I brevissimi 2014 – La morte ha umane sembianze di Jacques Ferrand_Latina
_Anno 2014 (I sette peccati capitali – La superbia)
“Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento,ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato”(Dante Alighieri, Canto XI Purgatorio)
“Hybris. Le fantomatiche divinità dell’Olimpo, sulla cui esistenza nutro seri dubbi, puniscono questo vizio capitale dando sfogo alla loro fantasia. Esatto, come un vasaio nella sua bottega, il Primo Motore Immobile plasma l’uomo, che tende al ricongiungimento con esso. Sfortunatamente, è proprio della natura umana il tentativo di sorpassare il limite. L’artigiano produce meticolosamente la propria opera, ma è forse colpa sua se chi acquista il vaso, a causa della propria noncuranza, lo dimentica nei giardini del ninfeo e lo schiavo sbadato lo urta, mandandolo in mille pezzi e preparandosi a subire i rimbrotti del padrone? Ai tempi dei miei avi, i barbari Medi sciamarono dalle profondità più oscure delle terre asiatiche. Milioni di esseri sottosviluppati strisciarono sin dai palazzi dorati di Serse per assoggettare la Grecia. Il loro capo, un uomo, ebbe la pretesa di sfidare gli dèi. Che io possa morire in condizioni di indigenza se non dico il vero affermando che scatenò le ire di Poseidone”.
Le rivolte egiziane erano state domate. I pareri dei Magi risultavano propizi e favorevoli all’Asia. La conquista della Grecia richiedeva uno sforzo considerevole da parte di ogni suddito, ma Serse era solleticato all’idea di vendicare la sconfitta di Maratona, schiacciando come formiche i cittadini irrispettosi di Atene. La fretta, cattiva consigliera dei Persiani a suo tempo, fu accantonata a favore di una tabella di marcia rigida e intelligente. Serse era corso trafelato ad Abido, richiamato a osservare i lavori, ormai terminati, per stabilire un ponte di barche che permettesse alle sue armate di cominciare la spedizione militare. Guardò negli occhi la prima fila di soldati che si accingeva ad attraversare l’Ellesponto. Tornarono immediatamente indietro.
Una forte tempesta, di quelle che non si vedevano dai tempi di Gilgamesh, si accanì contro le attrezzature, vanificando il lavoro degli ingegneri. Serse comandò, non in preda all’ira, ma per garantire la sua immagine di fronte agli occhi dei popoli asiatici, che si flagellasse il mare. Inoltre furono gettati in mare i ceppi e l’Ellesponto venne marchiato a fuoco, al suono di queste parole ribollenti di albagia: “Onda amara, il mio signore ti infligge questo castigo perché l’hai offeso, senza aver da lui ricevuta offesa alcuna. Il re Serse ti varcherà, che tu voglia o che non voglia. È ben giusto che nessuno fra gli uomini ti offra sacrifici, perché tu non sei che un fiume torbido e salmastro”. Una volta terminate le operazioni, fece decapitare ex abrupto gli ingegneri.
Tre lunghi anni si erano rivelati appena sufficienti per la costruzione del canale. Bubare e Artacheo avevano diretto i lavori alacremente, memori in ultima analisi dell’infelice sorte dei loro corrispettivi sull’Ellesponto. Ognuno, in fondo, è affezionato al proprio collo. I Fenici si distinsero per efficienza e trascinarono gli altri: il canale del monte Atos era pronto per l’uso. Serse aveva scelto di imbarcarsi nella realizzazione di un’opera così estremamente complicata per futili motivi, ritenendo che il monte Atos simboleggiasse la Grecia, pronta a inchinarsi al suo cospetto. Il tempo, unico giudice infallibile, ha stabilito la sua pena.
“Capisci ora le conseguenze della hybris di Serse? I barbari sono stati mandati allo sbaraglio. Le nostre lance hanno trionfato a Platea, le navi di Temistocle hanno sancito la sconfitta navale della flotta fenicia in quel di Salamina. Serse, uomo avventato. Un giorno ti ricorderai delle mie parole, Alessandro. Ora accompagnami lungo il viale e continuiamo a passeggiare” Aristotele si avviò quindi in direzione dello stagno, accompagnato dal figlio del re di Macedonia.
Alessandro aveva archiviato le parole di Aristotele come il pensiero di un illuso, ritenendo ad esempio il ponte sull’Ellesponto non il frutto della mente obnubilata di un folle, bensì un capolavoro logistico di alto livello partorito dalla genialità di un condottiero capace di unificare sotto i suoi stendardi i popoli di un intero continente. Quello stesso continente che ora Alessandro si apprestava a conquistare. Per arrivare ai confini del mondo.
La spedizione in Asia Minore si risolse in un gran successo e Alessandro sottomise la Frigia. A Gordio raggiunse Parmenione, il più fidato dei sottoposti del compianto Filippo di Macedonia.
Parmenione vedeva in Alessandro raccolte la debolezza e la forza del genere umano: tozzo e robusto, perfetto per il combattimento, possedeva un tono di voce aspro e portava la barba cortissima, corredo fisico cui accompagnava un’intelligenza creativa, efficiente e solida che forniva alla sua immagine un carisma senza eguali ma che non lo tratteneva dall’ubriacarsi coi suoi commilitoni. In qualità di supervisore, Parmenione si riteneva responsabile delle scelte di Alessandro, cercando di riportarlo a più miti consigli ogni volta che l’irruenza giovanile minacciasse di far scricchiolare le fila della falange. Lo vide arrivare a Gordio, splendente nella sua uniforme, riconoscibile per il pennacchio sull’elmo del comandante in capo. A dare ascolto alle dicerie della popolazione locale, anni prima re Mida aveva fatto il suo ingresso nella città a bordo di un cocchio, che si trovava ora nel tempio di Zeus, legato da corteccia di corniolo. Sempre secondo i barbari, chi ne avesse sciolto il nodo sarebbe diventato il re del mondo. Parmenione tendeva a fidarsi più del suo istinto che delle testimonianze antiche condite da spezie al profumo di leggenda e suggerì ad Alessandro di non cimentarsi nell’impresa. Vivi kàta mètron e rispetta gli dei, gli unici due comandamenti che seguiva. Ovviamente, il giovane condottiero prestò poca attenzione al borbottio di Parmenione e in sella a Bucefalo si diresse verso il tempio. Alessandro non conosceva le scarpe, né desiderava perdere tempo in quisquilie, perciò tronco di netto il nodo, le cui corde erano precedentemente incastrate alla perfezione, incurante degli spettatori che si lamentavano, tacciandolo di vanagloria. Li fulminò con lo sguardo, ottenendo un silenzio di tomba, interrotto soltanto dal vento che gli scompigliava la chioma.
Nonostante avesse fondato numerose città a suo nome, varcato le porte dell’India e combattuto sull’Idaspe, Alessandro Magno si spense a Babilonia, nel secco clima di giugno del 323 a.C. Aveva mosso un passo verso la cima dell’Olimpo. Un passo forse più lungo della gamba.
Le fontane, è risaputo, sono dappertutto, e a partire dall’antichità venivano costruite per soddisfare i gusti dei committenti. Una fontana molto particolare si trovava in quel di Cadice, in Iberia. Era alimentata non dall’acqua, ma dalle lacrime di un uomo. “Alla mia età, Alessandro aveva conquistato il mondo” si lamentava Giulio Cesare, piangendo come se quel maramaldo Pompeo gli avesse soffiato il consolato. Un lato del suo carattere, questo, non certo messo in risalto nei suoi Commentarii.
Col tempo Gaio Giulio Cesare imparò a controllare le sue emozioni. Nel 46 a.C. aveva Roma ai suoi piedi e stava celebrando il trionfo sui Galli. I cittadini festeggiavano lungo il corteo della via Sacra, omaggiando il generale come da copione con insulti di vario genere legati alla sua presunta omosessualità, mai negata dagli storici. Dante l’avrebbe ugualmente collocato in Paradiso, alla luce di una rivelazione del genere?
Cesare non pareva comunque accorgersene, tanto che mantenne la stessa espressione in volto per tutta la durata della celebrazione, in risposta alle calunnie e alle maldicenze che lo volevano suscettibile e sensibile agli sbalzi d’umore. L’uomo di 54 anni ha imparato con l’esperienza.
Uno schiavo lo aspettava di fronte al carro. Chiamò Cesare e gli si rivolse delicatamente con un sussurro. Memento mori. Ricordati che devi morire. Gaio Giulio Cesare, con Roma ai suoi piedi e Vercingetorige in catene che aspettava la fine della sua prigionia, sbiancò. Si coprì con il volto e pianse. Pianse a lungo, non di gioia. Senatori e parenti accorsero a complimentarsi per il trionfo, interpretando la sua commozione come segno di umanità.
Eppure Cesare vedeva nei loro volti l’immagine di Alessandro, e leggermente più sfocata quella di un sovrano persiano, forse Serse, ma non ci avrebbe giurato. “Ho le traveggole” si disse. Vedeva invece uomini potenti, che avevano sfidato la sorte con alterne fortune, con dadi truccati o con sesterzi falsi. E nei loro occhi scorse la morte.
“La morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare”(Jorge Luis Borges)