Non chiudere gli occhi_Giulia Alesci, Messina
_Racconto finalista ventesima edizione Premio Energheia 2014.
Miglior racconto per la realizzazione di un cortometraggio.
Non guardarti indietro.
Vai avanti.
Non cadere.
Corri.
Sopravvivi.
Il mantra che mi ripeto è questo. Se mi fermo, perdo tutto.
E non posso permettermelo.
Devo farmi forza. Devo andare avanti.
Ignora le gambe che bruciano.
Ignora il dolore.
Ignora il cuore che sbatte furiosamente contro lo sterno.
Ignora tutto.
Ascolta i suoi passi.
Capta i suoi movimenti.
Ignora il resto.
Ignora il sangue.
Scappa!
Corro.
Mi inoltro nella foresta sempre di più.
Non vedo niente. È troppo buio.
Mi accorgo degli alberi solo quando sto per schiantarmici contro.
Schiva.
Non inciampare!
Inciampo.
Affondo in una pozza di fango denso – sabbie mobili?
Esci, subito!
Riesco ad arrampicarmi sulla riva tirandomi su grazie a una grossa radice esposta.
In tempo per girarmi e vederlo.
È fermo sulla riva opposta e mi osserva.
Un mostro di buio.
Ha la consistenza della nebbia. I denti azzurri sembrano illuminarsi sul nero pece della pelliccia di fumo.
Gli artigli fanno lo stesso.
Sta fremendo.
Non oso muovermi.
Se mi volto mi attacca.
Restiamo a fissarci.
Sento l’adrenalina che mi irrigidisce i muscoli.
Rimango in allerta, le orecchie tese.
Un solo brivido dell’essere.
Mi basta quello e sono pronta a scattare.
Un sassolino affonda nella sabbia fangosa.
Ma io sono già oltre la boscaglia più fitta.
Il fango sembra cementarsi su di me. Impiastriccia i capelli rossi e ribelli che mi sverzano il viso.
I vestiti sono pesanti.
Vai avanti. Non ti fermare.
Inciampo varie volte nelle radici sconnesse.
Perdo l’equilibrio, cado, mi rialzo.
Sarei disposta a strisciare nei rovi pur di non finire nelle sue grinfie.
Il fango mi finisce sugli occhi.
Corro alla cieca, sperando di non finire in altre fosse.
Porta le mani avanti.
Non ti fermare.
È dietro di te!
All’improvviso un ululato sovrannaturale si leva dal bosco.
Ha qualcosa di metallo.
L’eco della valle gli risponde.
Riapro gli occhi.
In tempo per accorgermi che gli alberi si stanno diradando.
Una radura?
Un burrone.
Mi blocco.
La terra è spaccata.
Un’enorme “crepa” divide la valle in vari pezzi lontani.
La voragine è nera.
Non c’è sole ad illuminarmi, né luna, né stelle.
Eppure le nuvole hanno una sfumatura arancione.
Guardo lontano e capisco il perché.
Un vulcano su uno dei continenti lontani sta eruttando.
La lava incandescente e luminosa scivola veloce sulla parete di terra, fin dentro il burrone.
Dove è inghiottita dal buio.
Un ringhio mi fa girare.
È qui.
Davanti a me.
Ma non è solo. Non era stato l’eco a rispondergli.
Altri mostri lo affiancano.
Li distinguo per il diverso colore di denti ed artigli e dalla grandezza.
Quello azzurro è il più grande.
Il panico inizia a farsi sentire, ma lo rimando giù.
Lancio occhiate veloci a destra e sinistra.
Il burrone si estende da entrambe le direzioni.
Scappa!
L’erba alta mi separa da quel gruppo pauroso.
Un fulmine cade dietro di me – su qualche continente lontano?
Assieme ad esso, una vocina mi sussurra qualcosa nella testa.
Rotola nell’erba alta e scappa.
La mia bassa statura mi torna utile, alla fine.
Continuo a correre.
Il fiato mi si spezza.
Le mie gambe magre e giovani bruciano come la lava del vulcano.
La camicia è fradicia di sudore, fango e sangue.
Il mio.
I tagli che mi corrono su gambe e piedi si moltiplicano.
I rami mi graffiano le guance.
Qualcosa mi colpisce in faccia e sento il sapore di ferro in bocca, il labbro si gonfia.
Ignora il dolore.
Ma le gambe stanno cedendo!
Puoi farcela!
Non sento più le ginocchia.
Dietro di me sento il fluire dell’oscurità, lo stridio degli artigli e le schegge di legno che mi finiscono addosso. Non stanno correndo.
Si arrampicano sui tronchi.
Gli alberi spariscono e mi ritrovo di nuovo sul bordo del baratro.
La consapevolezza.
Questa volta non ho scampo.
Mi giro verso i mostri, pronta ad affrontarli.
Gli occhi mi pizzicano e sento le lacrime bagnarmi il viso, trascinando con sé lo sporco e il sangue.
Non posso più scappare.
Sbatto le palpebre freneticamente, cercando di mettere a fuoco la macchia sfocata di inchiostro.
E attendo.
Sono pronta a lottare.
Le chiazze scure affondano gli artigli nella terra sabbiosa e si scagliano su di me all’unisono come una valanga nera.
Mi investono con tutta la loro forza.
Non sento più il terreno sotto i piedi e precipito. Le lacrime salgono, invece di scendere.
Addio, mamma.
Addio, papà.
I mostri sono avvinghiati a me.
I denti mi strappano la camicia bianca e leggera d’ospedale,
la carne, gli organi.
Rosicchiano le ossa e il cuore.
E il buio della voragine ci inghiotte.
Emma era sempre stata una ragazzina dal cuore grande e dal carattere dolce, intraprendente e ribelle, come i suoi lunghi capelli rossi. Li aveva ereditati dalla nonna: lo stesso caratterino, gli stessi capelli.
Aveva solo 14 anni.
Sua madre gliele acconciava sempre, quelle ciocche di fuoco, cercando di domarle sotto le sue mani esperte, senza mai riuscirci. Qualche ciuffo riusciva ogni volta a sfuggire dalla presa degli elastici e dei fermagli.
Desideravano la libertà, proprio come lei, che amava correre a piedi nudi su un prato, giocare nel fango senza alcun pensiero, col vento che le attizzava le fiamme di cheratina.
Ma poi era successo.
Emma si era ammalata.
La mamma e il papà l’avevano portata dal medico, non sapendo che altro fare.
E quando avevano scoperto il male della figlia, ella incominciò la cura.
Perse i capelli. Il suo animo si incupì. Si chiuse a bozzolo su se stessa.
Non voleva più vedere i suoi amici.
Voleva stare da sola.
Voleva sconfiggere da sola quel male.
Ma il male non era solo. Due amichetti lo avevano raggiunto.
Emma era troppo debole e la chemioterapia troppo invasiva per il suo tenero corpicino che sembrava assottigliarsi sempre di più.
Quando Emma si svegliò, guardò il proprio funerale.
Mamma e papà che piangevano sulla piccola bara candida.
Si morse il labbro, con una stretta al cuore e una strana pace nell’animo.
Aveva perso. Tutto.
I mostri di buio avevano vinto.