tutt’ora, un’altra avventura, l’avventura del vero amore nel mondo dell’ombra. E così chiusi gli occhi, mi feci abbagliare per l’ultima volta dalla luce del sole, strinsi la sua mano, studiai il suo sguardo e dopo andammo.
E lo vidi veramente felice, con uno sguardo incredulo di nuova gioia che si dipingeva sul volto, sui suoi perfetti e delicati lineamenti.
Ora, dopo tanti anni da quel fatale tramonto, ora che ho deciso di rammendare i fili della nostra storia, solo ora ho compreso. Ho compreso che una scelta fatta per amore, con amore, è la migliore scelta che si possa fare, giusta o sbagliata che sia. Deponete le armi, fate cantare il vostro io più profondo, abbandonate le apparenze. Cos’è la luce del sole se si vive una storia d’ombra? Cos’è l’amore senza l’attesa e senza le rinunce? Non barattate l’amore per la tranquillità, la passione per la monotonia, per una vana certezza. Perché vi ritrovereste come mi sarei ritrovata io. Sola. In un castello di buio e di ragnatele. Avrei ingannato i minuti con gli occhi fissi su una videocamera che mi avrebbe obbligata al ricordo. E sul collo, sul cuore, sull’anima avrei avuto i morsi di un amore che non perdona, che non dimentica, che ti afferra tutto ciò che gli hai dato e non lo lascerà mai andare via, senza lasciare posto a nuovi sorrisi. Il tempo e lo spazio si sarebbero dilatati nel buio della lontananza, dell’eterna distanza.
Invece sto qua, ad aspettare che Lorenzo ritorni dalla battaglia. E sono felice. Felice che le notti senza luce siano finite.
Spero che qualcuno legga questa storia, questo amore raccontato sui fogli di una carta vecchia, consumata dal freddo, consolata dal calore dell’inchiostro.
E fuori è buio. Ma Lorenzo è qui. Non è né un’illusione, né un sogno raccontato dalla notte e infranto dalla luce del giorno. Ma è la verità. È l’amore che è vero. Anche se fuori, continua a essere buio.