Rami spezzati_Benjamin Gitonga Laibuta
_Racconto finalista prima edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Nicola Rizzi
Capitolo primo
Nessuno sapeva da dove M’Njira venisse, ma circolava la voce che fosse arrivato nel Meruland durante la carestia soprannominata “imenye” (conosci te stesso). Con l’intento di ottenere il permesso di stabilirsi a Meru,
M’Njira disse agli anziani che prima di allora aveva vissuto nella zona costiera solo con sua madre, che una notte era stata rapita da un mostro nella loro capanna. Il giorno dopo il mostro era tornato per prendere anche lui che fortunatamente si era salvato trovando rifugio sotto la mola.
Quando era in vita sua madre gli aveva detto che suo padre era stato ucciso dai suoi nemici mentre era a caccia con la gente della comunità.
Disse anche di appartenere ad una tribù di cannibali, ma di non aver mai mangiato carne umana. Nello stesso giorno in cui era fuggito, i suoi coetanei avevano deciso di avviarlo alla pratica del cannibalismo che consisteva nell’aggredire ed uccidere un proprio parente, la cui carne veniva arrostita e consumata dai presenti. M’Njira raccontò che era stata sua madre a predisporre la sua fuga nella valle delle colline di Nyambene.
La sua “migrazione” era iniziata quando aveva vent’anni, grazie all’aiuto ricevuto da un vicino che commerciava nel Kambaland. La sua meta era Meru, ma il destino decise in altro modo; fu fatto prigioniero da un capo tribù che lo costrinse a lavorare senza alcuna ricompensa per tre anni.
Gli veniva dato del cibo solo per recuperare le forze necessarie per il giorno dopo e gli facevano indossare abiti logori e troppo grandi per lui. Fu allora che perse l’accento della sua lingua madre e incominciò a parlare fluentemente la lingua di Kamba.
Il capo tribù, impressionato dalla non comune laboriosità del giovane, voleva adottarlo come figlio, ma M’Njira non accettò tale offerta. Fu, però, intrappolato da una delle figlie del capo che, prima gli si mostrò amica, e poi gli chiese di sposarla segretamente. Attratto dalla bellezza della ragazza, M’Njira, pur con qualche perplessità, accolse la sua richiesta.
Durante una stagione secca, sotto la tutela del capo, il giovane fu circonciso e riconosciuto membro della comunità, dopo aver trascorso quattro settimane in una piccola capanna per recuperare le sue forze. Fu anche fissato il giorno in cui gli sarebbe stato assegnato il suo pezzo di terra dove avrebbe vissuto per sempre tra la gente di Kamba.
Ormai adulto, M’Njira meditò sul destino della sua famiglia e si sentì spinto a proseguire la sua “migrazione” verso est. Consultò in fretta alcuni mercanti di Kamba, che avevano rapporti di commercio con la gente di Meru, e li convinse ad aiutarlo. Proprio alla vigilia del giorno in cui gli anziani della tribù gli avrebbero assegnato la terra, M’Njira fuggì con la sua ragazza seguendo le indicazioni dei mercanti.
Verso il tramonto arrivò in un luogo noto come Kalimbene dove fu accolto dal capo della comunità. Dopo aver raccontato per tutta la notte la sua triste storia, M’Njira chiese al capo di poter vivere tra la sua gente.
Il giorno dopo si riunì il consiglio degli anziani per discutere tale richiesta e, superando le divisioni iniziali, si decise unanimemente di accettare il giovane nel clan Amuthetu della comunità di Meru.
“Uomini della tribù, oggi abbiamo la fortuna di avere con noi un uomo che viene dalla terra dei molti serpenti”. Con queste parole M’Aruyaru, il portavoce del consiglio, si rivolse a coloro che si erano adunati per assistere al giuramento del nuovo membro del clan. “E’ arrivato due giorni fa ed è stato accolto dal nostro capo”. Continuò “E’nostro costume accogliere benevolmente quelli che vengono da altri luoghi, poiché ignoriamo il momento in cui potrebbero venire a visitarci dall’aldilà i nostri antenati. Il giovane M’Njira potrebbe essere l’incarnazione di un nostro grande guerriero morto tanto tempo fa. Dopo aver consultato un indovino, gli anziani hanno deciso di accettare questo giovane fra noi. Pertanto, per non correre rischi, vogliamo che lui si alzi e presti giuramento davanti a noi e ai nostri antenati. Qui deve promettere di non rivelare i nostri segreti, di non tradirci mai e di rispettare le nostre usanze; se infrangerà una sola di queste promesse si abbatterà su lui e sui suoi discendenti una terribile maledizione. Con lui è venuta una giovane donna di nome Ngilu che, secondo quanto ci ha riferito, è sua moglie. Vi chiedo di essere pazienti e di partecipare a questa solenne cerimonia fino alla fine. Vi ricordo che qualunque cosa faremo, sarà tramandata da voi di generazione in generazione. Ora passo la parola al più vecchio fra gli anziani per ufficiare questa cerimonia”. Così concluse il suo discorso M’Aruyaru.
Ad un cenno degli anziani M’Njira si fece avanti felice e raggiante di constatare che il suo progetto si era realizzato; era ormai un Meru o così almeno pensava. Gli anziani avevano preparato un miscuglio viscoso di pecora, vino, linfa dell’albero di Miraa, miele e mammella di vacca.
Fu il più anziano a celebrare la cerimonia a cui tutti gli altri assistettero.
A mezzogiorno, quando la cerimonia terminò, gli anziani donarono a M’Njira un appezzamento di terra con la speranza che si stabilisse definitivamente tra di loro e mettesse al mondo forti guerrieri, capaci di difendere gli interessi del popolo Meru ogni qualvolta se ne fosse verificata la necessità. A questo punto il più vecchio degli anziani recitò la preghiera che segue mentre tutti gli altri rispondevano.
L’anziano Twaikia mata gli altri ae
M’Njira ae
Arochiara ae
Twji ae
Na tukenye ae
Arochiara nthaka ae
Inkerechuku ae
Ikatuika ae
Laing’o ae
Chiakukaria ae
Muongo ae
Jwa Meru ae
Aroobua ae
L’anziano Noi benediciamo M’Njira, gli altri sì
Affinché metta al mondo sì
Figli e figlie sì
Affinché fornisca guerrieri sì
Forti sì
Valorosi guerrieri sì
Pronti a proteggere sì
Le generazioni dei Meru sì
Che egli sia benedetto sì
Capitolo secondo
“Spiriti dei miei antenati, assistetemi! Tenete lontano dal mio cammino gli spiriti maligni. I fatti del passato dovrebbero essere dimenticati.
Non ha ormai più senso chiedersi da dove sono venuto, come sono cresciuto e quello che è capitato a voi. So che i miei figli mi supplicheranno per sapere dei loro progenitori, ma questo non avverrà, altrimenti turberei le loro menti. Sarò per loro Alfa e Omega e non conosceranno nessuno all’infuori di me che sono diventato un Meru attraverso l’iniziazione del sangue, e mi sono sottomesso agli anziani accettando di bere il vino come giuramento. Voi genitori mi insegnaste che la pazienza ripaga in modo generoso. Ora ho la prova che questo è vero, perché gli sciocchi anziani mi hanno concesso tutti i diritti dei Meru. Sono sicuro che voi eravate con me e sorridevate ad ogni mio passo. Sebbene siate morti molto tempo fa, sarò il continuatore della vostra stirpe. O padre, sei morto prima che io sapessi parlare e mi domando come tu fossi. Mia madre mi diceva che ti rassomigliavo in tutto e per tutto. O madre cara, sei scomparsa proprio quando avevo più bisogno dei tuoi consigli, ma ringrazio comunque Kaimba per tutto ciò che tu mi hai insegnato.
Mi ricorderò sempre di te e ti assicuro che le mie figlie saranno amorevoli e responsabili come te. Guidami dal mondo degli spiriti e fa’ che educhi la mia famiglia come tu educasti me. Le cicatrici sulla mia pelle mi ricorderanno sempre che tu fosti una severa educatrice. Ricordo quasi con le lacrime agli occhi quando una volta mi tirasti contro una pentola perché mi ero rifiutato di andare a prendere l’acqua. Se oggi non sono uno scervellato e un essere inutile, lo devo ai tuoi metodi educativi.
Prega perché mia moglie Ngilu sia come te”. Così pregò M’Njira rinchiuso in una capanna.
Subito dopo aver preso possesso della terra dove avrebbe vissuto con i suoi discendenti, M’Njira, aiutato da alcuni coetanei, costruì due capanne di forma circolare. Anche sua moglie fu aiutata dalle altre donne del clan “Amuthetu” ad intonacare e coprire di paglia le capanne. Quando la dimora fu completata, gli anziani si riunirono e decisero che ciascuno di loro donasse una mucca e una capra alla giovane coppia. M’Elaku donò anche due agnelli, una lancia e un’asta. Kabaja donò una delle sue figlie per aiutare Ngilu nelle faccende domestiche. M’Njira fu molto contento; ringraziò gli anziani e i membri del clan per la loro generosità e promise la sua completa collaborazione. M’Kubeere, che aveva sempre dubitato della sincerità del nuovo venuto, lo chiamò in disparte e gli ricordò che tutto quello che aveva ricevuto in dono era legato al suo giuramento e che, nel caso non fosse rimasto fedele alle promesse fatte, non solo lui, ma anche i suoi figli e nipoti ne avrebbero pagate le conseguenze. Lo esortò, quindi, ad essere sempre leale e sincero.
La sera, il più delle volte, M’Njira e Ngilu godevano della compagnia di giovani mariti. Si parlava dei guerrieri coraggiosi, delle tecniche di caccia, dei loro incontri con razziatori e di altro. Sebbene questi incontri dovevano avvenire davanti alla casa, Ngilu invitava gli ospiti a tenerle compagnia in cucina, dove di solito arrostiva del granturco ricevuto in dono dagli abitanti del villaggio. I due giovani avevano riempito dieci sacchi con i doni ricevuti dalle gentili donne del villaggio, il che li faceva sentire ricchi e benvoluti dalla comunità. Fra le donne sfaccendate, considerate lo zimbello del villaggio, vi era Nkirote, la pettegola, che commentando gli ultimi avvenimenti, affermò che un giorno avrebbe cercato rifugio presso la tribù dei Gikuyu per ottenere qualche dono. Alcune donne, però, le fecero notare che le altre tribù non erano ospitali e generose come la loro e accoglievano stranieri solo per pochi giorni.
Durante la preparazione della terra, le donne del villaggio aiutarono Ngilu nel suo orto prima ancora di dedicarsi al proprio. Il raccolto fu rigoglioso perché tutte le erbacce erano state strappate continuamente per evitare che intaccassero le sostanze nutritive. In quella stagione Ngilu ottenne il miglior raccolto dell’intero villaggio, tanto che gli anziani furono spinti a credere che la giovane coppia era stata accettata e benedetta persino dal creatore. Oltre ad essere bellissima, Ngilu era anche una grande lavoratrice e per questo si meritò il rispetto da parte di tutto il clan. Durante il giorno, a differenza delle altre donne, non aveva mai il tempo di sedersi a pettegolare. M’Njira non era da meno; innalzò una recinzione e potò gli alberi lavorando duramente finché la sua casa non divenne la più bella del villaggio.
Dopo circa un anno dal suo arrivo nella terra dei Meru, M’Njira ebbe la fortuna di diventare padre di un figlio maschio. Gli diede il nome di suo padre, Kibwana, giurando che non lo avrebbe mai rivelato a nessuno, neanche a sua moglie. Gli abitanti del villaggio accorsero numerosi alla casa di M’Njira e furono molto generosi con ogni tipo di dono.
Mentre Ngilu recuperava le sue energie, Kaburo sbrigava la maggior parte delle faccende domestiche: preparava la colazione, andava a riempire l’acqua e lavorava anche nell’orto. Con il passare del tempo, Kaburo divenne parte integrante della piccola famiglia. M’Njira la ammirava molto e, ogni volta che la vedeva intenta a lavorare, la fissava con segreti desideri. Sua moglie una volta lo sorprese mentre spiava Kaburo che si stava cambiando i vestiti e immediatamente sospettò che gli strani movimenti del marito fossero finalizzati all’attuazione di un piano malefico. Decise, pertanto, di ritornare ad occuparsi delle faccende domestiche per ridurre le occasioni di incontro fra i due.
Ngilu proibì a Kaburo di accompagnare suo marito nell’orto e di portargli cibo nella capanna. M’Njira naturalmente non approvò la decisione di sua moglie e, per ritorsione, si rifiutò di andare nell’orto poiché riteneva che quello era un lavoro da donna. Allora la giovane donna, per non essere messa in ridicolo dagli abitanti del villaggio che avevano già completato il lavoro di preparazione dei loro campi, incominciò a strappare da sola le erbacce nell’orto, mentre Kaburo si occupava del bambino e M’Njira vagabondava nel villaggio. Quando il bambino dormiva, Kaburo andava al fiume a prendere l’acqua, raccoglieva la legna per il fuoco e preparava anche da mangiare. Un giorno, mentre sua moglie era nei campi, M’Njira, fingendosi ammalato, chiamò Kaburo in casa. La ragazza, ignorando le reali intenzioni del capo famiglia, ingenuamente entrò nella buia capanna per ricevere ordini. M’Njira, invece, la strinse forte a sé e la obbligò a soddisfare i suoi desideri. Kaburo non rivelò a nessuno quanto era accaduto, temendo la reazione di Ngilu.
Capitolo terzo
Ngilu presto capì che suo marito aveva una relazione amorosa con Kaburo.
Tutto il villaggio ne era a conoscenza e, mentre alcuni consigliarono Kabaya di tenere sua figlia lontano dal “mostro”, altri invece gli suggerirono di pretendere un risarcimento per la violenza che la ragazza aveva subito; qualcuno inoltre riteneva giusto che M’Njira prendesse Kaburo come seconda moglie. Ngilu si sentiva profondamente umiliata ed insultata e quando cercava di discutere con suo marito, quest’ultimo l’accusava sempre di gelosia e le ricordava che in Africa la poligamia era un’usanza molto radicata. Un giorno Kaburo si svegliò avvertendo un senso di malessere, tanto che a stento poté fare qualche lavoro in casa.
Ngilu volle indagare sul suo stato di salute e, dalle risposte che ricevette, capì che era accaduto ciò che lei aveva sempre temuto: la ragazza era incinta. Qualche mese dopo Kaburo diede alla luce una bambina piena di salute. Ngilu visse l’evento come uno scandalo, al contrario M’Njira lo considerò una vera benedizione e decise di chiamare la bambina Kaimuri, come sua madre, per tenere vivo il ricordo dei suoi genitori.
Kabaya, senza consultare gli anziani, mandò “Atunguri” a chiedere la dote per sua figlia a M’Njira che, non solo accettò la richiesta, ma si dichiarò pronto a sposare Kaburo secondo le usanze dei Meru.
M’Njira scelse due giovani che fecero da tramite per lo scambio dei doni, e non passarono due mesi che il grande evento fu annunciato. Kaburo ritornò presso la sua famiglia dove per quattro giorni le donne del villaggio le diedero tutti i consigli necessari: le raccomandarono di essere ubbidiente con suo marito e di nutrirlo bene. Poi le fecero notare che il suo era un matrimonio piuttosto speciale in quanto suo marito era un figlio adottivo e i Meru tenevano in grande considerazione coloro che cercavano rifugio presso di loro. Le ricordarono anche che qualunque cosa avesse fatto, sarebbe stata fatta in nome e per conto dell’intero clan, ed infine le augurarono di avere successo nella vita con parole che, da donna responsabile, avrebbe potuto usare nel bene o nel male.
Prima del grande giorno, a ciascuno fu assegnato un compito da svolgere; alcune donne ebbero l’incarico di preparare i pasti, mentre alcuni giovani dovevano tagliare la legna per accendere il fuoco. Quando finalmente arrivò il giorno stabilito, Kaburo fu accompagnata a casa di suo marito, non come una serva, ma come una moglie legalmente sposata.
Il normale periodo di corteggiamento sarebbe dovuto durare più di un anno, ma fu fatto tutto in fretta poiché le normali relazioni sessuali della donna erano state interrotte. Al suo arrivo, l’aria si riempì di urla. Giovani ed anziani cantavano come pazzi; canti di lode invasero tutta Kalimba e i villaggi vicini. Erano arrivati ospiti da ogni angolo del Meruland; una simile occasione rappresentava un momento di unità tra la gente Meru. Tutti i presenti mangiarono e bevvero a loro piacimento. L’ultimo giorno, gli anziani chiamarono a raccolta la gente per offrire la loro benedizione alla famiglia. Raccomandarono a Kaburo di essere una buona moglie per M’Njira e una sorella per Ngilu. Poi la invitarono a giurare agli antenati, attraverso l’intercessione degli anziani, che sarebbe stata rispettosa con Ngilu così come lo era stata con sua madre.
Dopo una settimana, sia Ngilu che Kaburo decisero di lavorare insieme per migliorare la loro condizione e guadagnare il rispetto da parte del clan. “Quando ti offendo, non esitare a farmelo notare”, diceva Ngilu a Kaburo. Gli orti di queste due donne divennero un esempio per tutte le altre donne del villaggio. Spesso gli uomini picchiavano le loro mogli che non riuscivano ad avere orti come quelli delle mogli di M’Njira.
Senza curarsi di ciò che la gente diceva sul loro conto, Kaburo e Ngilu lavoravano all’unisono rendendo orgoglioso M’Njira che si vantava con i suoi compagni. Atrentadue anni egli si era conquistata la stima degli anziani che gli assegnarono il ruolo di messaggero negli incontri tra clan.
M’Njira pianificò la sua famiglia con saggezza nel senso che le due mogli si alternavano nel concepimento; una concepiva subito dopo il parto dell’altra. Questa strategia si rivelò utile per risolvere il problema delle faccende domestiche quando una delle due donne doveva riposare per recuperare le proprie energie. Comunque M’Njira fece il grande errore di avere un figlio dopo l’altro con il breve intervallo di un solo anno. Dopo solo cinque anni di matrimonio, quasi non si poteva credere che gli otto bambini che giocavano all’esterno della casa fossero tutti suoi, e quando si entrava in casa e si udiva distintamente il pianto di altri due bambini nei loro lettini: c’era da rimanere senza parole.
Quando il primo dei suoi figli ebbe l’età di cinque anni, M’Njira cominciò a prepararlo per il ruolo di contadino e di abile cacciatore. Passava la maggior parte del suo tempo libero a mostrare a Mberia come usare l’arco e le frecce, come tenere un machete e coltivare la terra. Il giovinetto, che sembrava essere orgoglioso come suo padre, seguiva agevolmente tutte le istruzioni che gli venivano impartite, e raramente lo si vedeva oziare in casa, anche quando suo padre era fuori. Kaburo invece si dedicava all’educazione della figlia Kaimuri, insegnandole ad essere una ragazza responsabile e a saper svolgere i lavori domestici.
M’Njira intanto, per aver combattuto valorosamente quando i guerrieri Masai avevano attaccato il suo clan, si era guadagnato l’ammirazione di tutti, anche delle giovani donne. Molte di loro cercavano la sua amicizia e fra queste c’era Kalayu che si spinse fino a chiedergli di sposarlo.
M’Njira evitò di dare una risposta a tale richiesta e, senza prendere la cosa troppo sul serio, incominciò a frequentare la giovane come amica. L’evoluzione di questa relazione di amicizia fu che Kalayu rimase incinta. Allora tutti, anche sua moglie Ngilu, consigliarono M’Njira di sposare la ragazza per evitare lo scandalo.
Solo Kaburo accennò qualche protesta, ma presto anche lei accettò quanto gli altri avevano deciso. Pagata la dote, Kalayu divenne la terza moglie di M’Njira.
I guerrieri Meru organizzarono un’incursione contro i Masai e per due settimane misero a punto le loro armi e si nutrirono adeguatamente. M’Njira fu scelto come leader del gruppo, assistito da Kabori. Prima di partire per questa pericolosa ma necessaria operazione, gli uomini lasciarono alle loro mogli delle istruzioni da seguire. Le donne, tra l’altro, non dovevano sapere chi si sarebbe preso cura di loro e dei propri figli in caso uno degli uomini fosse morto durante la battaglia. M’Njira raccomandò alle sue mogli di lavorare unite e di obbedire a Ngilu durante la sua assenza, che sarebbe durata circa due settimane. Dopo le benedizioni e le formule magiche del leader divino, il suono del corno annunziò la partenza degli uomini. Quando nel pomeriggio del quarto giorno essi avvistarono il nemico, circondarono le case e sferrarono l’attacco.
Colti di sorpresa, i Masai non riuscirono a difendersi e pertanto M’Njira ed i suoi uomini vinsero la battaglia uccidendo i giovani e facendo prigioniere le donne. Si impadronirono anche di tutto il bestiame tra cui capre, pecore e cani. Le donne catturate durante l’incursione erano destinate a integrarsi nel clan che le aveva aggredite, ma non potevano sposare nessuno dei loro aggressori. M’Njira, però, scelse due bellissime ragazze e promise loro che mai le avrebbe consegnate agli
anziani. Queste due ragazze, che avevano ammirato il valore di M’Njira durante la battaglia, accettarono ben volentieri la sua proposta di andare a vivere con lui.
Quando i guerrieri Meru ritornarono vittoriosi nelle loro terre, furono festeggiati e accolti con canti di lode, e coloro che erano scapoli presero moglie. Gli animali razziati furono distribuiti e M’Njira ne ebbe una grossa parte in qualità di comandante del gruppo. Alui fu destinata anche la maggior parte delle armi prese al nemico. Questa grande riconoscenza per il suo coraggio, comunque, non durò a lungo poiché M’Njira rifiutò di consegnare le due fanciulle, ignorando le suppliche degli anziani più rispettati. La situazione peggiorò quando un giovane propose di prendere le ragazze con la forza e M’Njira minacciò di uccidere chiunque avesse tentato una simile impresa. Il conflitto era imminente, ma gli anziani riuscirono a calmare la folla. Si rivolsero a M’Njira ricordandogli il suo giuramento di vivere secondo i costumi dei Meru che egli ora stava violando. Il fiero guerriero rispose che le loro inutili minacce non gli avrebbero certo fatto cambiare idea e, aggiungendo danno alla beffa, disse agli anziani che se desideravano avere giovani donne potevano procurarsele da soli in un’altra incursione. A questo insolente linguaggio gli anziani reagirono sputando due volte per terra e permisero allo “sporco rifugiato” di tenere le ragazze e diventare ricco.
Ngilu cercò di far ragionare suo marito ma, non riuscendo a convincerlo, accettò in casa le due ragazze Masai. Ora M’Njira aveva cinque mogli e si compiaceva di essere un personaggio molto importante nel clan.
Le sue donne decisero di aiutarsi fra di loro e di vivere in armonia per salvaguardare gli interessi del loro marito e accettarono il consiglio di Ngilu di non ostacolare il corso del destino. Da quel momento in poi, lavorarono sulle loro terre instancabilmente e non si vedevano quasi mai fuori della loro proprietà. Si tenevano compagnia a vicenda, mentre i figli giocavano nei pressi della grande casa. Questa cooperazione era evidente e concreta quando le giovani mogli partorivano e venivano assistite dalle altre, sia nelle faccende domestiche, sia nella coltivazione dei loro orti.
M’Njira ebbe quattordici figlie e dieci figli. A quei tempi i figli erano una ricchezza e M’Njira aveva tutti i motivi per essere orgoglioso. Era solito vantarsi del fatto che quando le sue figlie si sarebbero sposate avrebbero potuto fornire latte all’intero clan e che i suoi figli, in caso di guerra, avrebbero potuto proteggere il clan senza alcun aiuto dall’esterno.
I bambini appresero dalle loro madri ad essere obbedienti e responsabili e soprattutto a rispettare gli anziani. Siccome non c’erano le scuole, i maschi aiutavano i genitori a badare agli animali e le figlie femmine a coltivare la terra. Era anche compito dei figli maschi riparare la recinzione e le eventuali crepe del tetto della casa. In ogni riunione del clan M’Njira voleva sempre dominare con la pretesa di essere superiore a tutti, il che non piaceva affatto agli anziani che cominciarono a nutrire per lui un sentimento di odio. Una volta M’Etharu, il burlone, gli consigliò di riservare il suo orgoglio per le sue mogli durante le riunioni familiari e gli disse anche che era Dio a donare i figli e che se li poteva riprendere quando voleva. A queste insolenti considerazioni M’Njira reagì agitando il suo bastone pronto per colpire, ma alcuni membri del clan lo bloccarono, facendogli notare che litigare durante tali incontri era qualcosa di abominevole. Allora si trattenne, ma nello stesso tempo mise in guardia il suo oppositore sulle terribili conseguenze che gli sarebbero capitate se gli fosse venuto a tiro e, in realtà, ogni volta che i due si incontravano, scoppiava una lite. Con il passare del tempo, anche le donne e i bambini del villaggio finirono per odiare M’Njira considerandolo un inaffidabile orgoglioso straniero che era stato espulso dalla sua gente a causa delle sue intollerabili maniere barbariche. In molti si chiedevano perché mai un simile individuo dovesse rompere l’armonia di un clan così pacifico come il loro, e dal profondo del cuore maledivano lui e la sua famiglia. Gli anziani ripetutamente tentarono di correggere i suoi comportamenti, ma M’Njira non mostrò mai significativi segnali di cambiamento.
Capitolo quarto
In una bella mattina d’estate, mentre gli altri erano intenti a lavorare nel recinto, due giovani figlie di M’Njira si recarono in un vicino boschetto per rispondere al richiamo della natura che divenne una trappola mortale. Infatti, senza nemmeno accorgersene, furono aggredite da due iene che spietatamente soddisfecero la loro fame senza alcuno sforzo e si recarono poi al fiume per calmare la loro sete.
Kaburo attese invano il ritorno delle figlie per la colazione ed aveva tutte le ragioni per essere preoccupata. Non sospettando, comunque, la tragedia che si era appena consumata, mandò uno dei figli più grandi a cercare le sorelle nel bosco. Il ragazzo, di nome Mweti, rimase immobile, incapace di parlare all’agghiacciante vista dei resti delle sue sorelle e, quando si riebbe, emise un urlo tanto forte che tutto il villaggio capì che era successo qualcosa di terribile. La gente si riversò immediatamente nel recinto e nel bosco, richiamata dalle grida della famiglia di M’Njira.
L’atmosfera era tesa e tutti cercavano di consolare i familiari delle vittime e consigliarono di consultare uno stregone. M’Njira, però, non volle ascoltarli e li cacciò dal suo recinto. Con l’aiuto di alcuni coraggiosi abitanti del villaggio, seppellì i resti delle sue figliole e riprese le sue normali attività.
La madre delle due povere vittime fu talmente sconvolta dalla disgrazia da trascurare se stessa e i due gemelli che a quel tempo allattava.
Quando riuscì a riprendere la sua vita normale, il suo latte si rivelò dannoso per la salute dei gemelli che si ammalarono di diarrea e di lì a poco morirono. Anche questo fu un colpo tremendo per la famiglia; con tutte queste sventure, persino una donna di acciaio avrebbe ceduto. Kaburo perse completamente il controllo di sé e si chiedeva che cosa avesse fatto per meritarsi una tale punizione dal generoso Dio dei suoi avi.
“Sin dalla mia infanzia, non ho mai offeso nessuno. I miei genitori si fanno apprezzare per la loro gentilezza ed infinita generosità. Dunque, perché la nostra bontà viene così mal ripagata?” Queste erano le domande che Kaburo si poneva. Gridava in maniera incontrollabile e suo marito, sebbene affranto dal dolore, cercava di consolarla. Comunque, ogni qualvolta il suo pensiero tornava ai suoi figli, fiumi di lacrime inondavano il suo viso.
Dopo un mese di lutto, M’Njira e la sua famiglia tornarono alla vita normale.
Kaburo, aiutata e consolata dalle altre donne del villaggio, recuperò il suo equilibrio mentale e affidò il suo destino nelle mani di “Kaimba” (Dio). Le altre mogli di M’Njira si impegnarono ad aiutarla nell’orto assicurandole il loro sostegno nel bene e nel male. M’Njira aveva promesso che avrebbe consultato un “uomo di medicina” per avere una risposta alle calamità della famiglia, ma cambiò idea e riunì le sue mogli mettendole in guardia contro stregoni e stregonerie. Inoltre le esortò a vivere come sorelle di stessi genitori e ad aiutarsi l’un l’altra in caso di necessità.
La recuperata serenità della famiglia fu presto compromessa da una nuova disgrazia. Accadde in pieno giorno e alla presenza di molti testimoni.
Due figlie di Ngilu si erano recate ad un ruscello vicino per attingere acqua. Una delle due scivolò e cadde in acqua; l’altra si tuffò in suo aiuto, ma fu travolta dal fiume in piena insieme a sua sorella. Le altre ragazze che erano lì a prendere l’acqua con le loro urla richiamarono la gente del villaggio. Tutti quelli che accorsero si trovarono davanti una scena agghiacciante: due corpi senza vita giacevano sulla riva del fiume, duecento metri più a valle dal punto in cui le ragazze erano scivolate.
Pur ignorando la causa della disgrazia, ciascuno tentava di dare la propria interpretazione di quanto fosse accaduto. Molti, comunque, avanzarono l’ipotesi che una qualche maledizione o stregoneria non fosse estranea ai fatti. I saggi esortarono invano M’Njira affinché consultasse uno stregone di grande prestigio. M’Njira, tuttavia, era convinto che uno stregone avrebbe richiesto una lauta ricompensa per sé e avrebbe ordinato un costoso sacrificio senza risolvere il problema.
M’Njira allora, nella speranza di risolvere una volta per sempre i problemi della sua famiglia, decise insieme agli anziani di far circoncidere i suoi cinque figli maschi più grandi. In tutta fretta fu ordinato ad alcuni guerrieri di andare a prelevare un esperto di circoncisioni dalla terra dei Masai e, in segno di solidarietà, le donne del villaggio prepararono ceppi per il fuoco e donarono miglio e granturco alle famiglie dei giovani che dovevano essere circoncisi.
Prima che il “circoncisore” entrasse nel recinto, M’Njira, secondo la tradizione,
offrì un capretto che fu ucciso ed esaminato per eventuali irregolarità durante la cerimonia della circoncisione. L’uomo venuto dalla terra dei Masai depose gli arnesi del mestiere e pronunciò alcune parole, dando l’impressione di rivolgersi a persone invisibili. Poi scosse il capo e disse: “Voi tutti potete vedere che l’intestino del capretto é segnato da macchie giallognole; tali macchie indicano inequivocabilmente che questa casa non è pulita. Gli spiriti ancestrali sono contro questo rito”. Con queste parole egli raccolse i suoi arnesi e li ripose in una borsa nera fatta di pelle di leopardo. Poi, rivolgendosi a M’Njira, proseguì: “Se vuoi che i tuoi figli siano circoncisi, devi offrire immediatamente un sacrificio, oppure devi prepararti al peggio”. Dopo essersi consultati con M’Njira, gli anziani decisero di portare a termine il rito senza preoccuparsi di ciò che potesse accadere. Il “circoncisore”, a questo punto, volle che M’Njira annunciasse alla sua gente che si assumeva la responsabilità per qualsiasi futura calamità. “Amici miei, questa iniziazione serve a riportare la gioia nella mia famiglia e, dunque, deve essere celebrata nonostante i cattivi presagi di quest’uomo. Ogni responsabilità ed ogni colpa ricadrà su di me”. Queste furono le semplici parole che M’Njira rivolse ai membri della sua tribù.
All’alba del giorno dopo, cinque dei figli di M’Njira ed altri quaranta giovani del villaggio furono scortati fino al fiume nelle cui fredde acque si immersero per raffreddare i loro corpi ed offrirsi al coltello del “circoncisore”.
I loro padrini presero delle coperte ed andarono velocemente nel sacro luogo atavico destinato al rito. Nel frattempo le donne del villaggio cantavano per i giovani che, dopo una notte insonne, erano pronti a sottoporsi alla circoncisione da loro considerata un premio. Il forte suono del corno annunciò che la celebrazione era imminente: a tutti i giovani guerrieri fu consegnata una spada, un bastone ed una lancia, che avrebbero dovuto usare nel caso in cui qualcuno degli iniziati avesse mostrato segni di paura. Il solo muovere le gambe o chiudere gli occhi durante la circoncisione significava morte sicura, e nessuno doveva versare lacrime o provare compassione per la povera vittima. Gli iniziati si sedettero in semicerchio e quando tutto fu pronto, il “circoncisore”, accompagnato da guardie vestite di pelle di leopardo e con copricapo di peli di leone, arrivò di corsa e si fermò nel centro del cerchio così come voleva la tradizione. Poi spruzzò di “Naichu” (vino) gli astanti ed iniziò il suo lavoro. Il suono melodioso dei corni rompeva il silenzio che dominava nel luogo della cerimonia dove tutti erano intenti ad osservare gli iniziati. Ogni intervento richiese circa trenta secondi, per cui, in meno di un’ora, il lavoro fu finito.
Quando, di corsa, il “circoncisore” abbandonò il campo, la gente esplose in canti e danze in lode ai loro coraggiosi figli che ora meritavano il riconoscimento di membri del clan. Sebbene un po’ in disparte anche le donne parteciparono alla festa con fischi e ululati per la vittoria e per il coraggio mostrato dai loro figli; mentre le più giovani danzarono con vigore per esprimere ammirazione per i loro potenziali mariti. Dopo aver bevuto del latte fresco, i giovani iniziati furono ricoperti di fibre di banane e rami di alberi ed infine accompagnati nelle loro case. Parti di tetto sovrastante la porta della casa paterna erano state rimosse per testimoniare che un membro della famiglia era andato a vivere per proprio conto e non sarebbe più potuto entrare nella casa d’origine senza prima donare ai suoi coetanei trentasei scodelle di liquore puro. Al suo arrivo l’iniziato doveva stare nel recinto ed aspettare che i suoi genitori gli promettessero l’eredità davanti ad una folla di testimoni; tale procedura aveva luogo anche quando il padre moriva o in caso di conflitti.
M’Njira non perse questa occasione per vantarsi come era solito fare: non era da tutti avere cinque figli circoncisi nello stesso giorno. Sembrava però aver dimenticato la vera ragione per cui si era svolta la cerimonia che, in situazioni normali, avrebbe incontrato il veto degli anziani.
Nella sua casa intanto si mangiò e bevve a volontà, ed alcuni si ridussero in uno stato tale che non riuscirono a trovare la via di casa e probabilmente non sarebbero stati riconosciuti persino dalle loro madri.
Si bevve birra locale (Marwaa) e M’Njira invitò le sue mogli ad essere molto generose nell’offrire da mangiare e da bere per dimostrare la superiorità della sua famiglia nella coltivazione della terra.
Per due giorni tutti dimenticarono la propria casa e si accamparono nelle fattorie dei genitori dei giovani che erano stati circoncisi. Ricevettero migliore accoglienza quelli che avevano portato legna da ardere; a loro fu offerto “Kiruthu” (Marwaa pura) e mentre si beveva molti mostravano grande abilità nel raccontare storie. Le più esperte narratrici erano le donne anziane con le loro avvincenti storie sentimentali. Alcune donne erano così prese dal chiacchierare che la sera venivano richiamate ai loro doveri di madri dai propri figli.
Era contro il costume dei Meru applicare qualunque forma di medicamento su ferite provocate da circoncisione. Si pensava che tali ferite dovessero guarire naturalmente, grazie alla dieta mirata che i candidati facevano nel periodo che precedeva la circoncisione. Comunque, a volte, la guarigione non aveva luogo e il malcapitato moriva. I tre più piccoli dei cinque figli circoncisi di M’Njira destarono molta apprensione in quanto le loro ferite non si erano rimarginate. Sembrava che fossero stati abbandonati dai loro dei. I loro padrini cercarono segretamente di medicare le ferite con erbe tradizionali, ma tutto fu vano. Essi sapevano molto bene che se fosse accaduto il peggio, M’Njira avrebbe violato le tradizioni accusandoli di assassinio o addirittura di massacro.
Sebbene nel periodo di tempo che intercorreva tra la circoncisione e la guarigione non fosse consentito avere notizie dei propri figli, M’Njira fu informato dai padrini sulle condizioni di salute dei suoi figli. Era un grande rischio, ma bisognava correrlo. Quando M’Njira si rese conto che la situazione era grave, chiamò immediatamente alcuni anziani del villaggio per discutere il destino dei suoi figli. Memori delle calamità che si erano abbattute sulla famiglia di M’Njira, gli anziani decisero che i giovani fossero curati da uno specialista e mandarono alcuni uomini a prelevarlo. Comunque i figli di M’Njira morirono prima che il curatore potesse tentare di salvarli. L’agghiacciante notizia della morte dei giovani si diffuse immediatamente dappertutto come un incendio in una boscaglia. La tradizione voleva che le donne e i bambini fossero tenuti all’oscuro degli avvenimenti, e persino le madri dei giovani deceduti non dovevano sapere niente fino a quando gli altri figli non guarissero e uscissero dall’isolamento. I tre figli di M’Njira furono sepolti di notte in silenzio ed in fretta in una tomba scavata dietro la capanna destinata all’isolamento. Alcuni guerrieri si assicurarono che la tomba fosse ben livellata e coperta di erba; le donne e i bambini non dovevano mai scoprire il luogo in cui si trovava la tomba. Gli anziani obbligarono M’Njira a trattenere le lacrime sebbene riconoscessero il suo grande dolore; era contro il loro costume lamentarsi di fronte a situazioni tragiche. I saggi del villaggio si recarono in massa da M’Njira e lo consolarono con massime ed altre risonanti parole che solo i membri del clan potevano capire. Per tutto il tempo continuarono a spostarsi da un albero all’altro in cerca di ombra prima che il sole tramontasse.
Dopo due settimane M’Njira, accogliendo il consiglio dei saggi, tornò ad una vita normale. Molte volte, però, tornava con il pensiero al suo passato e ricordava tra le lacrime la morte della madre, il suo arrivo tra i Meru e gli eventi più recenti. Smise di chiedersi perché Dio, se mai esisteva, fosse tanto crudele con lui. A volte lo si vedeva camminare senza meta agitando il suo bastone e parlando con se stesso. Perse anche l’appetito e divenne suscettibile alla minima provocazione. Rimaneva indifferente persino davanti ai piatti che una volta erano i suoi preferiti e, quando le sue mogli gli chiedevano perché si comportasse in quel modo, diceva che i suoi atteggiamenti erano gli stessi degli uomini della sua età. Una notte Ngilu lo chiamò segretamente e gli fece notare come era profondamente cambiato rispetto a quando lei lo aveva conosciuto. “E’ veramente insensato da parte tua negare che hai dei problemi, dato che la tua vita è cambiata così drasticamente. Caro marito, mi hai sposato per condividere gioie e dolori. Come mai non mi rendi partecipe della tua sofferenza? Su, confidami le tue preoccupazioni, per quanto brutte e orribili possano essere”. Con queste parole Ngilu si rivolse a lui.
Come risvegliandosi da un sogno, M’Njira si rese conto dell’errore che stava commettendo nel non confidare i suoi problemi a sua moglie che gli era stata vicina nella buona e nella cattiva sorte e che, spinta dall’amore, aveva abbandonato la proprietà di suo padre per seguire un orfano come marito. Si sentì colpevole e cominciò a piangere. Ngilu affettuosamente si strinse a lui e non poté trattenere le lacrime che le bagnarono il viso. Rimasero così per molto tempo; poi M’Njira si liberò dell’abbraccio e quella notte non riuscì a dormire.
Disteso sul suo duro letto, M’Njira pensava alle decisioni più opportune da prendere e ogni tanto interrompeva le sue riflessioni per sniffare del tabacco. Poi, vinto dal sonno, si addormentò senza nemmeno coprirsi con la coperta. “M’Njira, M’Njira, io so cosa stai provando, ma l’hai voluto tu!”, gli disse una voce misteriosa. “Se fossi in te, raccoglierei le mie cose e ritornerei tra la mia gente. Ma so che sei un duro e non lo farai mai. Oppure potresti convocare tutto il clan dei Meru e chiedere scusa per aver violato il tuo giuramento; ti eri impegnato a rispettarlo con lealtà e invece hai infranto senza alcuna giustificazione quel giuramento che ti ha reso figlio dei Meru. Molte volte hai disobbedito agli anziani; sei un uomo pieno di orgoglio, ma l’orgoglio non ti porterà bene. Ameno che tu non faccia qualcosa, le tue adorate mogli e i tuoi figli moriranno a causa di un fuoco misterioso! Tu anche…!” Prima che la voce potesse completare il messaggio, M’Njira saltò sul letto: era bagnato di sudore e ansimava come un cane appena tornato da una battuta di caccia.
Volse lo sguardo verso ogni angolo della capanna per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Un ceppo stava ancora bruciando nel camino e la stanza era illuminata da una fioca luce. Si sedette sul letto, prese del tabacco da un contenitore di legno che pendeva dal suo collo e lo sniffò.
M’Njira cercò di ricostruire il messaggio venuto dalla voce misteriosa, ma non vi riuscì. Uscì fuori per urinare. La luna era alta nel cielo e la notte era calma. Diede uno sguardo al recinto del bestiame e si assicurò che i rami spinosi di acacia fossero ben legati per proteggere l’ingresso.
Quindi tornò alla capanna e si stese sul letto. Pensò anche di chiamare la sua moglie più giovane per tenergli compagnia, ma cambiò idea. Subito dopo fu colto da un sonno pesante e di nuovo dimenticò di coprirsi.
“Figlio mio, ho udito il tuo grido, ma non c’è niente che possa fare per te al momento”, gli disse una dolce e sommessa voce. “Sebbene tu abbia contribuito a tutte queste calamità, gran parte della colpa deve essere attribuita a me. So che ti stai chiedendo se Dio ti portò in questo mondo per soffrire. Queste non sono altro che tentazioni. Fai solo quello che puoi e sii paziente. Considerare la vita degna di essere vissuta qualunque siano le tentazioni che intralciano il tuo cammino. Comunque tu hai bisogno di esaminare te stesso. Vorrei tanto alleviare le tue sofferenze e renderti un uomo felice, ma non importa. Figlio mio, non affliggerti più e comincia a vivere. Non sei il primo a sopportare queste terribili esperienze e sono sicuro che non sarai l’ultimo. Non buttare via la tua sacra vita. Sarebbe un segno di codardia e non risolverebbe il problema. Presto le tue mogli e i tuoi figli potrebbero morire e tu…!”
A questo punto M’Njira si svegliò gridando così forte da far accorrere preoccupati mogli e figli. Il suo cuore batteva forte come il tamburo e tremava come una foglia in un giorno di vento. Sua moglie Ngilu ordinò alla moglie più giovane di preparare il fuoco e riscaldare del latte.
Sebbene egli non parlasse, i suoi occhi erano spalancati e bagnati di pianto.
Quando il latte fu pronto, egli lo bevve tutto d’un fiato.
Il silenzio che seguì rese l’atmosfera intensa. Nessuno osava parlare. I figli giovani si interrogavano con gli occhi e Kanuu, la più grande tra le figlie di Kalayu, fissò il suo sguardo sul padre atterrito. Nessuno sapeva trovare le parole giuste e tutti si sentivano perduti.
Quando Ngilu si schiarì la voce, tutti rivolsero i loro sguardi su di lei, poiché era l’unica persona a cui affidarsi in tale situazione. Ngilu invitò i figli a ritornare a dormire e accarezzò dolcemente il corpo freddo del marito che immediatamente si alzò in piedi come per andarsene. Fu però bloccato dalla moglie più giovane che scoppiò a piangere. Allora M’Njira l’abbracciò e rassicurò le altre che andava tutto bene.
M’Njira pensò per un attimo e poi disse alle mogli che aveva fatto un sogno terribile che si prestava a varie interpretazioni. Tuttavia non volle rivelare il contenuto del sogno. Allora Ngilu sussurrò qualcosa alle altre mogli e tutte uscirono dalla stanza lasciandovi solo la più giovane a tenere compagnia al marito per il resto della notte.
Sì. La famiglia che un tempo era stata tanto numerosa, ora stava perdendo i suoi membri uno dopo l’altro a causa della maledizione caduta su di loro. Era come un albero che si secca; un “albero genealogico” che si estingue.