La vita segreta della rosa_Clara Fumagalli, Macomer(NU)
_Racconto finalista ventesima edizione Premio Energheia 2014.
La storia della mia vita potrebbe sembrarvi breve.
Forse perché facevo il possibile per essere al limite, che a volte sorpassavo senza troppi complimenti.
Forse perché sapevo che il mio passaggio qua sarebbe stato fuggente come un attimo.
Non volevo sprecare neanche un secondo.
Dopotutto sono felice che la mia vita sia andata così.
Non ho nessun rimpianto, nessun rimorso.
Io ho vissuto davvero.
Il sole che entrava dalla finestra mi scaldava la pelle, e forse anche un po’ il cuore.
Non ero mai stata in quella casa prima, eppure aveva un qualcosa di familiare. La sistemazione dei mobili, un piccolo vaso di fiori bianchi e rosa, uno specchio dalla cornice finemente intagliata, una collana di perle sopra il comodino. Mi ricordava la stanza da letto di mia madre, così apparentemente organizzata, curata in ogni minimo dettaglio, ma che tuttavia faceva trapelare un filo di malinconia, proprio perché in realtà non la rispecchiava per niente.
Quello che rendeva la mia attività più piacevole era visitare le case degli sconosciuti, e trarre conclusioni sulla loro personalità, sulle loro vite, e mi chiedevo se anche loro fossero come mia madre. E quasi sempre era così. Sontuosi palazzi, ville sfarzosissime, ricche di oggetti tanto futili quanto incommensurabilmente invidiabili. Eppure sembravano tutte vuote, esattamente come coloro che le abitavano.
Avevo imparato a non giudicare nessuno, perché so bene cosa possa nascondere una persona dietro la facciata. E avevo capito che tutti dovevano essere salvati, me compresa. Ma per certe cose nessuno ci può aiutare; è questo il brutto della vita. Io ero sempre riuscita a cavarmela da sola, perché non potevo contare su nessun altro se non su me stessa. E non credo di aver mai avuto seri problemi, o almeno ho sempre cercato di minimizzare anche le situazioni più nefaste. Perché non volevo che qualcuno o qualcosa rovinassero l’angolo di paradiso che mi ero costruita.
Avevo lottato per ottenere tutto ciò che avevo, e questo rendeva ogni cosa più preziosa.
Anche io ero indubbiamente turbata dal mostrare il disordine della mia anima nel luogo in cui passavo la maggior parte del tempo, e per questo tenevo maniacalmente alla sistemazione di ogni singolo oggetto, a cui era assegnata una posizione, un verso, un angolazione personalizzate.
La mia camera era il mio tempio. Se quei muri potessero parlare vi racconterebbero quello che ero veramente: una ragazza senza alcuna direzione, ma che aveva dei sogni. Una ragazza disposta a tutto per ottenere una corona. Ero diventata quella persona grazie a mia madre. Lei era tutto per me: la mia migliore amica, la mia confidente, la mia ancora, la mia aspirazione. Ma allo stesso tempo era la mia più grande preoccupazione, la mia più grande paura. Temevo di non essere abbastanza per lei, e ogni giorno cercavo di fare ciò che lei avrebbe fatto, di dire ciò che lei avrebbe detto, di indossare ciò che lei avrebbe indossato. Facevamo persino lo stesso lavoro, perché tutte e due eravamo dipendenti dall’ossessione dell’apparire.
A casa mia non mancavano mai le rose fresche sul tavolo, rigorosamente di cristallo. Quadri e specchi decoravano ogni ambiente, la nostra immagine era ovunque. Ma ciò che più ci piaceva esporre erano i gioielli e il denaro.
Proprio all’ingresso dell’abitazione, esattamente davanti al portone, si trovava un piccolo mobiletto, sovrastato da un imponente cornucopia d’argento, da cui fuoriuscivano i nostri possedimenti più brillanti: tiare, anelli, bracciali, collane, orecchini esclusivamente d’oro e pietre preziose, dalle più svariate forme e colori. Proprio a fianco a tutto quel lo spettacolo, non mancava mai un mazzetto di banconote, scrupolosamente ripiegato su se stesso e raccolto da un prezioso ferma soldi incrostato di diamanti.
Niente ci rendeva più fiere di sorprendere gli ospiti con una visione così celestiale.
Il mio pezzo preferito però non era assolutamente eccentrico o esagerato, ma era semplice e delicato, per certi versi insolito e fuori posto in mezzo a tutti quegli oggetti così poco convenzionali: il solitario che mio padre regalò a mia madre quando seppe che aspettava me. Era così luccicante da poterti accecare se l’avessi guardato alla luce del sole, ma quello che più mi legava a un oggetto così poco appariscente, era la sua storia. Mia madre l’aveva smarrito per ben due volte, per poi ritrovarlo. Ma soprattutto, dentro quel piccolo diamante mi sembrava di vedere gli occhi di mio padre, che in realtà non avevo mai potuto ammirare. Erano celesti, esattamente come i miei, così simili al cielo che quasi al loro interno si potevano intravedere delle nuvole. E immaginavo il momento esatto in cui quell’anello era stato donato a mia madre, alla felicità di entrambi, che non avevo in realtà mai visto. Di quel diamante invidiavo l’eternità: aveva visto tutto ciò che io non avevo potuto vedere, e aveva davanti ancora secoli, millenni.
La mia vita era scandita da eventi improrogabili, che erano preceduti sempre da una sessione intensiva di trucco e parrucco, della durata di approssimativamente tre ore.
La perfezione mi dava il tormento, e sebbene fosse impossibile da raggiungere, nessuno mi poteva impedire di provare a conseguirla. Nessuno poteva non notarmi alle numerose feste che riempivano le mie giornate, tutti dovevano voltarsi al mio passaggio.
Ero veramente bella, e direi eterea, se non fosse che la mia bellezza avesse veramente poco di candidamente celeste.
Lunghi boccoli biondi mi sfioravano la schiena, seguivano ogni mio movimento, accompagnando dolcemente la mia figura, slanciata e armoniosamente proporzionata, e incorniciando il mio volto asciutto e scolpito. Il mio sorriso bianchissimo si accendeva spesso e abbagliava ogni cosa o persona che incontrasse, subito seguito da uno sguardo ridente e intenso.
Forse il mio corpo mi manca più di tutto il resto.
Quella era una sera come tante altre. L’inverno era giunto in anticipo, ma il freddo non mi spaventava: ormai ero abituata, e affrontare la tempesta non era certa il sacrificio maggiore.
Come suggerito dal cliente, giunta all’ingresso della zona residenziale avevo telefonato al numero che mi era stato consegnato qualche giorno prima, scritto con decisione su un fazzoletto tutto stropicciato.
Era un bel posto: le casette abbarbicate sulla collina, circondate da un lussureggiante manto verde, dovevano godere di un panorama mozzafiato.
Come da usanza, prima di lavorare, ascoltavo qualche canzone. Cantavo nel tempo libero, e la musica mi metteva il cuore in pace, mi aiutava a calmarmi, nutriva la mia mente di convinzioni e false speranze. Più di ogni cosa ammiravo la musica classica: le parole sono così futili nella maggior parte delle circostanze. Le sinfonie, senza una sola parola, mi narravano le fantastiche avventure di terre lontane, di principi e principesse di mondi dorati. Mi sentivo quasi felice con le cuffiette alle orecchie, le mie scarpe dal tacco altissimo, pochi vestiti e molto trucco.
E sarei sembrata qualsiasi cosa, meno che un’ascoltatrice di Mozart.
Il cliente non rispondeva, ma dopo aver attraversato tutta la città non mi sembrava giusto tornare a casa a mani vuote e senza nemmeno aver visto come si viveva da quelle parti.
I giardini strabordavano di cespugli di rose, e il che in qualche modo mi rasserenava. Le rose erano il mio fiore preferito, e amavo descriverlo: avevo un diario colmo di fiori essiccati, ognuno con accanto una dettagliata didascalia, che specificava non solo specie e colore, ma che si concentrava sul sentimento da me provato nel momento in cui l’avevo raccolta. La cosa più bella era il fatto che nessuno di quegli esemplari era stato strappato, ma ogni fiore mi era capitato casualmente davanti mentre passeggiavo. Non volevo che nessuno morisse per me, nemmeno una rosa.
Il tempo sembrava essersi fermato in quell’angolo di paradiso.
Le ville erano piuttosto nascoste e i terreni su cui si poggiavano erano così estesi da creare una sorta di boschetto davanti a ogni abitazione. Forse quelle persone desideravano nascondere il contenuto delle loro regge, però mi sarebbe piaciuto vedere cosa celavano quelle spesse tende e quegli imponenti alberi: il lusso dopotutto era la mia passione, e perché privare il prossimo della visione di inenarrabili ricchezze?
Mentre ero assorta nei miei pensieri, il telefono squillava per l’ultima volta.
Una voce possente diceva: <<Sto arrivando>>.
In lontananza potevo udire il rombo di una macchina da corsa, veloce come il vento. Era rosso fuoco, e si era fermata proprio davanti a me, col finestrino abbassato. <<Sali su>>, aveva detto il ragazzo alla guida. Era veramente bellissimo: occhioni verdi, capelli chiari, fisico ben definito. Ma in lui non vedevo niente di più.
Nessuno dei due aveva più aperto bocca, mentre il viaggio verso un luogo più appartato sembrava non finire mai.
Giunti a uno spazio vuoto, tra la campagna e l’autostrada, il lavoro si concluse presto.
Lui sussurrò poche parole, e mi disse di chiamarsi Andrea, che faceva l’avvocato e che era alla ricerca di nuove esperienze, ma che non voleva iniziare così. Niente di strano, lo dicevano in tanti. Così io, come da copione, annuii, e di me non dissi nulla.
Poi accadde tutto all’improvviso.
Andrea tirò fuori una pistola, mi sparò, aprì lo sportello per lasciarmi cadere sull’asfalto, accese il motore e si dileguò.
Fu una sensazione stranissima, che non saprei spiegare. Era tutto buio, e non avevo più idea di ciò che stesse succedendo attorno a me.
Riuscii ad aprire gli occhi per un secondo, e accanto a me giaceva una rosa.
Era quasi appassita, ma nella sua imperfezione era così perfetta da farmi sentire fuori posto, come poche volte mi era successo.
Nel frattempo, avevo capito che nessuno sarebbe venuto a cercarmi, tanto meno a soccorrermi, e avevo accettato la triste realtà. Cercavo di godermi gli ultimi istanti in cui il sole avrebbe illuminato il mio volto, l’ultima boccata di aria pura.
E lentamente rivivevo la mia esistenza, istante per istante, come se stessi sfogliando un album fotografico. Mi sembrava tutto così perfetto. Ma stavo mentendo, agli altri e a me stessa.
Avevo sempre creduto che non ci fosse niente di più bello che sbattere in faccia agli altri il proprio successo, la popolarità, le borse firmate.
Ma dentro, nel profondo, ero proprio come quella rosa appassita. Niente in diciassette anni mi aveva mai reso veramente felice. Nessuno mi aveva mai amato. Nessuno aveva mai pensato di chiedermi come mi sentivo, perché mi vendevo.
A nessuno era mai importato.
Mi rifugiavo nell’apparenza, zittivo la mia coscienza con lo champagne e i diamanti.
Solo adesso mi rendevo conto che niente di tutto questo mi aveva aiutato.
Alla fine mi resi conto di essere vuota, come tutto ciò in cui avevo creduto.
Questo pensiero mi fece ancora più male del proiettile che mi aveva trapassato lo stomaco, perché era la verità. E contro la verità non si può fare nulla.
Mentre morivo, la rosa mi guardava. Eravamo diventate una cosa sola.
Era quasi ironico. Il fiore, l’oggetto meno costoso che decorava la mia vita artefatta, era diventato adesso il più prezioso dei tesori, l’ultimo amico con cui spartire pochi istanti. Tuttavia, non potevo pentirmi, non potevo condannarmi alla dannazione eterna. Io ero quella persona che possedeva tutto e non aveva nulla. Ma dopotutto, mi era stato concesso di ammirare il mondo, di respirare, di correre, di cantare. Avevo sempre cercato di vivere al massimo, e forse ci ero riuscita.
L’importante non è la meta, ma il viaggio per raggiungerla.
Mi voltai per l’ultima volta. La rosa era più scura, a causa del mio sangue, che aveva deturpato la sua bellezza. E pensai a che vita aveva fatto lei.
Quali erano i suoi sogni, i suoi obiettivi. Cosa faceva per realizzarli, chi erano i suoi amici. Quanto lontano era andata, con chi, dove, perché. Come fosse arrivata qua.
Anche lei era stata sospinta dal vento, che non risparmia niente e nessuno. O magari da una tempesta. O magari stava fuggendo, era stanca.
O magari si stava nascondendo da se stessa proprio come me.
Aveva paura di affrontare nuove sfide, di mettersi di nuovo in gioco.
Anche se non sono stata io a mettere fine a tutto questo, mi rendo conto che forse era giunto il momento di andare via. Il mio percorso era terminato, e l’unica cosa che mi impediva di andarmene era proprio quel fiore appassito.
Una lacrima mi rigava il viso, una pozzanghera rossa mi circondava.
Ma un ultimo sorriso non era scomparso dal mio volto.
Forse, anche quella rosa aveva un porto sicuro, un rifugio. Un diario, un disco di musica classica. Forse quella era la sua vita segreta.