Trincea contro la barbarie.
_ di Costantino Dilillo.
Non ho mai conosciuto mio nonno paterno, era nato negli anni 80 dell’800. Lasciò qualche pezzo di sé in una trincea della prima guerra, e tornò a casa. Se ne andò qualche anno dopo, in silenzio. Mio padre era un ragazzo allora.
Mio padre mi raccontava spesso di lui, del suo silenzio, della sua austerità, dei suoi stringati racconti, di quella volta che aveva detto: “A Gorizia ho visto un teatro: era bello.”
Gorizia. Fronte di guerra dove:
“sotto l’acqua che cadeva a rovesci/
grandinavano le palle nemiche./
(…)
“Oh Gorizia, tu sei maledetta /
per ogni cuore che sente coscienza/
dolorosa ci fu la partenza/
e il ritorno per molti non fu.
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A scuola ci dovrebbero andare tutti, diceva mio nonno, come in un sogno di socialista ingenuo: e tutti saper leggere e scrivere e capire la filosofia, l’arte, la storia, la vita dell’umanità, i pensieri della gente. E capire il teatro, il dramma e la commedia. E dopo, ognuno farà il suo mestiere, chi il medico, chi l’ingegnere, chi il calzolaio, chi il contadino. Ma alla sera, dopo il lavoro, il dottore e il calzolaio, che hanno fatto le stesse scuole, si trovano sulla piazza e parlano di teatro e di arte e di filosofia.
Perché tutti possiamo capire e apprezzare le cose belle della vita.
Così diceva mio nonno: anche se di ricchezze e professioni diverse, la gente deve essere unita dalla cultura, dai saperi.
Il sogno di mio nonno si è avverato, ma in un modo distorto.
Le persone oggi si incontrano e, qualunque mestiere facciano, parlano fra loro, sì, ma di gol, di campionati, di vestiti e di automobili: di merci oppure di soldi da vincere alle lotterie per poter comprare più merci.
Però, quando penso che un noto ex sindacalista, Cofferati, è uno dei maggiori esperti di opera lirica in Europa, allora credo che mio nonno avesse ragione nel pensare che per esercitare al meglio non solo una professione ma anche solo il “mestiere di essere umano” occorra essere immersi in un ambiente che offra stimoli alla creatività delle persone, attraverso la scoperta o la riscoperta delle parole, dei pensieri, degli affetti profondi, delle passioni, dei ritmi del corpo e della voce dell’immaginazione.
Proprio nel senso che l’esercizio quotidiano della conoscenza e della scoperta dei territori estesi nel mondo e di quelli interiori, possa essere l’unica trincea contro la barbarie.
Per decenni, per tenere lontani i ragazzi dalla strada, dalle devianze, per la loro educazione sentimentale e civile e culturale non si è puntato sul teatro, sui centri di lettura, sulle associazioni culturali, sulle biblioteche. Si è puntato piuttosto sui palazzetti dello sport, sugli stadi megagalattici, sulle aggregazioni di giovani in tifoserie pronte a trasformarsi in corpi elettorali compatti e lasciando che in alternativa i ragazzi avessero solo discoteche e angolini bui.
C’è un insostenibile senso di vuoto in una società senza cultura che ha affidato la formazione delle giovani generazioni alla TV e alle compagnie dei telefoni e a chi vuole solo vendere prodotti di scarso valore.
Eppure. Eppure.
Anni fa in una scuola elementare tenni un laboratorio di scrittura creativa collegato a esperienze teatrali per i ragazzi. A fine laboratorio, uno di loro, un bambino di 10 anni, mi disse: “il teatro è un posto dove non c’è niente, ma ci può succedere di tutto”.
Io pensai a mio nonno e fui felice anche per lui.