I racconti del Premio letterario Energheia

Il tesoro in fondo all’arcobaleno_Lucia Ferrante, Novate Milanese(MI)

_Racconto finalista quindicesima edizione Premio Energheia 2009.

 

(il tempo, a volte, si riavvolge, ti appare una scena che ti sembra di avere già vissuto…)

 

Questa corsia d’ospedale non ha nulla di nuovo. Di certo, non ci si aspetta di trovare grossi cambiamenti: così era vent’anni fa e così è oggi. Stessi arredi, stesse piastrelle per terra, tutto di un colore pallido, uniforme, che ti mette tristezza solo a guardarlo. Già è immensamente doloroso il motivo per cui sono qui, che poi è la fotocopia della ragione per cui mi trovavo in questo luogo allora (e mai avrei pensato di poter rivivere una simile esperienza), ma se, almeno, ci fosse qualcosa di diverso… che so, la tinteggiatura delle pareti, il colore della divisa del personale. Macché, niente mi fa pensare di essere, decisamente, più vecchia. Ma forse, dopotutto, almeno questo di buono c’è: sembra che il tempo non sia trascorso, pare di rivivere quella stessa situazione. Quindi devo pensare intensamente che i miei figli siano ancora piccoli, che io abbia ancora tanto tempo davanti a me per godermi la tenerezza della loro infanzia, che mia madre sia perfettamente sana, di mente e di corpo, e che io stia assistendo all’agonia di mio padre.

Ma, seduta di fianco a questo letto, guardo il volto che poggia sui cuscini e non ho più dubbi: la mente di mia madre, già molto offuscata negli ultimi otto, dieci anni della sua vita, si è completamente chiusa, portando via con sé anche la vitalità del corpo, che era l’unica cosa che la, anzi CI sosteneva.

 

– 2 –

 

Adesso che so con certezza che non avrò più il tempo né l’occasione per comunicare con lei, sento montare dentro un inesauribile fiume di parole che vorrei la raggiungessero, se solo sapessi dove trovarla. Fra me e lei si era creato il vuoto, ma intendiamoci, un vuoto mentale, poiché fisicamente c’eravamo sia lei che io, non potevo mollarla, sapevo che avrebbe combinato qualche guaio ed anche quando non mi era possibile averla sott’occhio, i miei pensieri correvano sempre lì, al suo fianco. Mamma, ero io adesso a farle da mamma, ad aiutarla in ogni minima cosa che lei non era più in grado di fare da sola; aveva lo sguardo perso di una bimba piccola ed indifesa, aveva davanti il nulla, fra lei e la vita si era alzato un diaframma fatto d’inerzia e questa inerzia ci spingeva avanti, in giorni fatti di gesti sempre uguali, di discorsi non compresi, di pranzi ostinatamente da lei, preparati per me, dal sapore talvolta inaccettabile, ma che non avevo la forza di rifiutare.

Sempre più raramente riuscivo a farmi comprendere, sempre più spesso capivo che non mi seguiva, che la sua mente, o ciò che ne era rimasto, vagava per sconfinate pianure colme di cose o persone immaginarie, sempre pronte a farle del male e dalle quali, quindi, bisognava difendersi a tutti i costi.

 

– 3 –

 

Chi ti sta intorno, spesso, ti attribuisce una forza, un coraggio che a ben guardare in realtà non possiedi. O forse sei tu che tieni duro e quindi dai l’impressione di riuscire a farcela.

Io mi ero guadagnata, con gli anni, la patente di inossidabile e inaffondabile, ma, invece, spesso e volentieri, cercavo disperatamente qualcosa o qualcuno a cui aggrapparmi per non soccombere alla sua malattia mentale, per non seguirla su quella strada lastricata di fantasie insane e dolorose.

Il suo ansito si fa sempre più faticoso, anche se le detergo il sudore freddo, quello si riforma, e la rende simile ad una statua di cera. (Che, però, respira, respira…)

C’erano giorni in cui ero arrabbiata, furiosa con lei, con me stessa, con il destino o qualsiasi altra cosa che ci avesse trascinato in quel tunnel, dal quale non vedevo via d’uscita.

Avevo notti in cui non chiudevo occhio, alzandomi al mattino più stanca di quando mi ero coricata, pensando a quale sarebbe stato il futuro e quanto sarebbe durato.

E poi, invece, avevo giorni di sofferenza nera e di nostalgia: nostalgia di una madre che non avevo più anche se il suo corpo fatto di sangue e di carne mi stava ancora davanti.

 

– 4 –

 

Un neurologo, dopo averla visitata, mi aveva detto che avrei dovuto sperare che qualche malattia le minasse il fisico (eccezionalmente sano!), perché la sua demenza avrebbe potuto farla vivere anche fino a cento anni! Quel giorno mi ero sentita disperata come non mai ed avevo capito che non c’era via d’uscita.

(ogni tanto entra un infermiere e la guarda dal fondo del letto: non muta espressione, la guarda e basta, poi scuote la testa e mi dice che non le manca molto, il blocco intestinale e urinario che l’ha colpita è irreversibile, sta praticamente morendo avvelenata… e intanto fuori piove a dirotto, la pioggia tipica di un temporale estivo che è venuto a rinfrescare questo infuocato pomeriggio di luglio).

Ma se io mi avvicino al suo orecchio e le parlo, mi ascolterà?

Non credo proprio, ma io ne ho bisogno, lo devo fare per me. E così inizio a parlare, vado indietro alla mia infanzia, a quando ella mi consolava promettendomi le patatine fritte, a quando cantava per me con una bella voce melodiosa; erano sempre canzoni tristi, adesso che ci penso, ma io mi beavo a quell’ascolto.

Mia madre sta morendo: (queste parole sono differenti da qualsiasi altra, suonano troppo forti per essere accettate, sembrano appartenere ad un linguaggio che è altro da noi…)

 

– 5 –

 

Non le ricorderò gli ultimi dieci anni di vita, non voglio che se ne vada portando nelle orecchie la mia rabbia e la mia impotenza per non aver saputo, forse, aiutarla fino in fondo: sono un essere irrimediabilmente umano e troppe volte ho perso la pazienza. Voglio, invece, narrarle di quando era giovane ed io piccola, di quanto sia stata una madre amorosa e come io ne sia sempre stata perfettamente consapevole, anche quando ci siamo smarrite e forse io ero la tiranna (almeno così mi vedeva) e lei la vittima. Il fatto è che qualcuno aveva spento la luce nella sua testa e solo la luce è in grado di dare un colore alle cose; io procedevo a tentoni per cercare di scorgerla ed anche per ritrovare me stessa. Non ci sono mai riuscita, si è persa definitivamente nell’oblio ed ora tutto è finito, over, aus, terminèe…

Ogni tanto il respiro si ferma… (aspetta ho ancora poche cose da dirti, due minuti e poi sarai libera…)

Ma poi basta, tu hai sempre saputo che io ero tua figlia ed io ho sempre saputo che tu eri mia madre: certe cose non occorre neppure dirle ed io ne ho già dette troppe.

 

– 6 –

 

Non penso che ci rivedremo, io non ho fede e non credo a queste cose, ritengo piuttosto che sarò capace di tenerti per sempre dentro di me, voglio cercare di ricordarti com’eri, com’eri prima che questo mostro ti mangiasse il cervello. Intanto fuori ha smesso di piovere, già si vedono i primi raggi del sole. E, meraviglia delle meraviglie, all’orizzonte è comparso un arcobaleno. Ho sempre amato l’arcobaleno ed ecco che mi appare in uno dei momenti più dolorosi della mia vita: incamminati verso il fondo dell’arcobaleno, una leggenda dice che ci sia un tesoro, lì, e se tu lo trovi, magari, farai in modo di farmelo avere… a te non serve, ormai. Ma, poi, ripensandoci, forse il tesoro ai piedi dell’arcobaleno, altro non è che l’amore che ci ha unite e che è qualcosa di inconfondibile e di valore inestimabile. Ti prendo per mano e ti accompagno fin laggiù, così verificheremo insieme… ma poi io torno, ho ancora cose da fare e da dire.

Chissà di che colore è la pazzia… io ho creduto di caderci dentro in questi anni, insieme a te, ma poi non è successo.

E allora mischiamo i colori, mamma, tutti i colori della luce ritrovata, adesso che tu te ne vai in pace ed io, forse, ritroverò quell’equilibrio mentale che, per seguirti fino in fondo, ho rischiato di perdere.

(… Sospensione del respiro, siamo sole, io e lei, il volto si distende, asciugo il sudore ancora una volta, forse non si riformerà… è stato bello esserti figlia, è stato bello averti madre… silenzio…)

 

– 7 –

 

E’ rientrato l’infermiere, ha chiamato il dottore, non so nemmeno che faccia abbia. So solo che non ti risveglierai mai più.

Per quanto mi riguarda, prendo coscienza del fatto che, da adesso, ricomincio a volare.

Prima, le mie ali erano troppo pesanti.