I racconti del Premio letterario Energheia

Notturno_Roberta Sorrentino, Casoria(NA)

_Racconto finalista quindicesima edizione Premio Energheia 2009.

 

Dormono le cime dei monti e i burroni

dormono le balze e le forre

dorme la tribù dei rettili quanti ne nutre la nera terra

dormono le belve di montagna e la stirpe delle api

dormono i mostri nelle profondità del mare purpureo

dormono le tribù degli uccelli dalle ali spiegate.

“Allora? Cosa ne pensi?”. “Non dirmi che l’hai scritta tu!” Esclamò Matteo.

“Certo che no! Ti sembro forse Alcmane?”

“Chi diamine è?”

“Ovviamente un poeta greco di età arcaica”.

“Scusami tanto se frequento il liceo scientifico, per altro nella tua stessa classe e… non mi risulta che i nostri programmi prevedano letteratura greca, né immaginavo che la mia migliore amica ne fosse appassionata”. “Infatti non lo sono – affermò Livia con convinzione – o, almeno, a parte la trama di qualche mito, non lo ero fino a… stanotte”.

“Stanotte? Livia…sicura di star bene?”

“Certo. Stanotte, però, ho fatto un sogno decisamente inusuale: una voce lontana, a stento percettibile, continuamente spezzata dal frangersi delle onde contro una poderosa scogliera, mi ripeteva: ancora sette volte il Notturno di Alcmane. Così stamane, incuriosita, ho fatto una breve ricerca su internet e ho letto, in traduzione, la poesia che ti ho recitato poc’anzi. L’ho subito imparata a memoria, tanto mi è piaciuta”. Matteo la guardò attonito: sia lui che Livia avevano appena concluso il terzo anno dell’unico liceo scientifico disponibile, nel loro minuscolo paese fatiscente; si erano conosciuti ed avvicinati proprio fra i banchi della scuola superiore e, per la prima volta nell’arco di quei tre anni, non riusciva più ad intuire i pensieri di lei ma, soprattutto, s’affannava a rivedere in quegli occhioni castani sgranati, l’ultimo baluardo dell’equilibrio e della serenità che avevano sempre caratterizzato Livia. Proprio in virtù di questo caso eccezionale, decise di dissimulare la preoccupazione e sdrammatizzò: “Vorrei tanto aver fatto un sogno che mi avesse parlato di quella dannata orazione ciceroniana la notte prima dell’ultima interrogazione di latino, così avrei evitato il debito!”

“Spiritoso! E’ la somma che fa il totale! Come disse il grande Totò. Se dovrai passare l’estate a recuperare il latino, non dipende solo dall’ultima interrogazione. Hai trascurato questa materia tutto l’anno scolastico… cosa ti aspettavi? Comunque ti darò una mano, altrimenti a cosa servirebbero i veri amici?”. Quell’ultima domanda retorica tranquillizzò Matteo; era tornata la Livia protettiva e quasi materna di sempre.

I due ragazzi scrollarono i residui di sabbia bagnata rimasti sugli asciugamani: avevano trascorso l’intera giornata in spiaggia ed ora il grande astro infuocato che per ore aveva scaldato, asciugato ed arrossato le loro pelli adolescenti, si tuffava nel mare, quasi come se, avendo osservato tutto il giorno i bagnanti che si ristoravano dalla calura estiva, fra quei freschi spruzzi salati, volesse provarne anch’egli la medesima ebbrezza.

“Niente male,vero?”

Biascicò Matteo spostando gli occhiali scuri sulla testa per frenare il cespuglio di ricci, increspato dalla salsedine, che gli tormentava la fronte.

“Cosa?”

Chiese la ragazza.

“Il tramonto sul mare. In questo senso siamo fortunati, la nostra piccola Chiria ce ne offre tanti”.

“L’hai detto: solo in tal senso”.

Matteo scurì in volto; lui e Livia avevano sempre avuto idee diverse riguardo a Chiria, la cittadina in cui la famiglia di Matteo viveva da generazioni e quella di Livia si era trasferita poco dopo la sua nascita: lei sarebbe fuggita a gambe levate in qualsiasi momento e non faceva che ribadire il suo intento d’ intraprendere altrove gli studi universitari, rifiutando a priori d’ iscriversi alla facoltà di una città poco più grande rispetto a Chiria e abbastanza vicina ad essa; rimproverava perciò all’ingenuo Matteo le sue scarse ambizioni, non mancando spesso di schernire il suo stretto legame con Chiria. Tuttavia in quell’occasione entrambi evitarono d’intristire i momenti lieti, appena trascorsi e tacquero le ben note posizioni sull’argomento: il tramonto aveva ormai oscurato anche la “scogliera del vascello”, l’enorme e celeberrimo ammasso di rocce che si ergeva molto lontano dalla riva, per il quale Chiria era piuttosto celebre, così chiamato proprio perché, appunto, ricordava vagamente la forma di un vascello.

Rientrata a casa, Livia scoprì che era del tutto vuota: un biglietto all’ingresso la informava che i genitori sarebbero tornati ad ora di cena in quanto facevano visita ad un’anziana parente che abitava in uno dei paesini limitrofi. La sedicenne cominciò a girare le tre stanze della casa, come se le vedesse per la prima volta, poi entrò in camera dei genitori (avveniva di frequente quando si assentavano) e, come al solito, lo sguardo cristallizzò in un’altra dimensione la spartana mobilia circostante, per concentrarsi unicamente sull’oggetto più prezioso: uno scrignetto di legno rettangolare, intarsiato a mano, che le donne della famiglia materna si tramandavano da generazioni e di cui sua madre era gelosissima; fin da quando Livia era bambina non aveva mai voluto che lo toccasse (sosteneva infatti che l’avrebbe donato alla sua unica figlia il giorno delle nozze, come l’aveva ricevuto lei). In più il piccolo oggetto familiare era perennemente chiuso a chiave; proprio qualche settimana prima e quasi per caso, Livia si era trovata a sbirciare la mamma, senza che quest’ultima se ne accorgesse, mentre rifaceva il letto e cambiava la sua federa, dalla quale cadde un’asticella dorata: la chiave dello scrigno. Una serie di movimenti molto veloci e risoluti indusse la ragazza ad estrarre la chiave dal nascondiglio, per poi aprire il cofanetto: il diradarsi dell’ombra del coperchio, mostrò una collana d’oro giallo liscia e sottile, da cui pendeva una stella marina rossa e di medie dimensioni, coi margini ricoperti da una striscia d’oro e d’oro (ecco quel che più la incuriosì). Era anche la A, fissata al centro della stella. Livia non capiva a chi potesse appartenere quell’iniziale: sua madre si chiamava Giulia. Non sprecando altro tempo la ragazza richiuse lo scrigno, ripose la chiave al suo posto e nascose la collana in un cassetto della sua stanza.

Era appena lunedì e la voce seriosa ed impostata del meteorologo aveva annunciato una settimana di caldo afoso per la pressione di uno di quei venti o masse d’aria che alle orecchie inconsapevoli risultavano tutti uguali, a quelli troppo gretti ed ignoranti l’ennesimo portato di paesi stranieri che, ormai, invadevano l’Italia sotto ogni aspetto, persino quello climatico.

La noia sgranchisce le sue pigre dita, ostacolando le lancette dell’orologio perché rallentino; quei torridi giorni sembravano infiniti, passati fra il momentaneo ed effimero refrigerio di gelati e limonate, mattinate al mare, passeggiate in paese destinate a concludersi, entro breve tempo, per il disgusto provocato dalla vista di trasandate comari sempre pettegole, cui nemmeno quella temperatura rovente seccava la lingua, così da indurre Livia a tornare a casa, desiderosa di buttarsi a capofitto in un classico della letteratura italiana, letto e riletto, magari, ma certamente molto più vivido ed attuale delle fastidiose chiacchiere di paese.

“Cosimo Piovasco di Rondò. Visse sugli alberi -. Amò sempre la terra. Salì al cielo”.

“Drin-drin, drin-drin!!!”

I persistenti squilli del telefono disturbarono l’ultima pagina de Il barone rampante, di Italo Calvino ma Giulia, che nelle sua costante tutela delle apparenze detestava (fra le altre cose), far attendere chi cercasse lei o i suoi familiari e conscia che Livia, immersa nell’ennesima lettura, avrebbe tardato a rispondere, alzò la cornetta e sentì la voce di Matteo che la salutava cordialmente, chiedendole poi di parlare con sua figlia. Subito Giulia portò il telefono a Livia: “Come al solito chiami nel momento meno opportuno… sai che adoro Il barone rampante ed ora mi accingevo a leggerne la parte finale”.

“Non potevo saperlo! Andiamo, Livia, avrai letto quel romanzo almeno una decina di volte dall’inizio del liceo! Ma parliamo d‘altro: domenica sera ci sarà un falò in spiaggia, organizzato dai ragazzi dell’ultimo anno per festeggiare il diploma e tutta la scuola è stata invitata. Pensi di partecipare?”

“Puoi contarci. Questa settimana è stata talmente noiosa, che mi farà bene concluderla con un po’ di svago”. “Perfetto! Ora ti lascio; mi tocca fare un chilometrico giro di telefonate. La festa inizierà alle nove. A presto!” Prima ancora che Livia potesse aggiungere una sola parola, il ragazzo riattaccò.

I due giorni che mancavano all’evento si personificarono in altrettanti passeggeri su una nave sospinta dal soffio di Zefiro, dileguandosi all’orizzonte.

La festa era il tripudio dei sensi: il riflesso dell’enorme falò rigava le pupille, i piedi rabbrividivano al contatto con la sabbia raffreddata dalla luna e cominciavano già a ritmare quel suono che invadeva le orecchie dalla postazione del dj, il formicolio delle candele all’incenso s’insinuava nelle narici e un morbido cocktail alla frutta, preparato al grande tavolo del buffet, accarezzava la gola.

“Niente male la tua stella marina. L’hai pescata appositamente per l’occasione?”

“Matteo?! Da dove spunti? Non t’avevo visto!”

“Sono appena arrivato. Da dove hai preso quel ciondolo, per giunta con un’iniziale non tua?”

“Ho frugato fra le cose di mia madre, ma lei non sa nulla. Comunque vado a fare un bagno”.

“Forse ti raggiungerò tra poco”.

In men che non si dica i capelli erano già completamente bagnati e il corpo di Livia galleggiava a diversi metri dalla riva, con i piedi sospesi dal fondale. Alle sue spalle le rocce del vascello sembravano aver monopolizzato tutti i raggi lunari per attirare l’attenzione dell’adolescente, che cominciò a nuotare per arrivare alla scogliera. Poteva quasi sfiorarla con le mani, quando, all’improvviso, si sentì venir meno e la corrente la trascinò sul fondo senza che lei ne provasse timore: di quegli istanti non avrebbe mai ricordato nulla, compreso il motivo che l’aveva spinta al vascello.

Una sensazione di freddo le pervase il corpo e, aperti gli occhi in un’oscurità quasi ancestrale, sentì ancora quella voce, che le pareva d’aver scordato, ma che ora si esprimeva in termini diversi: “Compiuto il settimo Notturno di Alcmane”. La lingua di Livia era intorpidita dallo stupore e dall’acqua salata che aveva ingerito: non capiva dove si trovasse, né da chi provenissero tali parole, quand’ecco si ritrovò abbagliata da piccole, ma penetranti luci che le si avvicinavano progressivamente. Mai essere umano alcuno avrebbe potuto credere a quel che la ragazza vide in quel momento: tre donne dai capelli molto lunghi ed ondulati (rispettivamente biondi, bruni e rossi) ma crespi, seni voluttuosi e scoperti, con i capezzoli raggrinziti dalla salsedine e dal freddo, pelli chiarissime, labbra leggermente gonfie e colme di screpolature sanguinolente, braccia lunghe ed esili che culminavano in mani palmate: lo spazio fra le dita era, infatti, occupato da una sottile membrana semitrasparente che si allungava oltre le unghie, facendo somigliare quelle mani (se ancora così potevano esser definite), a delle pinne. Come se tutto ciò non fosse abbastanza anomalo, Livia si accorse che i lumi visti qualche secondo prima, non erano affatto spariti (come lei credeva); semplicemente le stavano così vicini che non riusciva più a distinguerli: erano le iridi delle tre donne.

La povera malcapitata, però, vinse tutte le remore e si sfogò in un acutissimo urlo quando s’accorse di essere distesa in uno sconosciuto anfratto roccioso, dietro la scogliera del vascello, circondata da figure femminili che, contrariamente a lei, su quegli scogli non stendevano gambe, ma lunghe code argentate e squamose.

Seguì un po’ di silenzio, rotto dalla voce cantilenante della donna bionda che disse: “Siamo figlie del mare, un tempo umane, ma scaraventate in quest’eschatià di abissi dall’emarginazione in cui la crudeltà del mondo ci ha relegate. Il mio nome è Charis, che nell’antico greco significa grazia. Mi tuffai in queste acque per porre fine alla mia misera esistenza dopo che, con l’inganno di false promesse e maliziosi complimenti sul mio grazioso aspetto, fui portata via dal paese natale e toccai le strade notturne del suolo italico, per soddisfare la lussuria e la libidine di chi mercificava il mio corpo. Ma lo spirito del mare fu salvifico con la mia anima e mi rese ciò che sono ora, senza però annullare i miei tristi ricordi di cui porto ancora i tremendi segni”. Livia non poté fare a meno di notare che la coda di Charis, in corrispondenza del pube, recava un grosso sfregio grondante sangue ed acqua.

“Di queste acque conosciamo misteri che ci è concesso celebrare solo durante la notte; il giorno è nefasto per chi

già sulla terra ha conosciuto solo il buio della solitudine. Il mio nome è Philìa, ossia amore, amicizia. Solo un po’ di comprensione ed amicizia chiesi al mondo, per allevare la vita ripudiata dallo stesso sperma che l’aveva fecondata e che cresceva nel mio grembo. Ma appena nata, fui costretta ad abbandonare la mia creatura, non riuscendo ad ottenere un lavoro per sfamarla che, nel contempo, mi consentisse di non allontanarmi tutto il giorno o, almeno, di portare mio figlio con me, poiché ad alcuna mano, diversa dalla mia, avrei potuto affidarlo. Affogai i miei dispiaceri in queste acque. Ma lo spirito del mare fu salvifico con la mia anima e mi rese ciò che sono ora, senza però annullare i miei tristi ricordi di cui porto ancora i tremendi segni”.

Livia scrutò con attenzione Philìa, accorgendosi che i suoi seni erano molto più turgidi rispetto a quelli delle altre, mentre le mammelle grondavano latte, misto a sangue.

Fu infine la volta della sirena con i capelli rossi: “Solo chi ci ama può renderci nuovamente mortali, raggiungendoci su questi scogli e baciandoci appassionatamente. La saliva di chi non proferisce nefandezze sul conto del suo prossimo, ci darà la spinta necessaria per nuotare con un unico colpo di coda fino alla riva e lì non dovremo far altro che attendere il sole: appena il suo primo raggio farà brillare la nostra coda, saremo per sempre libere. Il mio nome è Erotikè e suppongo non occorra traduzione. Fui sorpresa da mia madre ad amare un’altra donna; disse poi di volermi parlare in privato, così durante la notte salimmo in auto e lei guidò, fino ad una grossa rientranza a strapiombo sul mare. Appena scendemmo, mi chiamò figlia indegna e la sua spinta mi scagliò oltre il dirupo. Ma lo spirito del mare fu salvifico con la mia anima e mi rese ciò che sono ora, senza però annullare i miei tristi ricordi, di cui porto ancora i tremendi segni”. Erotikè indicò una grossa cicatrice sul suo sterno, inferta da una pietra, mentre precipitava.

D’un tratto la sirena, dalla chioma ramata, compì un’azione apparentemente strana: in una lingua del tutto incomprensibile intimò alle altre due di allontanarsi: con un po’ di fatica Charis e Philìa usarono il busto per sporgersi dalla roccia, poi s’immersero veloci in mare.

Livia ed Erotikè si osservarono reciprocamente con circospezione; ad un certo punto la ragazza vide che gli occhi delle creatura marina s’illuminavano di nuovo, ma questa volta in direzione del ciondolo che ancora era appeso al suo collo: “Cosa vuoi da me?”

Livia si sorprese di aver posto quella domanda. La sirena non rispose; sembrava che non avesse neppure sentito: “Perché i tuoi occhi sono cambiati? Perchè fissi in quel modo la mia collana? Se… se promettessi di non farmi del male, potrei anche donartela… ”

Livia aveva dunque provato ad essere più specifica: “Lo spirito del mare che ci ha fatto proprie, ci ha anche dotato di iridi capaci di aprirci un varco nel buio; altrimenti, come credi che potremmo orientarci nelle profondità del mare notturno? Sta’ tranquilla… nessuna di noi ti farà del male: se il dolore ha travolto una mente sensibile, questa non vorrà mai che anche altri lo provino. Potrei chiederti a chi appartiene quel ciondolo?”

Livia replicò con calma: “A mia madre. In verità, lei lo ha sempre tenuto nascosto. Ne sono venuta in possesso sette giorni fa, e più o meno nello stesso periodo ho fatto un sogno, decisamente singolare, in cui venivo avvertita di un settimo Notturno di Alcmane, o qualcosa di simile. Devo dire che questa settimana è iniziata in maniera bizzarra e sta per terminare con un incontro altrettanto originale, anzi, oserei definirlo ai limiti del soprannaturale”. “Non c’è nulla di neanche lontanamente soprannaturale nella nostra condizione –, esclamò la sirena offesa. – Soprannaturale è solo la malvagità che alberga in taluni esseri umani, come nostra madre!”

“No…nostra?!”, balbettò Livia impallidendo: “Esatto –, proseguì Erotikè. – Appena mi hai rivelato di aver sottratto quel ciondolo a tua madre, ho subito capito che si trattava di Giulia, Giulia De Santis, per la precisione. Giusto?”

“Fin troppo. Ma non credo d’essermi mai sentita così confusa in vita mia…”

“Allora lascia che sia io a consegnarti il bandolo della matassa: avevo circa ventidue anni quando conobbi Angelica. Fino ad allora, non avrei mai pensato di essere lesbica; nella mia vita c’erano stati diversi ragazzi, tutti più o meno importanti, ma l’incontro con Angelica mi sconvolse la vita. Mi confidò che neppure lei immaginava di amare una donna. Nel giro di pochissimi mesi, infatti, entrambe intuimmo che l’amicizia tra noi si era rapidamente evoluta in qualcosa d’altro. La nostra meravigliosa storia d’amore durò un intero anno e non basterebbero mille di queste lune, per narrare dettagliatamente gli innumerevoli momenti felici, trascorsi insieme. Sapevamo benissimo, però, che se il mare è sconfinato e aperto ad ogni possibilità, non si può dire lo stesso dei paesini che lo circondano: nessuno ci avrebbe accettato, incluse le rispettive famiglie; così, in occasione del nostro primo anniversario, regalai alla mia adorata Angelica la collana che in questo momento porti tu: la stella marina è autentica, la pescai e la feci essiccare personalmente, poi l’affidai ad un orafo per le rifiniture e l’iniziale. Il regalo era accompagnato da una lunga lettera in cui le ribadivo, apertamente, tutto il mio smisurato amore, proponendole di fuggire all’estero. Commisi, però, il colossale errore maledetto di lasciare incustoditi il pacchetto e la lettera. Nostra madre venne a conoscenza di ogni cosa, proprio la sera prima dell’anniversario e… beh, hai già ascoltato il tragico epilogo. Oggi ricorre il diciassettesimo anniversario della mia scomparsa. Quanti anni hai?”

“Se… sedici”, mugolò Livia, che, nel frattempo, si sentiva bruciare gli occhi.

“Dunque sei nata un anno dopo il misfatto. Ad ogni modo, mi duole averti turbato, ma era giusto che conoscessi la verità. Non t’ho nemmeno domandato come ti chiami”.

“Livia. E tu? Suppongo che i nostri genitori non ti avrebbero mai chiamato Erotikè”.

“No, Livia, non i nostri genitori…solo la mamma; lei capeggiava la famiglia, mentre era il suo burattino. Mi chiamo Diana, infatti, perché Giulia De Santis ammirava la principessa del Galles”.

Calò il silenzio: due sorelle occhi negli occhi per la prima volta dopo così tanto tempo. Si guardarono intensamente, pensando entrambe che se avessero potuto unirsi in passato, forse le situazioni si sarebbero sviluppate diversamente.

Nessuna delle due espresse tale opinione. Eppure Diana sapeva ciò che Livia stava fantasticando e viceversa. Questa consapevolezza le fece sorridere e s’accorsero di avere ambedue un canino lievemente sporgente. Livia si rese conto che, sette notti prima, era stata la voce del mare a parlarle, in quanto lei aveva un compito ben preciso, al quale avrebbe adempiuto molto volentieri; senza ribrezzo né timore, toccò la mano palmata della sorella, le accarezzò delicatamente le guance, dicendo tra sé che le fiabe descrivono la sirene come creature misteriose ed affascinanti, mentre lei si era imbattuta in esseri quasi mostruosi. Tolse la collana e l’agganciò al collo della sirena, la quale si commosse; Livia le deterse le lacrime: “Sono basita. Non credevo che mamma fosse capace di una simile cattiveria; ma ho una splendida notizia per te: il mio approdo qui non è stato affatto casuale; non sono annegata perché mi è mancato il fiato… una forza misteriosa mi ha trascinato a fondo”.

“Infatti io e le altre ti abbiamo trovato lì. Ma non capisco cosa stai cercando di dirmi…”

“E’ tempo che tu consegni questo gioiello alla legittima destinataria. Da quando mi avete riportato in superficie sono trascorse parecchie ore. Si approssima l’alba e per allora io ti farò tornare mortale”.

Un barlume di speranza si accese negli occhi di Diana: sollevò la pinna della coda per poi riabbassarla subito.       “Lo vorrei tanto, ma… questa sorta di trasformazione, prevede una regola: sulla sirena il bacio del mortale ha effetto soltanto se quest’ultimo l’ama davvero; in caso contrario la sirena resta tale per l’eternità. Siamo sorelle ma ci conosciamo appena. Non puoi esserti già legata a me… in base a quale criterio affermi che funzionerà?”

“Purtroppo non posso darti questa sicurezza, ma rappresento l’ultima opportunità che ti rimane”.

Diana pensò che in quel caso il rischio fosse l’unica soluzione. Annuì. Livia le si accostò, di più.

“Lo so, ti sembrerà un incesto”. Sentenziò gravemente la sirena. “E’ l’ultimo dei problemi. Tu prega solo che vada tutto bene. Appena ti sarai tuffata, io nuoterò fino alla riva”.

Replicò la ragazza che, non volendo esitare oltre, chiuse gli occhi e posò le proprie labbra su quelle della sorella, avvertendo molti granelli di sabbia e il tepore di qualche goccia di sangue per le screpolature che si allargavano ulteriormente; quando le due lingue s’incrociarono, Livia ebbe la conferma che, negli ultimi diciassette anni, Diana si era nutrita esclusivamente di pesce crudo. Di colpo i due corpi si staccarono; la coda della sirena, violentemente gettatasi dallo scoglio, sollevò una gran massa d’acqua che bagnò il volto di Livia. Poco dopo anche la ragazza toccò la riva: ormai l’intera spiaggia era deserta per la fine della festa.

“Sei giunta qui con un solo colpo di coda?”, chiese Livia alla sorella, sdraiata sulla battigia.

“Sì, ma è prematuro allietarsi. Attendiamo l’alba. Non manca molto”.

Lo scialbo sole mattutino sbadigliò alle ultime nuvole e si fece largo fra i residui dell’oscurità. Livia fremette. Diana avrebbe tanto voluto stringere la sabbia con le mani, ma i suoi arti palmati le creavano qualche difficoltà.

Le squame della coda specchiarono i raggi solari e, come attratte da un magnete, scivolarono una ad una verso il basso, per poi sparire in mare: due gambe piene di tagli, dovuti alle squame che, per anni s’erano conficcate nella pelle, apparvero con stupore alle due ragazze. Le membrane in mezzo alle dita si ritirarono velocemente, fino a scomparire.

Si abbracciarono piangendo. Diana, però, era completamente nuda: bisognava trovare qualcosa da metterle addosso, per consentirle di allontanarsi da lì. Livia si ricordò della borsa che aveva lasciato la sera prima; la recuperò in fretta ed estrasse il colorato copricostume di cotone, da far indossare alla sorella. Quest’ultima, quasi non avesse aspettato altro, si alzò sulle sue gambe, senza la minima incertezza e si vestì come una qualunque donna.

“Cosa farai ora, Diana?”

“Ho un conto in sospeso…”

“Vorresti vendicarti della mamma?”

“Forse ho omesso d’informarti che i mortali possono essere sbranati dalle sirene e laggiù ne sono rimaste due particolarmente affamate!”

“No, Diana. T’impedirò di commettere una pazzia del genere. Uccidendo nostra madre ti macchieresti del suo stesso crimine e saresti uguale a lei. Desideri questo? Trova la forza di perdonare o, almeno, di dimenticare!”

In quel momento a Diana tornò in mente un cantante che piaceva molto ad Angelica: Fabrizio De Andrè. Angelica era una fervente cattolica e, fra i tanti testi di De Andrè, apprezzava in particolare Il testamento di Tito, dedicata ad uno dei due ladroni, crocifisso insieme a Gesù; l’ex sirena rammentò quanta ammirazione destasse nella sua amata il fatto che, De Andrè, pur essendo ateo e confutando, attraverso Tito, i dieci comandamenti uno ad uno, parlasse infine, riferendosi a Cristo, di “pietà che non cede al rancore”. Per una manciata di secondi, che le sarebbero poi parsi i più lunghi della sua vita, quella frase le risuonò ossessivamente nella testa: sì, ora lo sapeva, insegnamento cristiano o scelta etica, il perdono aveva in ogni caso un valore inestimabile, elevando spiritualmente chi lo concede. L’amore per Angelica l’aveva resa migliore, ancora una volta. Disse a Livia che, innanzitutto, sarebbe andata alla polizia per far annullare il suo certificato di morte, inventando una menzogna convincente, al fine di evitare complicazioni; poi avrebbe cercato Angelica ovunque, senza neppure rivedere i genitori, anzi, pregò la sorella di tacere sulla vicenda appena accaduta. Infine baciò la fronte di Livia e corse via.

Stravolta e persino ancora incredula, la sedicenne passeggiò lungo tutto il bagnasciuga: ai tentennamenti nell’intraprendere la comunicazione con Diana e le altre sirene, era corrisposta un’impressionante rapidità nella risoluzione del dramma; quella giovane donna dai capelli rossi aveva fatto perdere le proprie tracce con la medesima disinvoltura che aveva condotto la sorella minore al suo cospetto. D’un tratto Livia scorse in lontananza un ragazzo su un grande asciugamano rosso; vi si appropinquò e scoprì che era Matteo: dormiva profondamente.

“Sveglia, sveglia, pigrone! Cosa ci fai qui?”

Lui aprì gli occhi di soprassalto e sussultò: “Livia! Ma che fine hai fatto ieri sera! Mi sono preoccupato tantissimo! Ti ho aspettato e poi…”

“Poi devi esserti addormentato. Ascolta: ho trascorso la nottata più avventurosa della mia vita. Tieniti pronto ad una storia sensazionale!”

“Tutti i racconti che vuoi, ma prima corri a fare una doccia!”

“Perché?”

“Me lo chiedi, Livia? Emani un insostenibile tanfo di pesce!”

La ragazza rimase sbigottita, sgranando tanto d’occhi per via del dubbio (mai accertato), d’aver materializzato il frutto della sua fervida immaginazione che, fin dall’infanzia, lavorava senza posa per sentirsi meno sola, meno… figlia unica!